ANNO VII FASC. 3-4. MARZO-APRILE - 1937-XV
LA PORTA ORIENTALE
RIVISTA MENSILE DI STUDI SULLA GUERRA E DI PROBLEMI GIULIANI E DALMATI
Direttori: Bruno Coceani, Federico Pagnacco - Giuseppe Stefani
Fra i più valorosi patrioti che l'Istria abbia dato in questi ultimi suoi periodi di storia, un posto certamente notevole lo occupano per la nobiltà e la tenacia delle idee i due piranesi Domenico Fragiacomo e Dino Vatta, nei quali e attraverso i quali, sembra balzar viva la fede italiana di Pirano e l'animo ora triste ora lieto della nostra gente, Domenico Fragiacomo è una figura troppo luminosa perché abbia bisogno ancora di un ricordo: lo rivedo sempre, il vecchio podestà, mentre con le labbra tremanti per la commozione, pronuncia semplici parole di ringraziamento alle nobili espressioni di Francesco Salata che nella seduta della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria a Pirano ricordava in lui l'uomo delle battaglie, l'uomo vissuto col popolo per il bene solo di questi e della città.
Nel gennaio del 1928 Domenico Fragiacomo moriva; lo seguiva a quattro anni di distanza - Dino Vatta, che, se nell'Istria non poteva contare di una popolarità così fervida come quella del podestà delle tabelle bilingui, tuttavia era a Pirano noto al più umile popolano, quale spiccata figura di nobile uomo, e soprattutto per la sua più che trentennale opera di segretario comunale, dove affianco del Fragiacomo aveva lottato nelle più belle imprese.
Certo la voce di Dino Vatta lo stesso nome si prestava ad una facile popolarità era conosciutissima in Istria per la spontaneità dell'ispirazione e la fermezza delle sue idee, la nobiltà degli accenti e la facile vena poetica pur così vibrante e passionale.
La vita del Vatta non presenta come quella del Fragiacomo un susseguirsi intenso di episodi, ma si svolse calma nella sua Pirano, dove era nato nel 1858. Da giovane frequentò le classi della scuola reale, inscrivendosi quindi al politecnico di Graz; ma per ragioni di famiglia dovette sospendere in breve gli studi. Tornato a Pirano venne assunto all'Ufficio catastale per passare nel 1892 quale impiegato nell'ufficio comunale dove poco dopo occupava la carica di segretario che resse con amore e zelo sotto i podestà Vatta, Fragiacomo, Ventrella, Bubba e Lugnani, i quali ebbero in lui oltre ad un segretario di vedute e consigli ottimi sotto ogni aspetto, un amico sincero, devoto e laborioso.
Di sentimenti italiani fin dalla nascita, fu perseguitato dalla gendarmeria austriaca e più volte rischiò la prigione per l'animo suo che lo portava a manifestare apertamente le sue ferme idee di li bertà. Dino Vatta era presente a tutte le dimostrazioni, quando per le piazze e per le vie di Pirano germogliava e fioriva sotto la Lega Nazionale l'amore per l'Italia. Allo scoppio della guerra venne subito arrestato ed internato nel castello di Göllersdorf e trascinato dinanzi al tribunale militare, sotto l'imputazione di aver scritto diverse poesie contro il governo austriaco, processo che lo dichiarava «poco buon patriota» e che portava come conseguenza l'internamento a Oberhollabrun, ove rimase sino alla fine della guerra.
Ritornato a Pirano, assunse nuovamente la carica di segretario comunale, carica che tenne fino al giugno del 1926. Prima di abbandonare il posto, ove per vari anni aveva servito fedelmente il suo paese natio, l'amministrazione del comune memore dell'attiva e feconda opera da lui svolta, volle dar prova di attestazione affettuosa al solerte segretario con una cerimonia solenne alla quale parteciparono le autorità civili, politiche e militari, i rappresentanti delle varie associazioni cittadine ed una vera folla di popolo. In tale occasione gli impiegati comunali offrirono a Dino Vatta una medaglia d'oro accompagnata da una artistica pergamena, recante la seguente dicitura: «Al cav. Dino Vatta, delicato cantore della nostra passione italica, sofferta fieramente nei campi d'internamento austriaci, nell'ora dell'abbandono dal posto di segretario comunale, per quasi nove lustri coperto, l'amministrazione comunale che in lui perde un collaboratore integro e solerte, i compagni di ufficio che lo ebbero capo oculato ed imparziale, riconoscenti offrono. Pirano, 1881-1926. Questa la vita semplice e di onesta operosità di Dino Vatta che, in occasione della sua morte, Francesco Salata ha così riassunto: Funzionario operoso, cittadino esemplare, scrittore e poeta degno di maggiore notorietà».
Il Vatta ha scritto molto nella sua lunga vita: fu buon poeta in lingua e vernacolo e delicato cantore della nostra passione; però fu sempre restio a pubblicare i suoi versi e soltanto poche poesie vennero alla luce, sparse su giornali e pubblicazioni di beneficenza: Pur tuttavia i suoi versi: «All'Istria» vennero resi noti ad una cerchia maggiore di lettori che non fosse quella ristretta della provincia, nella raccolta dei poeti dell'Italia irredenta che Giuseppe Picciola pubblicò a Firenze.
Ben poco ei rimane della sua produzione giovanile, ma già nel 1878 a Graz, quando era ancora studente, scriveva« In morte di Vittorio Emanuele II», poesia che per i troppo palesi sentimenti di italianità gli portava come conseguenza l'arresto e la condanna a 48 ore di carcere duro, che scontò nelle prigioni di quella città. In questo periodo scrisse pure un'operetta in tre atti «All'Università», musicata da Marquardo Schiavuzzi e rappresentata per la prima. volta a Pirano nell'allora Casino Sociales la sera del 12 marzo 1893. L'operetta venne nello stesso anno raccolta in opuscolo e pubblicata dalla tipografia Cobol e Priora a Capodistria sotto lo pseudonimo di Dino Nasica.
Già incomincia a notarsi nel Vatta quella vena melodica che doveva da una parte portarlo a cantare la vita del popolo, dall'altra ad intonare con accento ora doloroso ora vibrante di fede le parole della passione per la patria. Fu poeta occasionale è vero, e una buona parte dei suoi versi vivono solo nel tempo in cui vennero composti, ma pare qua e là vi si notano accenti sinceri e nobili che raggiungono anche l'impeto carducciano: del Carducci infatti fu seguace convinto, e sempre ammirò la forza irruente del poeta, che aveva spesso ricordato l'Istria nei suoi versi.
Prendendo occasione da un qualsiasi avvenimento, Dino Vatta sapeva cogliere da questo lo spunto per una delle sue improvvisate poesie, tanto più generose quindi e spontanee, tutte un inno di esaltazione e di continua speranza.
Al primo gruppo delle poesie popolari appartiene: «La salinarola piranese», canto che in breve passò di bocca in bocca, e più ancora la «Canzone piranese» che scritta nel gennaio 1895 è ancora oggi notissima in mezzo al popolo: accanto all'amore verso la città natale, il poeta è spinto a quello più grande verso la patria.
Va Piran in mezzo all'onde
Come spinta da un martel,
Ma sto mar, 'ste bele sponde
Xe tesori dai dal ziel...
Tuta l'Adria va zirando
De Piran el mariner
Co le barche che svolando
Come osei le passa el mar.
Tutti ricordano questa schietta, vibrante descrizione di Pirano e del suo popolo: ma la musa triste ed accorata del poeta si fa già sentire quando nel dedicare pochi versi al diletto amico Vincenzo Parenzan, nel giorno delle nozze, intona un canto di fiero dolore; forse una nota troppo mesta per un giorno riservato a canzoni di sola gioia.
Ma
Penso a le lotte che dobbiam combattere
Se a nepoti serbata
Vogliam de padri la divina lingua.
Prego sin data a' tuoi figiluoli un'anima
Quale fu a te largita,
Ch'adorin prego come noi la patria
E il desiato giorno
Vedan di pace finalmente sorgere.
Ecco il mio voto, e non saprei più nobile
Mentre tutto d'intorno
Ti favella di giola, altro offerirtene.
Nel primo anniversario delle famose giornate del novembre '94, le giornate delle tabelle bilingui, quando più serrata si faceva la lotta contro la continua minaccia degli slavi, non poteva mancare la voce nobile del poeta; ma in questi anni più che alla sua Pirano si rivolge all'Istria tutta: ne diviene il vate che incita alla resistenza, che presago si fonda sulla speranza: la vede triste questa terra, ma
in cor, feconda di speme vivida
la fede brilli, siccome il fulgido
tuo sole nei clelo latino
e sia salda qual rupe de l'alpe.
Oh, si, bell'Istria, gemma de l'Adria,
e i verdi coill e i piani prosperi,
e i bruni castelli merlati
vedran sorgere il dì de la gloria.
Nell'agosto 1902 il Vatta indirizzava al Carducci una sua composizione: «Canta vate immortal», ove incitava e pregava il grande poeta a scuotere gli italiani ed a spingerli ad una maggiore comprensione della nostra vita. La composizione, per la sincerità degli accenti e la passione che il poeta sa infondervi pur con ripetizioni di concetti già in altre poesie espressi è veramente nobile:
Oh tu sommo cantor da San Petronio
tu disfrena da 'l cor vibrante il cantico
per il mio povero suol.
Tu sol puol tergere con la cetra le lagrime!
Canta vate immortal quel che non possono
I miei versi cantar; canta che impavidi qui dobbiamo lottar sin che de l'anima
ogni vita disperdasi.
Oh, qual vate cantar può degnamente.
tutta la serie di gloriose gesta
le imprese audaci e i nobili cimenti
onde al grande
ha risuonato il nome de l'eroe
lungo i latini americant lidi?
Ed ecco il poeta descrivere queste prime imprese dell'eroe dei due mondi i «dì del Salto», la conquista della Luisa, e Santa Caterina e Santa Vittoria
e avanti, avanti e sopra il mar e in terra
sempre combatte e se non è vincente,
non è mai vinto
Ma Garibaldi si volgeva ormai all'Italia: quella era la sua patria, quello lo scopo della sua vita. Ogni nave portava a lui le voci di nuovi avvenimenti: l'eroe le ascolta e salpa verso l'Europa.
Vola o naviglio sovra l'onda immensa
siccome il cuore di colui che porti,
su l'onda flera e libera siccome
l'anima sua:
vola naviglio ed a l'ausona sponda
t'accoglierà d'un popol l'entusiasmo,
e de la storia ne l'eterno libro starà il tuo nome!
Garibaldi è giunto sul suolo italiano: Luino, Morazzone e la grande avventura di Roma! Egli corre alla difesa della città, offre il suo valido aiuto e quello delle sue schiere garibaldine: l'esercito di Roma e mette in fuga,
O superbo Oudinot milantatore
or che tuona i cannone da gli spalti
de la Cittade eterna e a ferro bianco forte ti assale
oh, perchè non ripeti anco una volta
che non si batton gl'Itali soldati?
Ma la repubblica è tradita; gli eroi più generosi cadono. Ed ecco la sublime ritirata su per le balze ed i dirupi, la morte di Anita, e solo e triste l'eroe incamminarsi verso il nuovo esilio. Ma dall'esilio ritorna l'eroe, e nuove vittorie lo attendono, nuove imprese generose, fino a quella che tutte le riassume: l'impresa dei Mille. È forse quel fuoco stesso che portò gli italiani al patto di Pontida che oggi conduce allo scoglio di Quarto
a piccoli manipoli i gagliardi,
quando la voce de 'l Nizzardo fiera,
vinte le angosce de 'l dubbioso spirto,
disse: partiamo.
Calatafimi: tra il fiero grandinare delle palle, coprendo il suolo di morti e di feriti, tra prodigi sublimi di valore, le sette terrazze sono conquistate ad una ad una al nemico.
Unn scarica a 'l plè di ognuna, e poscia una corsa,
una mischia disperata;
sette volte così, poi in fondo aperta,
Calatafimi.
Di vittoria in vittoria tutta la Sicilia è sua, tutto il napoletano. Poi dona il regno, e povero, come povero era venuto, si avvia verso la sua Caprera, portando nel cuore il primo dei suoi voti: O Roma o morte. Ora l'eroe, come il vento che si acquieta dopo il fiero infuriare dell'uragano, tace nella sua isola: ma è calma breve. Nuove speranze gli si aprono nel cuore; ecco nuove lotte nel Trentino, e poi Mentana e in fine Digione.
E l'epopea finisce! Garibaldi vive a Caprera, ma l'eroe non fulminerà più gli oppressori sui campi di battaglia; egli è finito! E con invocazione veramente nobile così il Vatta chiude il suo poema, che è tutto un ammonimento ed un incitamento:
Garibaldi da la tua Caprera
ove riposi eternamente grande,
ove il popol d'Italia oggi s'aduna
e su 'l tuo avello
piega la fronte e memore diventa de la gloria Immortal de 'l suo riscatto; sorgi un istante e con la voce flera,
suscitatrice d'alti entusiasm,
con la voce dolce confortatrice su i campi del caduti,
con l'aspra voce udita da i tiranni
e dal codardi;
grida ai figll d'Italia; al più possenti
ed agli umili, ai vecchi ed ai fanciulli,
a tutti, a quel che bramano il passato
tribolatore,
de l'avvenire a tutti gli impazienti,
a quel che 'l sol del mezzogiorno scalda
ed al figli de l'Alpe; grida, o forte, che questa Italla
dev'esser grande entro le sue barriere,
di libertà maestra a l'universo,
maestra di progresso e di giustizia
ed una e forte.
Grida a coloro che di cento vesti
ti coprono chiamandoti maestro,
che italiano sol fosti e fu il tuo grido:
Viva l'Italia!
Anche dai pochi versi che ho citato, si può trarre un giudizio sulla natura di questo poema che non vuole essere altro che un ricordo della vita generosamente operosa del grande eroe: le sue geste devono essere agli italiani stimolo per l'ultima impresa.
Se in molti punti l'ispirazione è fredda ed un certo meccanismo di forma non riesce a rendere pienamente lo spirito del poeta, e qualche lungaggine nella descrizione dei combattimenti rallenti l'indole rapsodica del canto pur tuttavia l'entusiasmo del Vatta si scopre in ogni verso; ogni parola sembra risuonare più intensa e vibrante nella descrizione della bellezza terribile e sublime di quei giorni: nuovo incitamento agli istriani per la resistenza. Questo il merito del nostro poeta che, ripeto, rimarrà nella storia delle provincie venete come uno dei più nobili suscitatori di patrio entusiasmo.
Quando nel 1908 il erremoto distruggeva Messina, Dino Vatta scriveva l'ode «Ora di pianto», in cui si sente sincero lo strazio dell'anima sensibile del poeta. Così nuovi sentimenti di italianità tro- vava nei versi «Per l'inaugurazione del teatro Tartini» (1910) e «A Portorose» (1912), in occasione di una festa della Lega Nazionale.
Il grande dolore per la morte immatura della figlia che il 20 agosto 1912 periva in tragiche circostanze, fa un grave colpo per la sua forte fibra; e In memoria della scomparsa il poeta volle perpe- tuare nel primo anniversario della morte con un gruppo di versi, che furono stampati nell'Idea Italiana di Rovigno, e nei quali l'amore ed il dolore del padre si accompagnano alla speranza, ultima ancora, di rivedere un giorno la figlia in un'altra vita. Versi questi che commuovono e convincono. Dall'«Idea Italiana», i versi pubblicati nell'agosto e dicembre 1912 furono quindi raccolti in opuscolo e ad essi aggiunta una terza parte, scritta nell'agosto del '13; in complesso oltre 400 versi nel metro de «L'eroe» che il Vatta in questo torno di tempo tiene come suo modello.
Gli amici, ai quali questa edizione fuori commercio, in numero limitatissimo di copie, è dedicata «non cerchino pretese letterarie che non esistono, ma se avranno la pazienza di leggerli, dicano invece quando saranno giunti alla fine: povero padre. Ma forse pensa il poeta col pianto ritornerà anche la pace nel cuore, ma non più il sorriso:
Addio bei sogni d'un'età fuggiti,
sogni fulgenti d'ideall santi,
sogni infiorati d'un sorriso arcano
ch'ora è singhiozzo;
addio canzoni ne le patrie feste
sempre inneggianti a la latin stirpe,
sempre frementi d'orgogliose brame
per in mia terra;
addio speranze benedette e fere
di redenzion, di libertà, di gloria:
addio canzoni d'un'eterna lotta
eccitatrici
Ma ora che importa tutto ciò al poeta? Reso scettico dal dolore, non vede intorno a sé che malinconia e tristezza. Fu grande questo dolore per la morte della figlia e per qualche tempo il poeta tace: ma lo scoppio della guerra, l'incalzare degli avvenimenti, il lungo processo al tribunale militare austriaco di Vienna, l'internamento nell'ergastolo di Göllersdorf trovano di nuovo Dino Vatta più amaro, più triste l'alflere dei vecchi patrioti, il costante suscitatore di passioni patrie; tutta una serie di poesie, tra le migliori del Nostro, furono scritte in questo periodo che va dal 1915 al 1918. Ricordo, fra le altre, L'esules (ottobre 1915); il «Brindisi degli internati» dicembre 1915): tutte un canto, tute una speran za, tutte un fremito per la patria lontana. Riporto il soneto Ad una rosa di Göllersdorf, che, sotto la semplicità dell'espressione, nasconde un'anima profondamente sensibile e delicata.
Lo sanno tutti che sei bella, o rosa
di Göllersdorfer nel giardin sbocciata:
si, tu sei bella e tanto se graziosa con la cara corolla vellutata:
hal smaglianti colori e se' odorosa
quanto ogni rosa su la terra nata:
di te s'adorna ogni fanciulla e sposa
ti pone sul sen tutta beata.
Eppur non t'amo, non mi sei gradita sebben io li ami tutti quanti i fiori.
Nel mio paese tn non sei fiorita
e coi profumi, con u bel colori
tu non mi parli de la terra avita.
ma di pianti mi parti e di dolori.
(Nell'ergastolo di Göllersdorf Maggio 1016)
Ma l'esilio è duro: non un po' di sole che riscaldi, non un po' di luce; solo vento e neve e pioggia che per le fessure penetrano nella cella e recano uno sgomento ancor più forte «nel cor che soffre de l'attesa e freme e palpita di speme». (Equinozio nordico 20-22 settembre 1916). Nel Natale del '16 ritorna a cantare con mesti accenti l'esilio e la speranza; ma anche tutto il 1917 il Vatta doveva passare nel triste ergastolo, infiacchito nel corpo, ma non domo ancora. Di quest'anno sono: «Per una viola (22 febbraio), «Bevendo due bottiglie di vino d'Istria nel castello di Göllersdorf (marzo) ed il «Natale 1917», dove accanto alla malinconia per le tristi giornate di Caporetto, brilla sempre viva e costante la fede nella speranza di una riscossa:
Squallido, cupo come la nordica
terra d'intorno, come la plumbea
cortina di nebbia che oscura
ogni raggio del sole fulgente.
giunse il Natale terzo d'esillo,
che non ci trova più nell'ergastolo,
ma sparsi, raminghi tra gente
sempre avveran a l'italico nome.
E questo terzo Natal più lugubre
de gli altri ancora venne tra gli esult:
el porta nel fronte scolpita,
Caporetto, la triste parola.
Ma pur la fede nel cor de l'esale
fermon siccome nel di più prosperi,
gli dice con voce amorosa:
non temere, verrà la riscossa.
E questa fede sfida ogni turbine
ne mai vacila anche se il barbaro,
vampante d'orgoglio e livore,
nuovi sogna trionfi e delitti.
Orsù fratelli, vuotiamo i calici
con la sereena fede ne l'anima
e il brindisi tuoni tremente
Viva il giorno di nostra riscossa.
Ma finalmente il santo voto è compiuto; finalmente il poeta poteva prorompere nel grido tante volte trattenuto sulle labbra, unire il suo entusiasmo a quello del popolo in festa, e lanciare gli evviva frenetici al tricolore sventolante superbo sulle torri delle città. Oramai l'animo del poeta, reso più limpido, è un ruscello lieto di canti e di suoni; ancora, più volte rivolge i suoi versi «All'Istria» (nov. 1918), ma non più tristezza e malinconia.
Ne l'albe pure del nostro italico cielo ridente
o nei purpurei
tramonti del veneto mare;
ne le calme, o ne l'aspre tempeste;
nel duolo cupo del tuo servaggio,
o assurta al gaudio dolce del liberi,
tu sempre, e mia terra, richiami
su ogni labbro parole d'amore.
Ora può ricordare la grande anima del Carducci, ritornare con la memoria agli anni della sua giovinezza, quando
chiesi al poeta grande d'Italia
che un dì il saluto da San Petronio
nel novo suo verso ti volse...
di cantar quel che indarno lo voleva:
ma con lo sdegno fiero di un'anima
fremente d'ira, mentre l'Italia
col vecchio nemico trescava
obliosa di tutto, rispose:
altro che canti ora ci vogliono
per isvegilare dormenti e immemori
pensiero del gran Machiavelli
ne lo stile di Tacito. forse.
Ma l'Italia assurse a una grandezza sperata solo nei sogni e, quando, tra i raggi fulgenti, arrise la vittoria nel cielo di ottobre, quando i primi fanti toccarono queste sponde, allora certo egli il grande Vate
...desto a quel foco veemente
ha disciolta la balda canzone
che di sua vita fu irresistibile
santo desire, e Italia, Italia
tuonò per il cielo radioso
Il novello saluto del vate.
Nel dicembre scriveva ancora «Terra dei morti, terra di forti», e il Natale 1918, che questa volta trovava il poeta nella sua terra, fra i suoi cari.
In occasione della consegna alla città dei due vessilli, il tricolore ed il bianco drappo di San Giorgio, il poeta si rivolgeva alle donne della sua Pirano, che sempre avevano saputo mantener intatta la fede santa per la patria:
O donne forti de la mia Pirano
voi, nel dolor del secolar servagglo
alto serbaste de la patria il santo
culto nel core.
e quando tristi più che mal gli eventi
volgean per queste derelitte terre
con guardo acceso l'avvenir miraste
pien di promesse
e corser anni su le vecchie torri
donde San Marco del passato parla,
ma a voi nel core mai languil la fede
balda degli avi.
Ma ormai il poeta era stanco: le lunghe lotte sostenute, le fatiche dell'ergastolo gli avevano prostrato il corpo; sono ancora gli ultimi fremiti del suo cuore innamorato: è nel giorno dell'annessione dell'Istria all'Italia che dal petto gli prorompe il più fiero grido di giubilo; gli sembra che la stessa terra, lo stesso mare purissimo elevino un'onda di suoni e di canti per il limpido cielo.
..... Su da le gelide
tombe silenti i morti levansi,
(son quelli che sceser sotterra con tal grido nel cor soffocato)
e ne le occhiaie vuote scintillano
lampi di glola, e Italia, Italia
ripeton con voce gioconda
mai sentita nel campi del pianto.
Sembra quasi che a questo supremo grido d'amore si uniscano in festa gli ulivi stessi, le quercie, i vigneti. Ma è soprattutto a voi, fanti sublimi d'Italia
a voi il saluto d'amore mandano
Muggia e Pirano, Parenzo ed Egida
che un giorno l'italico vate
à chiamate le gemme del mare.
Come al mattino, dopo una torbida
notte in tempesta, col primo aorgere
del fulgido sole si sveglia
la natura e prorompe una festa
plena d'amore, d'immenso giubilo;
tale quest'Istria, vissuta memore
ne l'ombra del triste servaggio,
in fra l'ire di gentl nemiche.
quando dal Plave le voel giunsero
de la vittoria piena d'Italia,
ad scosse, si cinse di forl
e festante spiegò il tricolore.
L'Austria stava ancora pronta a ghermire: ma vennero della gloria, della libertà definitiva.
Oh, qual divini giorni discesero
su questa terra, che, d'oltre un secolo,
tra mille amarezze e dolori
Ii attendeva con fede mai vinta!
Ed oggi il premio di tanta nobile
fede è raggiunto: là dove libero
ventò di San Marco II vessillo
sta spiegato l'Italico drappo,
e madri e spose e vecchi e giovani,
tutta una gente, sorride e lagrima
fremente d'un gaudio sublime,
che l'umana favella non dice.
Ancora due ultimi inni per il popolo, inni che musicati dal Bevilacqua sono oggi i canti popolari della nostra gente: quello dei pescatori e quello dei marinai.
Si conchiudeva così l'opera di questo nobile poeta piranese, che se non ha lasciato un'orma indelebile con la sua produzione poetica, resterà se non altro nel nostro ricordo e nella storia di queste terre, come un efficace propugnatore della buona causa: il Vatta stesso del resto, che mai ha raccolto in volume i suoi versi, riconosceva a questi l'assoluta mancanza di pretese letterarie e la semplice occasionalità dell'ispirazione.
Se molte, frequenti ripetizioni appariscono evidenti nei suoi versi, non si può negare ad essi una ardente e sincera pas- sione, che fa del Vatta un cantore nobile e delicato della passione istriana nei giorni della dominazione austriaca e nell'entusiasmo della redenzione: quale poeta civile. Dino Vatta figurerà quindi sempre degnamente accanto ai nobili spiriti della terra istriana.
BRUNO GIRALDI
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