Enrico Morovich, autore nato a Sussak di Fiume, fu certamente una personalità particolare.
In particolare, la sua appartenenza alla città di Fiume, terra di confine, proprio per l'immediato confine fu per lui sofferenza: "L'arrivo degli italiani, dell'Italia, le scuole più facili, tante piccole soddisfazioni che nelle scuole ungheresi avrei avute sempre meno, non bastarono per curarmi da un senso d'oppressione dovuto a un mondo geografico d'un tratto scomparso dalla mia fantasia".
Morovich, inoltre, lamentò sempre le scarse competenze nell'idioma appreso in famiglia ma non tramite l'istruzione (era del resto venetofono ma senza approfondite conoscenze della grammatica italiana).
La consapevolezza dell'identità italiana emerge, oltre alle continue menzioni del "nostro" dialetto fiumano, per contrasto nella prosa intitolata Ragazzi croati: "Ricordo che certi nostri piccoli amici che venivano a giocare nel nostro giardino, ma che frequentavano le scuole croate, sapendo tutto di noi attraverso i loro genitori, furono i primi a richiamare la mia attenzione sulla mia qualità d'italiano. Erano fermi accanto a un carro vuoto e, vedendoci passare, dissero nelal loro lingua una frase di spregio. Lì per lì non ci feci caso, forse pensavo di essere un magiaro o un austriaco, chissà?".
Il dialetto scaturisce nelle interazioni famigliari, nei litigi ma anche in situazioni formali: "In stazione, a Fiume, mostrai il passaporto italiano all'impiegato jugoslavo; egli mi disse nel nostro dialetto: La me scusi, ma proprio credevo che la iera un nostro".
Inoltre, il giovane Morovich leggeva l'ungherese per divertimento, pur riconoscendo di conoscerlo poco e di essere stato anche bocciato.
Nella prosa intitolata "Le zie d'Ungheria", una zia paterna e l'altra materna insegnanti nelle scuole ungheresi di Fiume, torna sulla questione linguistica: la seconda l'ha imparata per passione, la prima per necessità. Alla diversa attitudine corrispondono anche due diverse posizioni: una zia era molto fedele a Francesco Giuseppe, un'altra, irredentista, guardava e pensava solo all'Italia.
La propensione filo-ungherese della zia paterna ritorna in "Viaggio con la zia": nel 1915, dopo l'entrata in guerra dell'Italia, la zia "polemizzò un'altra volta alla stazione di Belovar dove chiese dei biglietti per Verocze invece che per Virovitica, come la corresse l'impiegata ai biglietti".
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