(Testo preso da L'Istria e il diritto d'Italia, 1918)
"Se la storia ha ancora un qualche valore, nella rivoluzione di idee e di principi che caratterizza il momento che attraversiamo, essa sta ad attestare in modo irrefutabile dell’italianità dell’Istria. Risulta da essa evidente che la popolazione italiana è la sola popolazione autoctona nel paese. Non solo ma risulta dimostrato altresì che gli istriani, fieri della loro civiltà latina, conservarono immutata, pur attraverso alterne vicende, la lingua e la coscienza nazionale.
Gli slavi vi fecero la prima fugace apparizione nel secolo IX, come è dimostrato nella storia da un documento del più alto significato che si conserva nel Codice Marciano di Venezia.
Al principio di quel secolo, qualche tribù slava, proveniente forse dalla vicina Carniola, si infiltrò a poco a poco nella confinante parte nord orientale della provincia, la parte più povera e meno abitata; e di là faceva frequenti scorrerie nel territorio più prossimo, con pregiudizio dei possessi istriani.
Gli Istriani si querelarono di ciò al duca Giovanni che governava allora la provincia per ordine di Carlo Magno. E alla presenza dei <missi dominici> venuti ad ispezionare la provincia, in una solenne adunanza tenutasi nell’804 e conosciuta sotto il nome di « Placito del Risano» o «Placito di Carlo Magno», il duca, sentite le doglianze degli Istriani, così rispondeva loro:«De sclavis autem unde dicitis, accedamus super ipsas «terras udi resideant, et videamus udi sine vestra damnitate valeant residere; ubi vero aliquam damnitatem face. ciunt, sive de agris, sive de silvis, vel roncora, vel ubicumque, nos eos eijciamus foras. Si vobis placet ut eos «mittamus in talia deserta loca, ubi sine damno valeant «commanere, faciant utilitatem in publico sicut et coeteros «populos».
«Poiché vi lagnate degli Slavi, ' andiamo sulle terre «dove risiedono, e vediamo dove possano rimanere senza « vostro danno ; se poi vi recano danno nei campi, nei boschi, nei ronchi o in qualsiasi altro luogo cacciamoli « fuori. O, se vi piace, mettiamoli in luoghi deserti, ove posssano essere utili». Documento importantissimo questo, che conferma da un lato la latinità dell’Istria d’allora, dall’altro l’intrusione di popolazioni slave che nulla avevano di comune col paese.
Ulteriori penetrazioni di slavi — morlacchi, croati e di altre razze, si ebbero nell’XI e XII secolo, e più specialmente nel XVI e XVII secolo, quando la popolazione dell’Istria, diminuita ed esausta per le lunghe guerre sostenute e per le pestilenze che in quei tempi infierirono, non aveva braccia sufficienti per accudire al lavoro dei campi. Ma fu sempre penetrazione non di un popolo, che potesse far valere la propria individualità e magari imprimere la propria impronta al paese, ma solo di tribù di varie stirpi, anch’esse venute saltuariamente, senza unità politica e senza un programma di conquista.
Infatti, fino a circa quaranta anni fa, l'Istria non aveva conosciuto una vera lotta nazionale. Gli slavi abitanti in provincia erano vissuti fino allora in buona armonia cogli italiani. Dediti quasi esclusivamente all’agricoltura — piccoli proprietari o coloni — di povere condizioni economiche, di scarsa coltura, mancanti di una coscienza nazionale e perfino di una coesione politica tra sloveni abitanti l’Istria settentrionale e croati stabilitisi nella parte centrale e meridionale, essi vissero fino a questi ultimi tempi affatto estranei e disinteressati dalla vita politica del paese.
La loro lingua — informi dialetti slavi molto diversi un dall’altro — non ebbe mai la virtù di penetrare nella vita del paese, ed era da essi usata solo nei rapporti famigliari.
Oltre a ciò, la superiore coltura degli italiani, i continui contatti colla popolazione urbana, i costanti rapporti economici con essa e quindi il bisogno di conoscerne la lingua; la tendenza della popolazione rurale slava, accentuatasi collo sviluppo delle città principali, di ricerca di lavoro più rimunerativo nei maggiori centri italiani — tutto ciò costituì sempre una viva forza di attrazione delia popolazione slava verso l’elemento italiano e quindi una inevitabile assimilazione.
Appena verso il 1870 si notarono i primi seri indizi del movimento slavo nell’Istria. E, sia detto senz’ira, non tanto per un risveglio del sentimento nazionale, almeno tra le masse, nè per uno spirito di ribellione che non appariva giustificato, quanto per l’intervento di un fattore estraneo che abilmente se ne servì per i suoi fini.
Era il tempo in cui il Governo austriaco, preoccupato dell’espansione italiana che coll’ultima guerra aveva portato al Iudri il confine d’Italia, ed allarmato della ripercussione che l’avvenimento aveva avuto e delle speranze che aveva suscitato nelle popolazioni italiane ancora irredente, credette giunto il momento di dover deprimerne con mezzi estremi il sentimento nazionale, e snaturare la bimillenaria impronta di latinità che costituiva il titolo più tangibile delle aspirazioni italiane su quelle terre. E poiché, in precedenza, gli era completamente fallito il tentativo di germanizzazione — sopratutto per mancanzza di ogni substrato nel paese, pensò questa volta alla slavizzazione per la quale poteva disporre della popolazione slava da aizzare ed usare contro gli italiani.
Ricorsero al clero slavo, che rinforzò man mano con sacerdoti fatti venire da altre province, soppiantando gradualmente i preti italiani. Fu questa la prima fase nello svolgimento del programma, fase meno clamorosa ma non però meno efficace.
Infatti per chi conosca l’autorità e l’influenza del clero in Austria, ove oltre alle mansioni spirituali esercita poteri - civili- essendo affidato ad esso l’ufficio di stato civile — e l’appoggio che gli presta il Governo di cui fu sempre un valido puntello, è facile comprendere con quale zelo e con quanta efficacia disunpegnasse l’incarico, specie tra una popolazione quasi primitiva e ciecamente credente.
In seguito, a questa che fu l'avanguardia si aggiunsero altri elementi e specialmente i maestri, che infrattanto erano divenuti numerosi coll’aumento delle scuole slave. E si costituì uno stato maggiore che, formata una organizzazione politica-, si pose apertamente a capo del movimento.
Colla tolleranza, anzi col compiacente favore del Governo, la Chiesa e la scuola divennero così fucine di propaganda.
Nè col tempo mancarono i mezzi finanziari, che fluirono generosamente da Zagabria e da altri paesi slavi, ed almeno indirettamente dal Governo stesso.
E cominciò la lotta per la conquista del potere. Imbaldanziti dai primi successi elettorali, che li avevano facilmente portati alla conquista di alcuni comuni di campagna di popolazione mista, presunsero di divenire in breve i dominatori del paese. E il fanatismo dei capi non ebbe più freno. Le elezioni, bandite come una crociata dal pulpito e dall’altare, si succedettero con sempre maggiore violenza.
Dal sistematico, barbaro taglio delle viti e da altri mezzi di rappresaglia a punizione degli infidi, sii giunse ad atti di violenza a mano armata, come quando nel 1897, durante la campagna elettorale, una turba di forsennati, armati di ogni arma, posero l’assedio a Parenzo, la sede degli uffici provinciali, minacciandone l’assalto.
La parola d’ordine era « gli italiani in mare ». Ed uno dei loro capi non si peritò di proclamarlo in una memoranda seduta della Dieta provinciale.
Fu una lotta esasperante, che assorbì una somma di energie sottratte così a più utile impiego. Ma gli italiani resistettero col più alto spirito di sacrificio, confortati pur dall’appoggio di una parte della stessa popolazione slava che disapprovava e non volle mai associarsi al movimento, desiderosa di conservare cogli italiani gli antichi buoni rapporti fino allora esistiti con reciproco vantaggio.
Comprese il Governo che vano sarebbe riuscito ogni sforzo in questa- sola direzione, data la tenace resistenza degli italiani che pur sempre godevano l’appoggio della grande maggioranza. E ricorse ad un'azione concomitante che avrebbe per altra via indebolita la loro posizione e gravemente pregiudicato il carattere italiano del paese.
Conviene si sappia che, fino a circa quaranta anni fa, la lingua italiana era, diremo così, la sola lingua d’uso e di comunicazione; lingua che gli slavi stessi, salvo pochissime eccezioni, conoscevano ed usavano in tutti i rapporti, della vita sociale. Già colla Patente Sovrana del 24 aprile 1815 l’Austria aveva riconosciuto l’esclusivo dominio della lingua taliana nei procedimenti giudiziari. Il 14 del Regolamento di procedura civile introdotto per l'Istria disponeva : « Le Parti, non meno che i loro procuiatori, dovranno nei loro atti servirsi dell’idioma italiano ». Non solo: ma l’italiano era divenuta l’unica lingua d’affari in tutti gli uffici dello Stato, politici, giudiziari e amministrativi, il più solenne riconoscimento ufficiale dell’italianità del paese!
Interessava al Governo per il suo programma di snazionalizzazione che questo stato di cose mutasse a favore degli slavi e a danno degli italiani. E alla chetichella, senza una disposizione di legge che facesse clamore, lasciò a poco a poco penetrare la bilinguità, anzi la trilinguità in tutti gli uffici pubblici dello Stato. Fu atto di suprema ingiustizie, se anche in apparenza, giudicato in astratto, possa non sembrar tale. Infatti, pur a prescindere dallo stato di fatto fino allora esistito e che era il naturale risultato del diverso grado di sviluppo della lingua italiana, di conoscenza quasi universale in Istria, in confronto dei vari dialetti slavi ivi usati, nessun reale bisogno reclamava il provvedimento. E lo aveva riconosciuto fino allora, come abbiamo rilevato, lo stesso Governo! Non solo: ma l’uso della lingua slovena e croata, a voce ed in iscritto, aveva creato oltre a tutto l’assurdo che la stessa popolazione slava meno istruita trovava, nei primi tempi, difficoltà a comprenderle. Dunque non innovazione giustificata dal bisogno o dal grado di coltura della popolazione slava, nè comunque utile; ma solo una soddisfazione alle pretese di pochi agitatori interessati, e più di tutto un'arma efficacissima al fine di snaturare il carattere italiano del paese.
Ed il colpo fu veramente grave, ed ebbe per gli italiani le più funeste conseguenze. A non dire dello stato di inferiorità in cui venivano posti, data la loro non conoscenza delle lingue slave delle quali fino allora mai avevano sentito il bisogno, essi si trovarono improvvisamente nella difficoltà e spesso nella impossibilità di trattare direttamente i loro affari nei pubblici uffici.
Specialmente nei procedimenti giudiziari, da quando fu introdotta la nuova procedura che aveva per base l’oralità e l’immediatezza della trattazione, la riforma riuscì loro di grave danno.
Protestarono essi in tutte le forme e con tutti i mezzi contro questo atto arbitrario del Governo che, senza alcun riguardo alla situazione di diritto e di fatto, con offesa a precise disposizioni vigenti, senza che la innovazione fosse reclamata da un reale bisogno, mutava improvvisamente, con così grave loro pregiudizio, il regolamento linguistico che pur avera fino allora ben corrisposto ai bisogni collo stesso suo consentimento.
La campagna promossa dagli italiani contro le «tabelle bilingui», il simbolo esteriore della bilinguità, che culminò colla sommossa popolare di Pirano, dove il popolo abbattè la tabella appena apposta, che fu poi riaffissa e custodita colla forza delle baionette, significò la esasperazione degli italiani contro la nuova sopraffazione.
E se ne rese interprete la Dieta provinciale colla solenne protesta elevata nella sessione del gennaio 1895. Quando il Commissario del Governo, nella seduta d’apertura, si alzò per porgere alla Dieta il saluto di prammatica, la maggioranza italiana, dopo avergli impedito di parlare gridando: «Basta! Non vogliamo saluti, vogliamo giustizia, non bastano le promesse», vivamente applaudita dal pubblico che gremiva la galleria, abbandonò corporativamente la sala mandando deserta la seduta. E nella seduta successiva, con una vibrata dichiarazione del suo Capo, cui seguirono forti discorsi di vari deputati, protestò energicamente contro il procedere ingiusto e partigiano del Governo, accusandolo di non aver più ritegno nel manifestare i suoi intendimenti a favore degli slavi nella grave lotta accesa in provincia fra le due nazionalità, intervenendo come fattore attivo contro i diritti storico-nazionali degli italiani.
Ma tutte le proteste a nulla valsero; e la disposizione ebbe il suo corso. Gli uffici pubblici e specialmente i giudiziari, furono a poco a poco convertiti in una Babele, dove ognuno trattava nella lingua che gli piaceva, la comprendesse o no la controparte. E perfino le pubbliche tavole che costituiscono l’accertamento della, proprietà fondiaria e la base del sistema ipotecario — divennero inaccessibili agli italiani, per la molteplicità delle lingue ond’erano fatte le iscrizioni.
Voleva sembrare equiparazione e fu sopraffazione.
Ma se questa fu la conseguenza più grave della innovazione, non fu la sola. Il nuovo assestamento linguistico rese necessaria l’assunzione di impiegati slavi, di concetto e di cancelleria, che furono fatti venire da fuori, non bastando al bisogno quelli disponibili in provincia. E non valse che gli impiegati italiani si dessero cura di apprendere la lingua slava, per corrispondere alle nuove esigenze.
Le loro qualifiche linguistiche erano il più delle volte dichiarate insufficenti; e molti, disgustati, abbandonavano addirittura la carriera, non potendo adattarsi a quello stato di inferiorità che precludeva, loro ogni avvenire.
D’altro canto, quasi seguendo una parola d’ordine, piovvero da altre provincie, avvocati e professionisti slavi a sfruttare questa nuova fonte di guadagni. E con essi il capitale e le Banche slave, che si insediarono specialmente a Trieste, donde irradiavano le loro influenze tra gli slavi delle province limitrofe.
E dietro ad essi, l’immigrazione su vasta scala di impiegati, operai, ferrovieri, guardie di polizia, gendarmi, guardie di finanza., guardie carcerarie, uscieri, fatti affluire dalle province slave. E tutta questa gente pretese presto di farla da padrona, con atteggiamenti di conquista — sicura dell’appoggio del Governo che si studiava con ogni mezzo di rafforzarne la posizione.
E la lotta nazionale si acuì specialmente ad opera di questi nuovi elementi stranieri che, nel successo del programma di snazionalizzazione, vedevano, oltre a tutto, curato il loro proprio interesse; cosicché in breve volger di anni la vita politica, economica e sociale del paese fu del tutto sconvolta.
In Istria, presero specialmente di mira le città più importanti. Non avendo città proprie, cercarono di insediarsi in quelle degli italiani, cioè in casa altrui, possibilmente giù, al mare, dov’era tanto sorriso di cielo e di vita. Da prima, come ospiti rispettosi del carattere italiano del paese che li ospitava; poi, tosto che il primo nucleo ingrossava un po’, con pretese di diritti nazionali ed affermazioni provocatorie in dispetto - dell'italianità del paese - .
Ed il Governo, ben lieto di questa penetrazione nelle città italiane, sempre fiere e ribelli ad ogni sua seduzione o lusinga, la assecondava, con ogni mezzo. Dove prima i suoi funzionari erano italiani, si studiò di sostituirli, specialmente nei bassi uffici, con slavi fatti venire in gran parte da altre province. Ed il nucleo così ingrandito pretendeva subito la scuola slava ed avanzava pretese linguistiche. E, tanto per apparire al di fuori di una certa importanza, istituiva qualche società che, se pur nella sua attività si riduceva spesso a poca cosa, serviva ad affermare la esistenza di popolazione slava in quel centro italiano.
E più intensa che altrove fu questa penetrazione slava a Pola, la più popolosa città della provincia, dove il Governo poteva più facilmente favorirla. Oltre agli impiegati e funzionari slavi ivi trasferiti nei pubblici uffici, furono man mano allontanati dall’Arsenale di guerra oltre 1000 operai italiani, che dovettero emigrare colle famiglie per procurarsi lavoro in altri cantieri; e a sostituirli furono assunti operai forestieri di altra nazionalità. Più tardi, tra il 1906 e il 1908, cresciuto il bisogno di mano d’opera per l’ampliamento dell’Arsenale, importò circa 3000 manovali bosniaci e croati, che così si stabilirono a Pola colle loro famiglie e, con un anno di dimora, divennero poi elettori in quel Comune. Sistema assai spiccio per alterare i rapporti etnici di un paese.
Ma anche nel suo aspetto esteriore cercò il Governo, dove e come potè, di snaturare la fisonomia italiana del paese. Così quando, recentemente, si diè mano alla costruzione di una ferrovia che da Trieste a Parenzo percorre un territorio abitato quasi esclusivamente da italiani e tocca città e borgate prettamente italiane, ed alla cui costruzione era concorsa con un rilevante contributo quasi esclusivamente la popolazione italiana come la più specialmente interessata, non solo dispose che tutte le scritte e gli avvisi, nelle stazioni, sui treni e lungo il percorso, fossero quadrilingui : tedesco, italiano, sloveno e croato — dando, quasi per pudore, il secondo posto all’italiano, dopo la lingua ufficiale dello Stato — ma impose alle stazioni, presso il secolare nome italiano, una denominazione slava coniata, per l’occasione o introdotta negli ultimi tempi dai propagandisti slavi, denominazione che poi accolse, contro ogni verità 'storica, nella toponomastica ufficiale.
Con questo espediente meschino in sè, ma pur efficace per il valore ed il significato che sarebbe andato acquistando col tempo e per la sanzione ufficiale, oltre a dare una soddisfazione agli slavi e recar offesa agli italiani, si illudeva forse di trarre facilmente in inganno sul carattere nazionale del paese il viaggiatore che non avesse il tempo di penetrarne la vita e di conoscerne il sentimento.
Naturalmente la questione linguistica ebbe la sua ripercussione anche nella Dieta della provincia e vi provocò frequenti, aspri conflitti.
Alla Dieta dell’Istria, la lingua di pertrattazione era stata sempre l’italiano. Già nella sua sessione costitutiva del 1861, essa, lo aveva proclamato, senza opposizione da parte del Governo. Il quale anzi, anche in altre e occasioni successive, aveva riconosciuto come officiale la lingua italiana.
Solo più tardi, quando il nucleo dei deputati slavi divenne un po’ numeroso, essi, non paghi delle giuste concessioni linguistiche che gli italiani avevano loro fatte, pretesero addirittura l’equiparazione, e la sostennero con una lunga e violenta azione ostruzionista, che turbò per vari anni il regolare andamento degli affari.
Gli italiani però non potevano riconoscere il pareggiamento linguistico che, nel caso, senza corrispondere a un reale bisogno, era ispirato a pura tendenza politica.
Infatti, come si è già rilevato, mentre gli slavi nell’Istria — e a maggior ragione i deputati — conoscevano edusavano correntemente l’italiano, gli italiani non conoscevano le due lingue slave, lo sloveno ed il croato. Date queste condizioni di fatto, anche a prescindere dal significato politico della pretesa, l’uso di una sola lingua di pertrattazione, e precisamente di quella generalmente conosciuta, era una necessità. Del resto non si faceva che imitare un esempio del Parlamento di Vienna dove, appunto per l’impossibilità di ammettere l’uso delle varie lingue parlate nello Stato, la sola lingua tedesca è riconosciuta quale lingua di pertrattazione.
Nè si creda che ai deputati slavi fosse con ciò tolta la possibilità di curare gli interessi dei loro elettori, ed anche di usare nel limite del possibile la loro lingua. Oltre ai di «corsi che facevano in italiano — e li facevano se avevano da curare reali interessi! — tutti gli atti, le interpellanze, le mozioni ch’essi presentavano in lingua slava venivano accolte e pertrattate nella versione italiana, la sola compresa da tutti i deputati. Anzi il compiacente Governo, che già tendeva a minare il puro carattere italiano della Dieta, andò più innanzi. Dimentico del precedente ripetuto riconoscimento della lingua italiana come lingua ufficiale, cominciò negli ultimi tempi ad usare la lingua slava, sia nel saluto alla Dieta, sia nel rispondere alle interpellanze ad esso rivolte dai deputati slavi. Era evidentemente l’inizio di una mira più vasta.
Il Governo voleva portare offìcialmente la bilinguità e quindi la snazionalizzazione anche in quel Palladio dell’italianità della provincia. Infatti quando i deputati italiani, facendosi interpreti del malcontento che avevano provocato le innovazioni linguistiche negli uffici dello Stato e preoccupati delle intenzioni ostili del Governo, nella sessione del 1895, vollero fissata nel Regolamento della Dieta la lingua italiana come lingua officiale di ipertrattazione, cioè codificato quello che esisteva di fatto da oltre trenta anni, il Governo per tutta risposta chiuse la Dieta.
Gli italiani però non si arresero. Era troppo evidente la mira del Governo ed il pregiudizio che ne sarebbe loro derivato. E anche quando il Governo, in occasione della riforma elettorale del 1908, esercitò ogni pressione per riuscire nel suo intento, i deputati italiani, pur facendo le possibili concessioni linguistiche alla minoranza slava, tennero fermo alla lingua italiana come lingua ufficiale.
Non era ingiustificato puntiglio, non era sopraffazione, come taluno, ignaro della realtà, potrebbe forse giudicare.
La Dieta era l'ultima trincea, la sola dove il Governo non potesse por piede senza la volontà degli italiani. Era giusto, era doveroso ch’essi opponessero ogni sforzo per salvarla dalla marea snazionalizzatrice che minacciava di travolgere l’italianità del paese, di cui essa era stata sempre il più significante esponente.
Di conserva coll’opera snazionalizzatrice del Governo procedeva alacre ed indefessai l’azione del clero slavo, intesa a snaturare il carattere latino della Chiesa.
Cominciò coll’introdurre nelle chiese di campagna le prediche in lingua slava, senza curarsi del fatto che la popolazione italiana, che pur le frequentava, non conosceva la lingua. Poi, man mano, vennero le preghiere e i canti ecclesiastici in slavo, perfino nelle messe solenni, e ciò malgrado le proteste della popolazione italiana e della stessa popolazione slava cui ripugnava la novità.
Ma tutto ciò non era che una preparazione di quello a cui realmente mirava.
Col pretesto di un vecchio privilegio goduto dalla gente slava ai tempi dei santi Cirillo e Metodio — due santi dei quali fino allora i più ignoravano pur l'esistenza — si fece assertore e propagatore dell’uso della liturgia glagolitica e dei caratteri emiliani nelle chiese dell’Istria.
Era ben più che una riforma linguistica; era un’avviamento all’ortodossia. Infatti un fanatico agitatore croato, il prete Iakic, così scriveva a quel tempo nel suo giornale di propaganda « Il Diritto croato » scritto, come si vede, in italiano : se no, chi l’avrebbe compreso?:« Il vincolo che lega i Russi agli altri popoli slavi è la « ortodossia. Dobbiamo disfarci del romanesimo e della « chiesa latina. Tutti gli slavi devono avere un solo Pastore».
E la cattolicissima Austria lasciava dire e fare in odio agli Italiani, e pur di snaturare il carattere nazionale del paese — benché fosse oltre a tutto evidente lo spirito politico che ispirava tale propaganda!
Ora, pur a prescindere dalla tendenza politico-nazionale e dalla gravità della questione religiosa in sè stessa, è un fatto provato che l’asserito diritto o privilegio che fosse non fu mai concesso nè goduto dagli slavi nell’Istria e neppure nelle province slave limitrofe. Lo hanno dimostrato vittoriosamente colla scorta del diritto canonico e della Storia ecclesiastica vari studiosi istriani.
E siccome il Governo, ad onta di ripetute rimostranze, non si curava di porre fine alla propaganda che, oltre a minacciare la latinità della Chiesa, intaccava la questione nazionale, tanto dall’Istria che da Trieste furono presentati vibrati memoriali di protesta alla Santa Sede, perchè intervenisse colla sua alta autorità.
La Santa, Sede però, pur riconoscendo non spettare quel diritto o privilegio che a quelle chiese che potessero dimostrarne un uso ininterrotto durante gli ultimi quarantanni — e ciò equivaleva a riconoscere che nessuna chiesa dell'istria poteva vantarlo — non seppe o non potè far rispettare la sua decisione. E le cose continuarono nel loro andazzo.
Anche in un altro campo della loro attività i preti slavi facevano della ipolitica anti-italiana.
Per la legge austriaca, come si è già rilevato, l’ufficio di stato civile per i cattolici è affidato al clero. Ne approfittavano i preti slavi per alterare la grafia dei nomi, facendo arbitrariamente apparir slavi nomi di italiani, coni offesa alla nazionalità e con possibile pregiudizio all’atto di far valere diritti civili. Ed anche ciò senza opposizione della Autorità a cui spesso giungevano reclami, e che avrebbe avuto il dovere di tutelare, la sincerità di un ufficio pubblico così importante."
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