martedì 10 ottobre 2023

Dante e l’italianità adriatica


Il 25 marzo, giorno in cui Dante fissava l’inizio del suo viaggio ultraterreno narrato nella “Divina Commedia”, è stato meritoriamente istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo come “Dantedì” per celebrare uno dei padri della lingua italiana. A tal proposito vogliamo ricordare quando, in un’epoca in cui era ancora prematuro parlare di Stato e di nazione, Dante aveva le idee ben chiare su quale fosse il confine orientale d’Italia. Un’Italia concepita come una regione in cui si parlava una medesima lingua, vagliata nei suoi dialetti nel “De vulgari eloquentia”, in cui si fa menzione anche dell’istriano. Un’Italia concepita nella Divina Commedia “com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna”, con riferimento alla poi demolita necropoli di Pola, un luogo all’epoca già poco noto, tanto da ipotizzare un soggiorno istriano dell’illustre poeta che avrebbe visto in prima persona questa antica città dei morti.

Fu così che in periodo risorgimentale, in cui la lingua italiana rappresentava una componente fondamentale per un’identità ancora da perfezionare, Dante diventò icona nazionale e nelle terre ancora irredente al termine delle Guerre d’indipendenza statue e busti, riferimenti toponomastici ed iniziative culturali in onore del “ghibellin fuggiasco” si sarebbero riscontrati a Trento, Pola, Trieste, Zara e Fiume. Questa passione dantesca avrebbe raggiunto l’apice nel viaggio patriottico compiuto a Ravenna nel 1908 da centinaia di irredentisti giuliani, fiumani e dalmati per recare omaggio alla tomba di Dante, cui fecero omaggio di un’ampolla votiva forgiata dallo scultore Giovanni Mayer ed impreziosita dagli stemmi delle città irredente. Senza dimenticare che la Società Dante Alighieri, sorta nel 1889, svolse un ruolo importantissimo nel sostenere la salvaguardia e la promozione della lingua e della cultura italiana nelle province ancora sotto dominazione asburgica. 

Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, i 350.000 esuli adriatici si sarebbero identificati nei versi in cui il poeta fiorentino incontrando nel Paradiso l’avo Cacciaguida prevedeva e descriveva il proprio esilio: «Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente; […] Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salire per l’altrui scale».

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