È incontestabile rintracciare per tutto il periodo 1866-1914 (anzi in verità già da prima) una fortissima pressione contro gli italiani d’Austria, stretti fra la morsa dell’azione dello stato centrale e dei nazionalisti slavi, ambedue ostili ed intenzionati a cancellare l’identità nazionale italiana.
Questo indirizzo politico ostile agli italiani, sudditi dell’impero ancora dopo il 1866, si manifestò in Venezia Giulia ed in Dalmazia (oltre che nel Trentino) con un insieme articolato di misure ed iniziative: favoritismo verso l’immigrazione di slavi; espulsioni di massa di italiani, di cui 35.000 furono cacciati nel solo periodo compreso fra il 1903 ed il 1913 dal cosiddetto Litorale, ripartizione amministrativa imperiale comprendente le terre giuliane; modifiche arbitrarie dell’onomastica (quindi dei cognomi) e della toponomastica (dei nomi dei luoghi), ambedue slavizzati forzatamente; nomina di vescovi e sacerdoti slavi, per di più accesi nazionalisti, in terre italiane e slavizzazione della stessa liturgia.
Discriminazioni a favore degli slavi nelle assunzioni e promozioni nel pubblico impiego, la burocrazia e la polizia; chiusura di istituti scolastici italiani (che quasi scomparvero dalla Dalmazia) o loro strangolamento economico; brogli elettorali e manipolazione; scioglimento forzato di associazioni e giornali italiani etc. Fra le conseguenze vi fu un drastico calo del popolamento italiano.
In un periodo più breve, i fatti del Balkan si inseriscono nel contesto compreso, indicativamente, fra la fine della Grande Guerra e la stabilizzazione dei nuovi assetti politici e statali. In questo lasso di tempo le popolazioni italiane della Venezia Giulia e specialmente della Dalmazia dovettero subire una gran quantità di aggressioni da parte dei nazionalisti slavi. Quando il Regio Esercito giunse nella regione giuliana, trovò già attive ed esistenti unità paramilitari slave, riunite nell’associazione “Sokol” (esistente, per inciso, già sotto l’Austria imperiale e responsabile di atti come, ad esempio, la devastazione di Sansego).
Lo scioglimento di questi reparti non impedì il costituirsi, ovvero la sopravvivenza, di unità clandestine, appoggiate dal nascente stato jugoslavo e la cui azione, anche terroristica, imperversò per tutti gli anni ’20 e ’30 nelle terre di confine. Fra queste, ad esempio, esisteva la Soča (vocabolo sloveno che designa l’Isonzo): «Ne è presidente sindaco di Lubiana, dott. Dinko Puc. Ogni anno commemora l’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, che si era rivelato centro organizzativo ai servizio di Belgrado».
Lo scomparso impero, avvalendosi delle prerogative concessegli dal concordato con la Santa Sede, aveva sistematicamente imposto vescovi slavi nelle sedi episcopali giuliane e dalmate, che a loro volta avevano portato con sé sacerdoti slavi.
Proprio questi ecclesiastici erano stati per tutto il secolo XIX i maggiori fautori e propagandisti dei nascenti nazionalismi sloveno e croato. Fu così che nel 1918 le autorità italiane dovettero confrontarsi con presuli che utilizzavano le loro cariche per ostacolare il loro operato. Ad esempio, monsignor Karlin, vescovo di Trieste, arrivò a servirsi della solenne messa natalizia del 1918, svoltasi nella cattedrale, per tenere un sermone in cui di fatto condannava la presenza dello stato italiano in Venezia Giulia.
Egli in diverse circostanze espresse in modo particolarmente duro il suo giudizio sul popolo italiano e sfruttò il suo controllo dell’episcopato per impedire che giungessero nella città tergestina sacerdoti dall’Italia. Karlin non fu il solo vescovo ad agire direttamente e pubblicamente contro lo stato italiano, poiché, ad esempio, anche monsignor Škarpa (cognome slavissimo), pastore episcopale di Sebenico, agì in tale direzione, proibendo l’impiego dell’italiano nella predicazione e vietando ai cappellani militari del Regio Esercito d’insegnare nelle scuole religiose e d’impartire i sacramenti ai civili. Può dare un’idea della radicalità di questo atteggiamento ostile ricordare che i capi del nazionalismo croato cercarono di dissuadere la popolazione dall’accettare gli aiuti alimentari distribuiti gratuitamente dall’esercito italiano per rimediare alla malnutrizione degli abitanti ridotti alla fame.
La regione dalmata, occupata dal nascente regno di Jugoslavia, che doveva all’Italia la sua stessa esistenza (fu la marina da guerra italiana a salvare l’esercito serbo in piena ed a consentirgli di continuare la guerra, quindi allo stato serbo si rivendicare una posizione fra i vincitori del conflitto), cadde sotto una “cappa di piombo” oppressiva per gli italiani, moltissimi dei quali furono così costretti a fuggire.
Scriveva fra gli altri Antonio Bucevich, viceconsole italiano a Curzola: «Le nuove condizioni create dall’occupazione iugoslava sono tali che per molti italiani la vita non è possibile, né sopportabile in questi luoghi. Il boicottaggio, gl’insulti e le minaccie continue contro gl’italiani che hanno manifestato nel passato la loro italianità sono cose di ogni giorno».
Alcuni dati possono fornire un’idea dell’entità del flusso: si calcola che dalla sola, piccola isola di Curzola partirono in meno di due anni 354 profughi, saliti a 566 entro il maggio del 1921; dalla sola Sebenico cercarono riparo in Italia circa 380 esuli.
La quantità di profughi che scappavano in Italia, per minacce, violenze subite, boicottaggio economico e lavorativo etc., fu tale che lo stato italiano dovette provvedere a piroscafi, alloggi, talora modesti sussidi etc. per aiutare i connazionali dalmati. Luciano Monzali, autore di saggi ottimamente documentati ed equilibrati sulla storia della Dalmazia, afferma che il periodo posteriore alla prima guerra mondiale «fu anche l’epoca del più grave declino sociale e demografico delle collettività italiane in Dalmazia», indicando la causa di questo proprio nell’ostilità degli slavi e del regno di Jugoslavia verso gli italiani.
L’aggressività violenta contro gli italiani si manifestò sin da subito dopo la fine della guerra, o per meglio dire proseguì senza soluzione di continuità, esistendo da oltre mezzo secolo come minimo. Ad esempio, il 9 novembre del 1918 alcuni italiani di Spalato esposero il tricolore nazionale sulle loro case, provocando la reazione esagitata della guardia nazionale jugoslava, che fece irruzione nelle abitazioni sfondando le porte, picchiando gli inquilini e minacciandoli con le pistole, devastando i locali.
Le bandiere furono strappate e bruciate sulla pubblica piazza, mentre una nave da guerra, ex austriaca ed ora jugoslava, ammoniva con un megafono gli italiani avvertendoli che avrebbe aperto il fuoco se il tricolore fosse stato ancora tenuto innalzato.
Non basta ancora, perché anche l’antefatto immediato degli incidenti di Trieste del 13 luglio 1920 vide, ancora una volta, un attacco dei nazionalisti slavi. L’11 luglio dello stesso anno difatti si erano avuti i fatti di Spalato.
In quello che già era un clima incandescente, furono diffuse nella popolazione slava spalatina voci incontrollate contro i marinai italiani, che ingigantivano e deformavano un episodio del tutto insignificante. I militari furono così assaliti a mano armata e di sorpresa. Due di loro, il comandante Tommaso Gulli ed il motorista Aldo Rossi, morirono in conseguenza dell’aggressione, mentre altri due furono feriti.
L’annuncio dell’assassinio di militari italiani provocò in Italia manifestazioni di protesta e fu da una di esse, organizzata proprio a Trieste, il 13 luglio, da cui partirono gli incidenti culminati nell’incendio del “Balkan”. La consequenzialità storica fra l’eccidio spalatino ed i fatti di Trieste del 13 luglio è quindi assolutamente incontestabile.
Da ultimo, ma non per ultimo, in quella convulsa giornata di disordini del 13 luglio a Trieste, che cosa accadde realmente? Le ricostruzioni della dinamica degli accadimenti sono diverse e le fonti risultano talora contrastanti, ma questo è abbastanza comune in storia. Alcuni punti fermi possono però ritenersi assodati.
Primo, l’assalto al cosiddetto “Balkan” avvenne per reazione all’assassinio di un italiano, Giovanni Nini, cuoco di 18 anni di una trattoria, che fu ucciso con tre pugnalate in piazza Unità. Furono assaliti però anche altri tre italiani: Giuseppe Ussai, colpito da due coltellate, e Mario Frassalich, raggiunto da un colpo di coltello, ambedue feriti sempre in piazza Unità; infine il tenente di fanteria Luigi Casciana che con i suoi uomini difendeva il Balkan e fu ucciso dalle bombe lanciate dalle finestre del Narodni Dom.
Secondo, quando la folla in tumulto si avvicinò all’albergo, dalle sue finestre partirono colpi di pistola e lanci di bombe a mano, prima ancora che i dimostranti potessero fare alcunché. Molti testimoni, fra cui molti ufficiali dell’esercito che firmarono dichiarazioni giurate rilasciate ai superiori, riferirono di aver visto ignoti che agivano dalla “Narodni dom”, sparare e gettare bombe.
Terzo i soli feriti dalle bombe a mano, tutti italiani, furono 7, fra cui un funzionario di polizia (il commissario di P.S. Ernesto Valentino; Cesare Almeissovich; Aurelio Domini; Silvio Fulignot; Paolo Gianporcaro; Romano Squargi; Pietro Zalateo), mentre un ottavo colpito, il tenente Luigi Casciana, morì in ospedale.
Questo prova al di là di ogni dubbio che dal “Balkan” furono scagliate bombe.
Quarto, l’incendio che distrusse la “casa del popolo” e provocò indirettamente la morte di Ugo Roblek, gettatosi dall’alto per sfuggire alle fiamme, fu, se non provocato, alimentato ed incrementato da un deposito d’armi, clandestino ed illegale, creato dagli slavi, presumibilmente gli stessi che spararono e lanciarono bombe sulla folla.
Furono difatti uditi distintamente scoppi ed esplosioni, una delle quali si ebbe il giorno seguente quando l’incendio pareva prossimo allo spegnimento. Inoltre mentre gli incendi ad altri edifici assaliti durante i disordini furono agevolmente spenti dai pompieri nel giro di alcuni minuti, quello del “Balkan” fu indomabile e proseguì appunto sino al giorno successivo a causa degli scoppi e dell'esplosivo ivi detenuto.
La dinamica degli incidenti è ricostruita anche in una relazione del vicecommissario regio Francesco Crispo Moncada, inviato al Presidente del Consiglio il 14 luglio, conservato nell’archivio storico del Ministero degli Interni. Si possono qui riportare alcune parti essenziali. Crispo Moncada riferisce che «... Iniziatasi con comizio in Piazza Unità manifestazione svolgevasi ordinatamente. Mentre parlava avv. Giunta... rimaneva ucciso cittadino italiano da colpo di pugnale infertogli proditoriamente nella piazza stessa da slavo che riuscì a dileguarsi. Notizia comunicata al pubblico da oratore produsse vivissimo fermento ed esasperazione.
Folla eccitatissima sbandossi improvvisamente in varie direzioni. Parte dimostranti si diresse correndo piazza Oberdan sostando dinanzi al fabbricato Hotel Balkan sede del Circolo slavo consueto centro di riunione e di propaganda antiitaliana emettendo grida ostili. Dalle finestre di detto fabbricato vennero esplosi vari colpi di rivoltella e lanciate bombe a mano rimanendo ferite due guardie regie e vicecommissario di pubblica sicurezza...».
Il rapporto continua descrivendo la reazione dei militari all’azione dei terroristi slavi e l’incendio incontrollabile a causa degli esplosivi: «... durante incendio furono sentiti alcuni scoppi attribuiti a bombe e munizioni che hanno ostacolato opera spegnimento...». Crispo Moncada concludeva infine comunicando gli «arresti di facinorosi», fra cui alcuni sospettati di essere parte del gruppo terroristico che aveva sparato e lanciato bombe.
Il famigerato “incendio del Balkan” fu quindi l’esito di aggressioni con il coltello subite da italiani sulla pubblica piazza durante un comizio di protesta per l’eccidio di Spalato, seguito dal lancio di bombe e mano e dall’esplosione di colpi di pistola sempre contro italiani. Da queste ripetute aggressioni, che fecero due morti e moltissimi feriti, scaturì infine l’assalto al Narodni Dom in cui era asserragliati i terroristi panslavisti. Dulcis in fundo, la gravità dell’incendio che distrusse la “casa del popolo” fu dovuto agli esplosivi in essa accumulati, con ogni verosimiglianza dall’organizzazione clandestina terroristica.
Considerandolo su di un arco temporale maggiore, esso è una circostanza della secolare ostilità dei nazionalisti slavi verso gli italiani, che aveva preso a manifestarsi in modo aggressivo (con persecuzioni contro gli italiani ed il tentativo sistematico di cancellarne l’identità culturale) e non di rado violento già da metà del secolo XIX.
È quantomeno sorprendente che talora si sia potuto sostenere che l’incendio del Narodni Dom «rappresentò la prima grande frattura tra gli Italiani della Venezia Giulia e le popolazioni "allogene", sloveni e croati», quando in realtà si aveva alle spalle più di mezzo secolo di persecuzioni a discapito della popolazione italiana e mentre in quello stesso 1920 le stesse proseguivano in Dalmazia.
Non vi è dubbio quindi su chi sia stato l’aggressore e chi l’aggredito.
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