Di tutto il confine orientale che abbiamo perduto dall'Isonzo a Cattaro, certamente la cittadina di Capodistria rappresenta il sommo della perdita, giacchè questo delizioso borgo tutto Veneziano distante appena 27 km. da Trieste, con qualche sforzo e spendendosi di più si poteva recuperare all'Italia dopo la II guerra mondiale. Ma è chiaro che i nostri non hanno saputo giocare neanche le poche carte che avevano, e fin dall'inizio la classe politica post-bellica repubblicana, già travagliata da lotte di partito e spaccature, si dimostrò incapace, timida, inaffidabile e ricattabile.
Capodistria città slava, imbruttita e irricinoscibile, svuotata con la violenza della sua stessa essenza plurisecolare, rappresenta proprio l'apice dell'ingiustizia, della contro-storia, della non-storia, l'apice dell'assurdo. Essa non è che uno dei tanti “gusci vuoti” di ciò che era la bella, operosa e vivace italianità del nostro confine orientale di cui nulla è rimasto altro che il dolente simulacro di ciò che fu, ma è il guscio più emblematico, più triste, più scandaloso e insopportabile. Se Cattaro e Ragusa sono lontane, se pochi sanno poco dell'isola di Pago, di Curzola e di Lesina, Capodistria invece è vicina, lì a due passi, ci respira addosso crucciata, abbandonata e negletta, respira addosso a una Trieste dimentica delle sue glorie Risorgimentali e Irredentiste, dimentica al punto che manda in giro personaggi che in varia guisa straparlano, per esempio col dire che nel confine orientale non ci fu il Risorgimento, cosa che mi sono disturbata a contraddire in un mio prossimo libro per centocinquanta pagine di fila, con riflessioni, chiarimenti, documenti e ragionamenti che spero porteranno a una delucidazione dei fatti.
Invece di essere il polmone respirante della terra perduta, il porto consolatorio delle speranze infrante, il baluardo agguerrito e fedele dell'italianità com'è sempre stata, cosa che le riconobbe perfino questa repubblica, Trieste è oggi una pompa sfiatata, che non perde occasione di atteggiarsi a una parte innaturale che il politicamente corretto le ha cucito addosso ma non le si attaglia. Spinta dalle smanie del nuovo ordine planetario, non fa che ostentare, per bocca di questo e di quello, la sua tolleranza inclusiva, la sua apertura, la sua condiscendenza, in una parola il suo annacquamento e disinteresse identitario, unito a una sorta di aristocratica distanza dall'Italia e dall'Italianità in favore di una nebulosa terra e storia senza confini che gioca solo a vantaggio degli avversari. Ma le hanno detto che gli avversari non ci sono, che i nemici son spariti, e che siamo fratelli tutti: cosa ci si può fare?
Dunque a Capodistria uno può andare tranquillamente in visita, ci mancherebbe: ma per veder che cosa? Un fantasma consunto che trascina le sue catene, intorno a cui per l'ennesima volta a noi italiani non resta che imprecare contro il fascismo che ha perso la guerra dopo essersi alleato con Hitler. Succede di perdere le guerre, succede anche di fare alleanze sbagliate. Ciò che non deve succedere è deporre le armi, anche se di armi diverse adesso si tratta.
Dell'italianità di Capodistria fanno testo in modo evidente lo stile gotico-veneziano ovunque profuso, la forte tradizione umanistica, l'inconcussa fedeltà alla Serenissima, fedeltà del cuore e degli animi che tenne duro anche sotto l'occupazione austriaca che nei primi tempi si estrinsecò in esecuzioni pubbliche di ribelli che servivano a dare l'esempio alla popolazione e scoraggiare ogni anelito d'indipendenza, anelito già manifestatosi nel XVIII secolo con Gian Rinaldo Carli, storico, economista, archeologo e illuminista capodistriano, a cui va attribuita la celebre frase “divenire finalmente italiani per essere degni di essere uomini”.
Sotto la dominazione di Vienna, anche a Capodistria prese avvio la slavizzazione del territorio cominciata ben prima del 1866, data dell'ormai famoso Consiglio della Corona del 12 novembre 1866 a cui, a torto, la si fa risalire. Già nel 1831 fu eletto per imposizione di Vienna un vescovo sloveno, Matteo Raunicher, fanatico avamposto di una programmata avanzata slovena, inviso alla cittadinanza e poi costretto a fuggire, il quale, a confermare i buoni rapporti e la stima che si era guadagnati tra quella brava gente, durante la processione del santo patrono San Nazario il 19 giugno 1837 per dispetto non vi partecipò, mettendosi di traverso con la sua carrozza con aria spavalda e di sfida, mentre il suo cocchiere e il suo segretario compivano gesti irriguardosi nei confronti della medesima. Inutile dire che vi fu reimmesso da Vienna pochi anni dopo assieme a tutta la combriccola di esaltati attaccabrighe che codesti prelati si portavano dietro dalla Carniola: fino al 1918, quando finalmente entrarono gli Italiani a seguito della Vittoria, per imposizione di Vienna vi furono sempre vescovi sloveni, profondi odiatori dell'Italia e baciapile dell'imperatore austriaco. L'ultimo vescovo, Andrea Kralin, dovette essere cacciato dal pur paziente e signorile generale Petitti di Roreto perchè si rifiutava di riconoscere la realtà dei fatti, ostentando la sua aperta ostilità verso gli italiani. Come si vede, il Fascismo era di là da venire.
La seconda guerra mondiale portò alle estreme conseguenze l'ingiustizia che già si era consumata con la prima, quando, di fatto, ci fu negata la Dalmazia, anche quella parte di essa che ci era stata promessa con il patto di Londra. Così perdemmo anche quello che avevamo.
Ancora nel 1950, quando la triste sorte di Capodistria e di tutta la zona B non era stata ancora formalmente sanzionata dalle potenze vincitrici ma già si capiva l'aria che tirava e quale sarebbe stata la conclusione, gli sfortunati connazionali che non erano riusciti a fuggire, illusi di poter salvare sè stessi, la propria terra e i propri beni, dovettero assistere a una delle tante infami esibizioni filo-titine dei traditori di casa nostra che a quel tempo cominciavano a proliferare e i cui figliolini oggi vediamo riprodotti in serie a gracidare le loro inconsistenti ricostruzioni dei fatti, in genere limitate all'avvento del Fascismo, visto che ad andare troppo indietro non sanno nemmeno di cosa si parla, nè si può dire che ne sappiano anche del fascismo.
Dunque gli jugoslavi e i loro servi, dopo aver asportato dalla piccola cittadina di Capodistria tutto ciò che potevano, compreso l'intero patrimonio nautico, con tutto il vestiario, della leggendaria Società Canottieri Libertas a cui per tanti anni appartenne anche Nazario Sauro, dopo aver smontato e sottratto tutti i macchinari degli stabilimenti industriali in faccia agli operai azzittiti e minacciati, dopo aver divelto i cippi e la ringhiera del Parco della Rimembranza, e aver segato perfino le inferriate dello stabilmento carcerario per ricavarne ferro, decisero che la persistenza dei sentimenti italiani in capo alla maggioranza della popolazione andava punita con l'ennesima immonda gazzarra. Trovarono all'uopo, per il giorno 5 febbraio 1950, un gruppetto di rinnegati (edoardo filippi, vittorio steffè, vittorio martinoli, giordano perini, vittorio pogorevaz) che vanno additati all'esecrazione universale e all'unanime perpetuo disprezzo, i quali, con la stessa furia con la quale erano stati scalpellati e distrutti in tutto il confine orientale i Leoni di San Marco, s'accanirono sui simboli che davvero bruciavano agli slavi, i simboli che venivano a contraddire flagrantemente le loro pretese, i simboli concreti della Storia di quelle terre: non il fascismo, agitato come pretesto e durato solo vent'anni, che aveva operato nel contesto di una guerra mondiale con milioni di morti, ove gli slavi del Sud si erano ammazzati brutalmente tra loro a centinaia di migliaia, ma la Grande Guerra, l'Irredentismo e il Risorgimento. Nessuno nega le responsabilità del fascismo, ma quelle degli slavi vanno molto più indietro: erano infatti il Risorgimento, l'Irredentismo e la Grande Guerra i tre temuti capisaldi del confine orientale che facevano paura agli slavi, erano queste le colonne di granito che facevano vacillare l'impalcatura del mendacio storico cucito da Zagabria e da Belgrado addosso a quelle terre. Così, la predisposta squadra di vandali collaborazionisti, dopo aver inscenato la solita manifestazione pro-jugoslavia, si diede a sfracellare con belluina rabbia la Lapide dei caduti nella guerra '15-'18, quella del Bollettino della Vittoria, unitamente alla lapide che ricordava gli studenti partiti volontari nella guerra redentrice come Pio Riego Gambini (medaglia d'argento al valor militare), fuggito in Italia nel 1914, e che nel 1915 scrisse un infuocato proclama rivolto ai giovani Istriani. Decapitata la sua erma marmorea già nel '48, fu ridotto in briciole a martellate il marmo che ne eternava il patriottico proclama. Vennero altresì distrutte con selvaggia acredine due epigrafi che ricordavano due personaggi chiave del Risorgimento capodistriano: Carlo Combi, morto esule a Venezia nel 1884, e Leonardo D'Andri, morto eroicamente nella III guerra d'indipendenza.
L'immonda squadraccia coi suoi martelli e spranghe di ferro s'avventò poi, tentando invano di distruggerla perchè era troppo robusta, sulla torretta del sommergibile "Giacinto Pullino" su cui si trovava Nazario Sauro quel malaugurato giorno 30 luglio 1916 quando il sommergibile disgraziatamente s'incagliò per colpa delle correnti poco lontano da Fiume ed egli fu poi catturato dagli austriaci, torretta che era conservata ed esposta come una reliquia nel cortile interno del liceo-ginnasio "Combi" di Capodistria presso il quale Sauro aveva studiato, alla venerazione degli studenti: essa fu sfregiata e profanata, e poco tempo dopo venne distrutta dagli slavi, e se i nostri governi di allora non furono capaci di recuperare la torretta di un sommergibile, figuriamoci se potevano recuperare all'Italia la cittadina di Capodistria e tutta la zona B.
Distrutto già nel 1946 lo splendido monumento a Nazario Sauro che faceva bella mostra di sè sul Lungomare, e fuse le prestigiose statue in bronzo che lo adornavano, per completar l'opera di vandalizzazione della memoria storica che veniva a contraddire la grancassa slavofila amplificata dal comunismo nostrano, mancava di toglier di mezzo, in quell'infausto giorno 5 febbraio 1950, un'altra epigrafe patriottica ancora rimasta intatta: era dentro la Trattoria San Marco, in via F. Crispi, uno dei luoghi simbolo del Risorgimento e dell'Irredentismo di Capodistria, punto di ritrovo durante il corso dell'ottocento dei patrioti anelanti al ricongiungimento dell'Istria all'Italia. Qui, nel luglio 1914, avvenne l'"ultima cena" o "cena dei cospiratori", ove una sessantina di giovani riuniti fra bandiere Tricolori e ritratti di Garibaldi e di Mazzini, giurarono di non servire giammai sotto le armi austriache e di fuggire in Italia ad arruolarsi: con gravi conseguenze per le famiglie, naturalmente.
In quell'infame azione del 5 febbraio 1950, dunque, non furono presi di mira dei bersagli a casaccio, ma scientemente si operò per abbattere i simboli del concentrato causale della rabbia slava: il Risorgimento, l'Irredentismo e la Grande Guerra. Ecco perchè oggi la filiera di storici-giornalisti-intrattenitori del mainstream, quando parla del confine orientale e delle sue intricate questioni, salta a piè pari quei tre scomodi argomenti concentrandosi sul Fascismo, non solo perchè non li conosce, ma perché ciò serve per distrarre e condizionare il ragionamento, cioè per spostare artatamente il problema sottraendolo alle sue vere cause storiche.
— M. Cipriano
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