mercoledì 1 maggio 2024

Slavi in Italia

La minoranza slovena vive nell'estremo angolo orientale del Friuli-Venezia Giulia in diversi villaggi lungo il confine con la Slovenia. Storicamente sono concentrati in una piccola area chiamata Slavia Italiana. Costituiscono anche una piccola minoranza in Val Canale e abitano alcuni villaggi e sobborghi al di fuori delle città di Gorizia e Trieste. Oltre all'italiano, parlano almeno 8 diversi dialetti slavi che differiscono da valle a valle e da villaggio a villaggio. Alcuni di questi dialetti sono fortemente influenzati dall'italiano e dal friulano.


Anche se alcuni autori sostengono che gli sloveni sono 100.000 persone, le statistiche ufficiali pubblicate dal Ministero degli Interni italiano nel 1974 hanno mostrato che sono 61.000 (meno del 5% della popolazione totale del Friuli-Venezia Giulia). Negli ultimi decenni le comunità slovene si sono rifiutate di tenere un censimento linguistico, per il timore che il loro numero sia molto più basso di quanto asserito.


Complessivamente, gli sloveni sono concentrati principalmente nei seguenti comuni, villaggi, valli e periferie:


Provincia di Gorizia


San Floriano del Collio

Savogna d’Isonzo

Doberdò del Lago

Sobborghi di Gorizia (Oslavia, Piedimonte del Calvario, Piuma, Sant’Andrea)


Provincia di Trieste


Duino-Aurisina (Aurisina, Ceroglie, Malchina, Medeazza, Precenico, Prepotto, San Pelagio, Silvia, Ternova)

Monrupino

San Dorligo della Valle

Sgonico

Sobborghi di Trieste (Banne, Basovizza, Contovello, Gropada, Longera, Opicina, Padriciano, Prosecco, Santa Croce, Trebiciano)


Provincia di Udine


Val Canale (Camporosso, Ugovizza)

Val Natisone (Drenchia, Grimacco, Pulfero, San Pietro al Natisone, San Leonardo, Savogna, Stregna)

(*) Val Resia (Resia)

Val Torre (Lusevera, Taipana)


Sono presenti anche come una piccola minoranza in una manciata di frazioni sparse appartenenti ai comuni friulani vicini. Ad esempio, nel territorio del comune di Cormons ci sono 7 piccoli borghi montani abitati da poche decine di persone di lingua slovena; tuttavia, quasi tutta la popolazione di Cormons è italiana e lo è sempre stata. Allo stesso modo, ci sono 8 isolati (e oggi quasi spopolati, con alcuni che hanno solo 1, 2 o 6 abitanti totali) villaggi di lingua slovena aggregati al comune di Faedis, che è una città di lingua friulana abitata da italiani.


Gli sloveni non formano una comunità etnica singolare, ma piuttosto una comunità altamente localistica e divisa, a causa dei loro diversi dialetti e storie diverse, anche se legalmente - cioè, a livello politico - sono raggruppati e riconosciuti come un unico gruppo minoritario dal governo italiano. Una distinzione dovrebbe essere fatta tra gli slavi più anziani che arrivarono nel Regno d'Italia durante il Medioevo e nella Repubblica di Venezia durante il periodo rinascimentale da un lato (stabilendosi in quella che divenne la Slavia Italiana) e d'altra parte i nuovi sloveni che arrivarono molto più recentemente sotto l'impero austro-ungarico nel XIX secolo (insediandosi vicino a Gorizia e Trieste).


Quelle della Slavia Italiana sono le più antiche del gruppo: la loro presenza in Italia risale al IX o X secolo. Nel Plebiscito del 1866 votarono all'unanimità per entrare in Italia e generalmente si considerano italiani. 


(*) In particolare a Resia c'è una forte opposizione all'identità slovena: 1.014 abitanti (su 1.285) hanno firmato nel 2004 una petizione che esprimeva il desiderio di non essere considerati parte della minoranza slovena. Si considerano resiani, ma soprattutto italiani, e rifiutano risolutamente ogni associazione con gli sloveni. Spesso hanno anche cognomi italiani (es. Barbarino, Buttolo, Madotto, Di Lenardo). Parlano un dialetto proto-slavo arcaico chiamato Resian, che è incomprensibile agli sloveni; c'è una controversia se debba essere considerato un dialetto sloveno o una lingua slava separata.


La controversia identitaria si pone a causa del fatto che la loro lingua e le origini, anche se effettivamente slavo, sono antecedenti alla formazione della lingua slovena e identità nazionale da diversi secoli; nel frattempo, la loro storia, lo sviluppo culturale e l'etnogenesi hanno sempre seguito un percorso diverso da quello degli sloveni. Per questo motivo questi gruppi - i resiani e gli altri abitanti della Slavia Italiana - generalmente si considerano distinti dagli sloveni e negano qualsiasi rapporto con il paese sloveno. Tuttavia, il governo italiano - sotto la pressione di altri paesi e organismi internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale, tra cui la Slovenia stessa - prescrive attivamente una identità etnica slovena su queste comunità che, pur essendo slave, non si sono mai identificate come slovene e non hanno mai parlato la lingua slovena.


Allo stesso tempo la legge, che dovrebbe proteggere le lingue minoritarie, in pratica ignora i dialetti slavi locali (i.e. Resian, Natisoniano, Luseverese, ecc.) e impone invece l'insegnamento dello sloveno, una lingua che gli abitanti non parlano né capiscono. La legge impone anche l'uso di toponimi sloveni che gli abitanti stessi non usano. Queste sono le conseguenze controintuitive della loro definizione errata di 'sloveni', e sono proprio alcune delle ragioni per cui gli abitanti contestano così fortemente la nozione che appartengono al gruppo etno-linguistico sloveno. Nonostante le proteste degli abitanti e dei loro rappresentanti, sono ancora ufficialmente considerati 'sloveni' dal governo italiano, così come dal governo sloveno e da varie organizzazioni pro-minoranza.


Un altro caso riguarda interamente la minoranza slava nelle province di Gorizia e Trieste. Molti degli sloveni che vivono vicino a Gorizia e Trieste, nella Venezia Giulia - in particolare nella zona conosciuta come il Carso o Altopiano Carsico - discendono da immigrati più recenti del XIX e all'inizio del XX secolo. Questi tendono quindi ad avere un'identità slovena più forte e ad avere un rapporto molto più antagonistico con gli italiani. Costituiscono anche il più grande sottogruppo della minoranza slovena e quindi hanno la maggiore influenza all'interno della comunità slovena, con la capacità di oscurare tutti gli altri, smorzare i gruppi dissidenti slavi (come quelli di Slavia Italiana) e requisire l'opinione pubblica e la percezione.


I presunti antenati degli sloveni fecero le loro prime incursioni in territorio italiano all'inizio del VII secolo, quando orde di slavi invasero e saccheggiarono l'Istria. Gli Slavi continuarono a fare incursioni e attacchi per tutto il VII secolo, anche saccheggiando Cividale del Friuli con gli Avari nel 610 d.C., ma non fecero alcun insediamento permanente nel territorio dell'odierna Italia fino a molto più tardi nel IX secolo. Tentarono di espandersi nel Ducato del Friuli all'inizio dell'VIII secolo, ma furono cacciati nel 720 dopo essere stati sconfitti nella battaglia di Lauriana (situata da qualche parte vicino all'attuale confine italo-sloveno). Nel 776 il re d'Italia creò la Marca del Friuli, una regione di frontiera difensiva del Regno d'Italia istituita per impedire ulteriori incursioni degli Slavi nel territorio italiano. La Marca d'Istria fu creata nel 799 per lo stesso motivo.


Nel 776-778 circa 200 famiglie di contadini slavi furono autorizzate a stabilirsi nei pressi di Cividale, e nel 799 il marchese Enrico del Friuli permise agli slavi di stabilirsi nella Valle del Natisone. Tecnicamente, questi furono i primi insediamenti permanenti degli slavi in Italia. Tuttavia questi erano insediamenti relativamente piccoli e insignificanti limitati a poche centinaia di persone. Questi quindi costituivano poco più che casi isolati e non possono essere considerati una migrazione generale o un insediamento di massa. Fu solo nel corso del IX e X secolo, a seguito delle incursioni magiare, che arrivarono grandi gruppi di slavi e - con il permesso dei patriarchi di Aquileia, che li aveva convertiti al cristianesimo - hanno cominciato a popolare quei villaggi di campagna e valli in Slavia italiana e Friuli orientale che abitano oggi. Gli Slavi non conquistarono questo territorio, né formarono uno stato proprio. Piuttosto, si stabilirono all'interno dei confini del Regno d'Italia, su terre che appartenevano al Friuli (una regione del Regno Italico). Furono così ospiti sul suolo italiano e divennero sudditi del Regno d'Italia e del Patriarca di Aquileia.


Con il permesso dei patriarchi di Aquileia, gli slavi della Carniola iniziarono a stabilirsi nei villaggi intorno a Gorizia nel X e XI secolo a seguito delle suddette incursioni magiare e della pace che seguì la battaglia di Lechfeld (955). L'immigrazione slava verso Trieste fu lenta e graduale; i primi nomi slavi nel Carso Triestino non compaiono fino al 1234, mentre non vi è traccia di slavi nella città di Trieste prima del XIII secolo; dopo il XIII secolo li troviamo in città solo su base individuale raro, mai come una comunità identificabile. Nella città di Trieste non si ha notizia di una popolazione slava significativa fino al XIX secolo; per molti secoli la loro presenza fu limitata a pochi villaggi nell'entroterra: si stabilirono prima nel borgo di Longera nel 1234, poi a Santa Croce nel 1260. Nello stesso secolo si stabilirono a Basovizza e San Giuseppe della Chiusa, e nel XIV secolo a Prosecco. L'immigrazione slava nei villaggi rurali continuò dopo il 1382, quando Trieste divenne un protettorato asburgico, con gli slavi che arrivarono a Contovello nel 1413.


Durante il periodo rinascimentale, i veneziani permisero più volte agli slavi di ripopolare alcuni villaggi nel Friuli orientale, in Istria e in altre aree scarsamente popolate della Repubblica di Venezia ogni volta che le popolazioni locali italiane si riducevano a causa di piaghe. Altri invece arrivarono come rifugiati in fuga dagli ottomani tra il XV e il XVIII secolo, e i veneziani generosamente concesse loro asilo come compagni cristiani. Questo è il modo in cui gli slavi sono venuti ad abitare molti dei villaggi dell'entroterra dell'Istria e della Dalmazia.


Per quanto riguarda la Val Canale, i primi coloni conosciuti in questa valle furono i Romani, che vi abitarono dal I secolo a.C. L'insediamento permanente degli Slavi in Val Canale non può essere datato in modo affidabile se non per dire che è avvenuto per la prima volta tra il VII e il X secolo d.C. Tuttavia, visto che la valle subì un'intensa colonizzazione bavarese e germanizzazione dopo l'XI secolo, la continuità tra gli invasori slavi medievali e l'attuale popolazione di lingua slovena non può essere provata. In effetti la relativa piccola presenza slovena trovata oggi in Val Canale sembra aver avuto origine soprattutto dopo il 1675, quando i possedimenti del principe-vescovo di Bamberga furono trasferiti nella Carinzia asburgica. Ciò provocò un forte declino della popolazione romanza (friulana e veneziana) e un afflusso di coloni sloveni, che insieme ai tedeschi divennero i gruppi etnici dominanti nella valle fino al 1939, quando quasi tutta la popolazione tedesca scelse di emigrare nella Germania nazista, lasciando così gli italiani come etnia predominante dalla seconda guerra mondiale. A partire dal 2000, l'80% della Val Canale è di lingua italiana; tutti e tre i centri principali della Val Canale (Tarvisio, Pontebba, Malborghetto-Valbruna) sono a maggioranza italiana. I parlanti sloveno vivono principalmente nelle due località di Camporosso e Ugovizza.


Tradizionalmente, gli sloveni sono stati chiamati 'un popolo senza storia'. Per la maggior parte della storia gli sloveni che vivevano nei territori del Friuli, della Venezia Giulia e dell'Istria erano analfabeti, estremamente insulari, vivevano come contadini in villaggi di campagna remoti, lontano dai centri urbani, e non hanno svolto alcun ruolo attivo nella vita politica o culturale. Non hanno mai avuto uno Stato proprio, né una cultura propria; non hanno avuto costumi borghesi, tradizioni mercantili, classi artigiane, classi organizzate di professionisti, intelletto, né una storia distinta che fosse unicamente loro. Piuttosto, esistevano come una minoranza provinciale poco appariscente e insignificante nei paesi di altri popoli (cioè italiani e tedeschi) il cui destino hanno sempre condiviso. Per secoli italiani e slavi vissero in pace generale, ma separati l'uno dall'altro. Questo iniziò a cambiare nel XIX secolo, durante il periodo dell'impero austro-ungarico. Durante questo periodo il governo austriaco istituì scuole slovene, incoraggiò l'immigrazione nelle città italiane, e tentò di indottrinare i contadini sloveni non istruiti nelle nuove idee di nazionalismo e panslavismo, per incitarli contro la popolazione italiana che all'epoca cercava di liberarsi dal dominio austriaco e unificare l'Italia. Questo portò a tensioni etniche e ai primi grandi conflitti tra le popolazioni italiane e slovene.


Nel 1866, all'indomani della terza guerra d'indipendenza italiana, l'imperatore Francesco Giuseppe pronunciò la sua decisione di germanizzare e slavizzare con la forza le terre della corona italiana dell'Impero austriaco. In tutti i territori di lingua italiana gli austriaci promulgarono una politica di slavizzazione forzata (slovenizzazione o croatizzazione, a seconda della regione): aprirono scuole slave, insediarono slavi nei tribunali e nelle cariche governative e imposero la lingua slava, mentre allo stesso tempo chiudevano le scuole italiane, vietavano un'università italiana a Trieste, scioglievano le associazioni culturali italiane, vietavano i giornali italiani, allontanavano gli italiani dalle cariche politiche, e ad un certo punto vietavano la lingua italiana nella Dieta istriana. Molti casi di violenza slava contro la popolazione italiana furono registrati; i cognomi italiani furono forzatamente slavizzati; le elezioni furono truccate; i registri del battesimo furono falsificati. Anche il clero italiano e la gerarchia ecclesiastica furono sostituiti con sacerdoti e vescovi slavi, che erano spesso anti-italiani, sostenitori del nazionalismo slavo e fedeli alla monarchia asburgica.


Il governo austriaco tentò anche una pulizia etnica attraverso la colonizzazione interna, inviando migliaia di immigrati slavi nei territori di lingua italiana per soppiantare la popolazione nativa italiana. Il governo ha trapiantato decine di migliaia di immigrati sloveni in Istria, Gorizia e Trieste in particolare, nel tentativo di slovenizzare le città italiane. Già nel 1886 il governo locale di Trieste denunciò formalmente i tentativi del governo centrale austriaco di distruggere il carattere italiano della città. Nel 1869 la città di Trieste aveva una popolazione totale di 70.274 abitanti, ed era italiana in lingua, cultura e popolazione. Nel 1910 la popolazione è più che raddoppiata a 160.993 persone e solo il 47,71% erano nativi della città. Secondo il censimento del 1910 gli sloveni crebbero al 12,6% della popolazione della città e al 24,8% della popolazione provinciale a causa dell'ondata di immigrazione di massa, anche se circa la metà di loro emigrò a casa pochi anni dopo. Anche se si tentò di sostituire gli italiani, mai nella storia gli sloveni formarono la maggioranza a Trieste: al loro picco demografico nel 1910 erano solo il 12,6% della popolazione urbana.


Sulla scia di ciò, e incitati dagli austriaci con nazionalismo romantico, i nuovi intellettuali sloveni si convinsero che Istria, Trieste, Friuli e altre terre italiane appartenevano a loro, e cercarono di creare un nuovo paese chiamato Slovenia e di annettere tutti questi territori. Le loro speranze si infransero quando l'Italia sconfisse l'impero austro-ungarico nella prima guerra mondiale e riconquistò i suoi territori perduti (Istria, Friuli orientale, Gorizia, Trieste). In risposta al mezzo secolo di sistematica persecuzione della popolazione italiana sotto gli Asburgo, negli anni '20 del Novecento il governo italiano intraprese una serie di misure per invertire la politica austriaca di slavizzazione forzata: la lingua italiana è stata resa obbligatoria nelle scuole; l'insegnamento dello sloveno nelle scuole è stato vietato; i giornali sloveni sono stati obbligati a pubblicare testi bilingui in italiano e sloveno; e fu fatto un tentativo per ripristinare i cognomi italiani che erano stati falsificati e slavizzati sotto gli austriaci. Va notato che i cognomi slavi non erano forzatamente italianizzati; al contrario, proprio come in Alto Adige, agli abitanti fu concessa l'opzione di ritornare volontariamente ai loro cognomi slavizzati nelle forme originali italiane. Queste misure - volte a invertire la vecchia politica austriaca e a riportare la cultura italiana al suo posto nei territori che storicamente appartenevano all'Italia - erano infatti molto più blande delle politiche aggressive di sostituzione etnica intraprese da slavi e austriaci contro la popolazione italiana nei decenni precedenti.


Nel 1927 un gruppo di slavi formò un gruppo terroristico e anti-italiano chiamato TIGR. Hanno effettuato diversi attentati e omicidi in Italia con l'obiettivo di annettere Trieste, Istria, Gorizia e Fiume alla Jugoslavia. Questo gruppo era allineato con i comunisti ed era sostenuto dai servizi segreti jugoslavi e britannici. Molti membri del TIGR in seguito si unirono ai partigiani jugoslavi. Durante la seconda guerra mondiale gran parte della minoranza slovena sostenne il comunismo e accolse i comunisti jugoslavi come 'liberatori'. Quando i partigiani di Tito occuparono Trieste e iniziarono a commettere massacri e persecuzioni, molti sloveni che vivevano nei villaggi limitrofi aiutarono gli jugoslavi a dare la caccia agli italiani e agli anticomunisti. Alla fine della guerra, la maggior parte degli sloveni che vivevano in Italia fece una campagna per l'annessione delle province orientali italiane alla dittatura comunista della Jugoslavia.


Dopo la fine della guerra, quando furono tracciati i nuovi confini, tutto questo fu convenientemente dimenticato: gli sloveni rimasti sul lato italiano del confine affermarono di essere vittime innocenti dell'aggressione e della persecuzione fascista, e hanno difeso la loro partecipazione alle attività terroristiche sostenendo che avevano aiutato nella liberazione dell'Italia dal fascismo. Questa visione è ancora oggi condivisa dalla storiografia mainstream, che è desiderosa di rappresentare l'Italia nella peggiore luce possibile a causa della sua associazione tabù con il fascismo, e a causa della logica inane che tutte le minoranze etniche e gruppi antifascisti devono essere difesi a tutti i costi, anche a spese di onestà e fatti storici. La politica di slavizzazione forzata nel 1866-1918 e la persecuzione degli italiani da parte di austriaci, sloveni e croati durante il periodo austro-ungarico, che influenzò notevolmente la politica del governo italiano tra le guerre mondiali, è spesso nascosto o omesso dal discorso popolare. In effetti l'intera storia che precede l'avvento del fascismo è generalmente ignorata perché è in conflitto con la narrazione degli sloveni come vittime dell'oppressione italiana.


Oggi la minoranza slovena in Italia è tutelata dalla legge, e il governo italiano è pienamente impegnato a far rispettare il mito del multiculturalismo, anche se la cultura e la civiltà di questa regione è sempre stata italiana. La popolazione italiana è costretta a tollerare questa politica, e deve soddisfare gli sloveni a causa del loro status di minoranza protetta. Nel frattempo, molti sloveni in Italia - soprattutto quelli della Provincia di Trieste - sono agitatori politici e sono ancora attaccati al loro passato comunista: si riferiscono ai membri del TIGR come "combattenti per la libertà" e continuano a celebrare in onore dei terroristi nazionali; tengono regolarmente celebrazioni per i partigiani jugoslavi; molti sono negazionisti che negano la storicità dei massacri delle Foibe (in cui migliaia di civili italiani sono stati assassinati dagli jugoslavi) o cercano di mitigarli o giustificarli; hanno spesso profanato monumenti italiani con graffiti e simboli comunisti; nel 2009 un gruppo di sloveni ha manifestato a Trieste con bandiere slovene e striscioni comunisti; nel 2013 e 2014 molti sloveni hanno partecipato a manifestazioni a sostegno della MTL, un gruppo secessionista a Trieste guidato da un collaboratore dei servizi segreti sloveni (una parte considerevole dei loro sostenitori sono minoranze slovene che vivono in periferia vicino a Trieste). Il 1º maggio 2016 un gruppo di sloveni ha nuovamente manifestato a Trieste con bandiere slovene e striscioni comunisti jugoslavi. L'indomani vandalizzarono una fontana sulla collina di San Giusto a Trieste. Se ciò non bastasse, un politico sloveno che attualmente ricopre cariche politiche a Trieste è anche segretario provinciale del Partito della Rifondazione Comunista. Incidenti come questi sono diventati relativamente comuni.


Secondo il censimento etno-linguistico del 1971, gli sloveni nella città di Trieste contavano 15.564 persone (il 5,7% della popolazione), mentre gli italiani erano 254.257 (il 93%). Oggi la percentuale di sloveni a Trieste è ancora più bassa, anche se non si conosce il numero preciso perché i rappresentanti della minoranza slovena sono strenuamente contrari ad un censimento etnico o linguistico. Lo stesso censimento del 1971 riporta che gli sloveni della Provincia di Gorizia erano 10.533 (7,4%) contro 131.879 italiani (92,6%). In Provincia di Udine si contano 16.935 sloveni (3,3%) contro 499.975 italiani (96,7%). Complessivamente nella regione Friuli-Venezia Giulia gli sloveni sono stati il 52.174 (pari solo al 5,4% della popolazione), mentre gli italiani sono stati il 907.451 (94,5%). Nonostante Gorizia e Trieste non siano mai state città slovene, nonostante nessuna delle terre friulane sia mai appartenuta alla Slovenia, e nonostante gli antenati degli sloveni siano arrivati in Italia prima come invasori e poi come ospiti sul suolo italiano, i nazionalisti sloveni e i comunisti continuano ad affermare che queste terre appartengono a loro. Nonostante abbiano diritti senza precedenti e privilegi speciali concessi loro, e nonostante siano ufficialmente protetti dallo Stato, molti sloveni persistono nell'essere apertamente anti-italiani e agitatori politici. Ciò ha naturalmente portato ad un'accelerazione delle tensioni etniche, che ancora oggi persistono tra italiani e sloveni.


I croati molisani arrivarono in Italia all'inizio del XVI secolo a seguito dell'espansione ottomana nei Balcani. A causa dell'avanzata ottomana circa 7.000-8.000 slavi fuggirono in Italia, dove gli fu dato rifugio e permesso di stabilirsi nella regione italiana del Molise (allora parte del Regno di Napoli). Tra questi slavi c'erano anche un certo numero di valacchi che in seguito furono assorbiti nella popolazione slava. Si stabilirono in quindici villaggi del Molise, ma oggi ne rimangono solo tre: Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice del Molise. Storicamente parlano un dialetto slavo meridionale noto come croato molisano, che chiamano na-našo (“la nostra lingua”), ma solo la metà della popolazione lo parla ancora. La maggior parte dei croati molisani lasciarono l'Italia nel XIX e XX secolo ed emigrarono in Australia, Canada e Stati Uniti. I croati molisani oggi sono 2.000. Molti si considerano italiani che parlano slavo e fanno una distinzione tra loro e i croati della Croazia. Uno studio genetico di Boattini et al. (2011) ha rilevato che i croati del Molise mostrano una significativa commistione sia da parte degli italiani che da parte dei croati, e quindi sembrano essere un miscuglio dei due gruppi.

lunedì 25 marzo 2024

La conferenza di pace è condizionata? Più luce necessaria su una domanda oscura (Alta Finanza, Fiume e Dalmazia)

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Il telegramma del dottor Herron al quotidiano italiano L'Epoca (28 aprile) rivela l'esistenza di una coalizione finanziaria segreta che praticamente governa la conferenza di pace.

Per cogliere appieno l'importanza e il carattere autentico delle rivelazioni fatte dal dottor Herron è innanzitutto necessario sapere chi è il dottor Herron. L'edizione parigina del New York Herald (3 maggio) fornisce i seguenti dettagli sulla sua posizione e carriera. Dice:

"Il dottor George D. Herron è stato nominato nel febbraio scorso, insieme al signor William Allen White, delegato americano alla proposta conferenza con i rappresentanti dei vari partiti russi sull'isola di Prinkipos. Un noto pubblicista e professore di economia politica negli Stati Uniti, da circa cinque anni si è stabilito a Ginevra, da dove ha potuto tenere informati il Dipartimento di Stato americano e i governi alleati sui movimenti che si concentrano lì. Circa un anno fa ha pubblicato un volume intitolato “President Wilson and World Peace”, che, dopo il libro “The Menace of Peace”, pubblicato l'anno prima, aveva attirato molta attenzione.

"Per diverse settimane prima del suo ritorno a Ginevra, circa un mese fa, è stato in stretto contatto con il presidente Wilson, il colonnello House e altri membri della missione americana, nonché con il signor Balfour e la delegazione italiana.
"In relazione al suddetto dispaccio è interessante notare che, parlando in Senato, il signor Tittoni protestò contro "la sostituzione dell'egemonia tedesca con altre egemonie, meno brutali in apparenza, ma altrettanto tiranniche, e che nascondevano una formidabile coalizione plutocratica e un colossale monopolio finanziario per lo sfruttamento economico del mondo».

"Il tema è stato approfondito alla Camera anche dai signori Luzzatti e Turail, che hanno fatto riferimento alle imprese dell'alta finanza internazionale nell'Adriatico, in particolare a Fiume. Ha fatto molto scalpore la rivelazione dell'opposizione dei magnati della finanza alle pretese italiane in Italia."

È chiaro quindi che siamo in presenza non solo di un'autorità competente riguardo ai fatti di cui si occupa, ma anche di un uomo di alto valore morale, le cui opinioni sul lato morale della situazione sono di altissimo valore. e degno del massimo rispetto.

Quello che segue è il testo della comunicazione del dottor Herron all'Epoca:

"Come persona che può affermare di conoscere perfettamente la natura dell'attuale conflitto tra Italia e Jugoslavia, e come persona che ha avuto occasione più di una volta di fungere da mediatore tra le due parti, vorrei esprimere la mia convinzione che sta per essere fatta una grande ingiustizia all’Italia, secondo l’opinione pubblica, e che il popolo jugoslavo così come il popolo italiano ignorano ciò che si nasconde dietro le quinte dell’attuale crisi, aggiungerei che, come posso tranquillamente affermare, ci sono state almeno due occasioni in cui si sarebbe potuto raggiungere un'intesa se non fosse stato per l'intervento di intrighi da parte di finanziatori internazionali diplomaticamente privilegiati, che sono la vera causa della crisi attuale, e che sono la causa di tutti i fallimenti politici e morali della conferenza di pace, sulle cui spalle ricadrà la responsabilità della rovina che minaccia il mondo. Il gruppo finanziario sta cercando di assicurarsi privilegi per lo sviluppo di Fiume e dei porti dalmati, da un lato, per impossessarsi di tutte le linee di navigazione nell'Adriatico allo scopo di sfruttare la nazione serba, e dall'altro per portare all'Italia la completa rovina commerciale e bandire dai mari la sua bandiera mercantile.

Né la rovina del suo commercio mercantile sarebbe l'unico danno che l'Italia subirebbe se rinunciasse a Fiume. In brevissimo tempo i suoi rapporti politici e commerciali con la Romania e i Balcani sarebbero interrotti. Rifiutando di cedere il suo porto orientale, l'Italia lotta attualmente per la propria esistenza contro i monopolisti internazionali. Non ha mine. Non ha risorse da offrire a questi monopolisti, mentre l’Europa sudorientale è matura per lo sfruttamento. Inoltre, secondo il trattato di Londra, solo una piccola parte della Dalmazia deve appartenere all'Italia. I bei porti capaci di un adeguato sviluppo saranno lasciati alla Jugoslavia. D'altronde l'Italia non avrebbe ripiegato sul trattato di Londra se i maligni influssi alle spalle della delegazione jugoslava a Parigi non l'avessero incitata all'intransigenza. Infine, invocare il principio di autodeterminazione contro le sole pretese italiane è un evidente atto di ipocrisia, se si tiene conto delle conquiste territoriali ottenute da tutte le altre nazioni rappresentate alla conferenza di pace. L’Inghilterra controllerà un vasto impero che si estende dall’India all’Egitto; e passare sotto il dominio inglese è considerata la migliore fortuna che possa capitare ai popoli situati tra l'India e l'Egitto. La Francia non solo vedrà quasi completamente realizzate le sue aspirazioni riguardo alla riva sinistra del Reno, ma avrà anche la Siria e nuove colonie in Africa. Sono l'ultima persona a opporsi a ciò che è stato dato alla Francia. Lungi dal pensare che la Francia abbia ottenuto troppo, penso che abbia ottenuto troppo poco. La Valle della Saar avrebbe dovuto essere data in pieno diritto di possesso alla Francia, e il dominio francese e belga avrebbe dovuto estendersi al Reno in modo assoluto e senza compromessi impraticabili. La Polonia avrà una popolazione di cui appena una sala sarà composta da polacchi. La Cecoslovacchia comprenderà, giustamente, una popolazione tedesca di circa tre milioni. La Jugoslavia avrà una grande percentuale di persone che non sono jugoslave e che non desiderano sottostare al dominio serbo. Ma per ragioni che sono comprese solo da coloro che conoscono i mezzi segreti che servono ai fini della finanza internazionale, all’Italia vengono negati territori che, se le fossero concessi, le porterebbero solo il 3% della popolazione non italiana.

"Per quanto riguarda noi americani, posto che la conferenza di pace non sia stata fedele neanche per un momento ai principi del Presidente, posto che uno dei quattordici punti sia stato realmente ed esattamente applicato, perché l'Italia dovrebbe essere l'unica tra tutti ad essere obbligata ad applicare questi principi ad una parte molto piccola e mista del territorio che rivendica, e quindi a rinunciare alle sue frontiere naturali e geografiche? Se l'Italia non fosse entrata in guerra nei giorni bui in cui vi entrò, la causa dell'Intesa sarebbe andata perduta, la Germania avrebbe conquistato l'Europa e tutta la Jugoslavia sarebbe entrata a far parte dell'allora esistente monarchia austro-ungarica. I veri jugoslavi, come i croati e gli sloveni, che devono la loro indipendenza agli interventisti italiani, hanno combattuto contro l'Italia con la più grande amarezza fino all'ultimo, fino al momento della firma dell'armistizio, in ricompensa di ciò che l'Italia ha fatto per la causa alleata, in ricompensa del suo mezzo milione di morti e del suo milione di mutilati, e con le sue finanze esaurite, è ora trattata con incredibile ingratitudine e calunniata in tutto il mondo per opera di questi grandi interessi che vorrebbero comportare la sua rovina. La maggior parte dei miei concittadini sono stati indotti a credere il contrario di quanto da me dichiarato. Ma qualunque cosa possa costarci è tempo di guardare in faccia la verità e di evidenziare le vere cause di tutte le discordie e il caos che stanno dilaniando l'Europa. È tempo di smascherare queste influenze che, sovvenzionando anche il governo di Lenin e Trotsky, lavorano per stabilire il potere dell’autocrazia, per spazzare via la democrazia per centinaia di anni a venire e per imporre al mondo il dominio dei monopolisti”.

Questo per quanto riguarda le dichiarazioni di un fedele cittadino americano. C'è da chiedersi se un uomo del genere avrebbe preso una simile posizione tra l'Italia e la conferenza di pace se non fosse stato sicuro della sua posizione. Passiamo ora ad un altro trimestre. Lo scrittore dell'Echo de Paris che si firma "Pertinax" è noto come uno dei più equilibrati e autorevoli pubblicisti francesi. È anche in grado di avere una conoscenza approfondita di ciò che accade dietro le quinte. Ed è un uomo la cui integrità e onore sono riconosciuti ovunque in Francia.

La questione di Fiume

 The question of Fiume

        (Modern Italy, Volume 2, Issue 15, 1919)

Dopo le lunghe e un po' aspre discussioni, i deludenti ritardi e gli avvenimenti drammatici che hanno indurito il popolo italiano al punto da essere pronto a osare quasi tutto pur di non indebolire i propri diritti, troviamo ancora irrisolta la questione di Fiume. Quanto ancora dovremo attendere una decisione?

La nazione italiana si è trovata improvvisamente di fronte al veto di un solo uomo, un uomo che ha una fiducia in se stesso così illimitata da ritenersi infallibile e unico arbitro dei destini del mondo. Quest'uomo è legato dalle catene denunciate dal suo amico professor Herron? Ha la sua gente dietro di lui? Chi può dirlo? Perché, pur essendo l’ultimo apostolo della democrazia, fa a meno dei parlamenti e dei popoli. Parola e atto, verità e diritto sono suoi, il saggio che correggerebbe la follia di quarantatré milioni di italiani.

Ci sono, tuttavia, alcune fratture nel liuto. I senati dello Stato di New York, dell'Illinois e del Massachusetts hanno inviato un telegramma al Presidente chiedendogli esplicitamente di accettare pienamente le rivendicazioni italiane. E il leader della maggioranza al Senato, Lodge, ha sostenuto la stessa politica. È chiaro quindi che la politica italiana nei confronti di Fiume trova sostenitori anche in America.

Sono venuti alla luce nuovi fatti che confermano la caparbietà del Presidente? Il dottor Wilson ha rivolto un appello al popolo italiano al di sopra delle teste del Parlamento e del Governo, e il popolo italiano ha risposto stringendosi attorno al Governo e dimostrando di essere indissolubilmente unito. Insensibile a tutto ciò, il presidente americano continua a dilungarsi su tutti i suoi vecchi argomenti. Il capo e si può dire che l'unico argomento da lui avanzato è un argomento che ha stupito tutti per la sua mancanza di senso logico. Secondo il presidente Wilson, Fiume è un porto internazionale e, poiché deve rimanere internazionale, dovrebbe essere ceduto ai croati. Deve cioè diventare parte del nazionalismo jugoslavo. Questo modo di ragionare è così evidentemente al di fuori di ogni limite della ragione che non abbiamo bisogno di preoccuparci di discuterne. Evidentemente il presidente Wilson pensa, e pensa ostinatamente, che si tratti di un dogma sano e solido.

Ora tutti sanno che i croati non sono un popolo internazionale ma interamente nazionalista. Che motivo c'è allora per supporre che Fiume possa internazionalizzarsi donandola a loro invece che agli italiani? Dobbiamo supporre che gli italiani, la cui secolare civiltà è stata la culla ed è ancora in gran parte il centro vitale di tutto ciò che c'è di meglio in Europa, sarebbero meno attenti ai loro obblighi internazionali rispetto ai croati che sono solo di ieri? Il Presidente argomenta più o meno allo stesso modo in cui argomentarono i tedeschi quando cercarono di giustificare l'occupazione di Anversa, lo sbocco naturale delle province del Reno. Rotterdam, visto che è un porto internazionale per eccellenza, dovrebbe essere condannata, a causa della sua situazione internazionale, a vivere sotto il giogo tedesco? Dobbiamo regalare Genova alla Svizzera o alla Germania meridionale? Sicuramente il dottor Wilson deve avere altri argomenti archiviati nel suo portfolio. Ma non ne parlerà al mondo. La segretezza, però, serve solo ad acuire la curiosità delle persone desiderose di conoscere il segreto dei misteri d'oro denunciati dal professor Herron, confidente e amico del presidente. Non è compito nostro tentare di scostare il velo che nasconde l'Arca dell'Alleanza, o forse il Vitello d'Oro.

Intanto i giornali escono con un altro ballon d'essai. Perché Fiume non dovrebbe essere ceduta alla Società delle Nazioni per cinque anni, mentre si sta costruendo un altro porto per gli jugoslavi? Gli italiani non hanno obiezioni alla costruzione di un nuovo porto croato se ciò risolvesse il problema di Fiume. Non cercano le miniere d'oro di Fiume. Si preoccupano solo delle libertà e dei diritti del proprio popolo. Del resto l'idea di un porto croato a Buccari o Segna è già stata menzionata in questa Rivista. A Fiume l'Italia cerca soltanto di salvaguardare la libertà del proprio popolo, il che è poca cosa e senza valore per gli estranei.

Ma nessuno può fare a meno di notare che è piuttosto straordinario che si insista sulla necessità di creare un nuovo porto jugoslavo abbastanza vicino a Fiume, in una posizione del tutto lontana dalle naturali rotte commerciali jugoslave. Lasciando fuori Fiume, il trattato di Londra assegna un gruppo di porti agli jugoslavi che nel 1910 avevano un commercio complessivo di 12.000.000 di tonnellate; cioè un volume di scambi doppio di quello di Marsiglia. Il totale del commercio di Fiume era meno di un quarto, perché ammontava soltanto a 2.500.000 tonnellate, di cui un quarto di milione provenivano dalla Jugoslavia. Quindi solo una cinquantesima parte del commercio marittimo della Jugoslavia passava per Fiume.

Perché insistono così tanto affinché il nuovo porto jugoslavo sia così vicino a un luogo dove, nonostante tutti gli incoraggiamenti del governo ungherese, passava solo una piccola parte del commercio jugoslavo? È difficile comprendere il significato dell’insistenza su una simile richiesta. C'è chi pensa che dietro tutta questa ostinazione ci debba essere qualche motivo particolare. Forse c'è qualcuno mosso interamente da motivazioni idealistiche che pensa che grandi vantaggi si ricaveranno da quello sperduto angolo del Quarnaro. Dove, è difficile dirlo. Forse si potrebbe ricorrere al Prof. Herron per la risposta.

E c'è un'altra domanda. Se l’Italia vuole avere la città italiana di Fiume dopo un periodo di cinque anni, perché non ora? Perché la Lega delle Nazioni dovrebbe entrare nell’Adriatico? L’Italia ha già avuto prove di come funzionerebbe questo tipo di accordo. Una certa commissione internazionale ha percorso l'Adriatico e ha fatto cose che non sono ancora di dominio pubblico, ma che negli annali della Marina Militare sono sottolineate in nero. L’Italia sarà messa sotto tutela? Si rendono conto gli Alleati di quanto gravemente peccano contro ogni buon gusto, contro tutti i principi del cameratismo, e di quanto gravemente offendono la suscettibilità del popolo italiano quando suggeriscono che si debba esercitare un controllo di vigilanza sul governo italiano durante il periodo di cinque anni? anni, entro i quali Fiume sarà l'"unico" sbocco per gli jugoslavi? Di quali crimini pensano che si renderebbe colpevole il governo italiano contro la libertà commerciale del piccolo paese jugoslavo? Forse nemmeno il presidente Wilson potrebbe rispondere a questa domanda. Ma coloro che lo ispirano probabilmente pensano che dietro la copertura della Società delle Nazioni i dollari potrebbero facilmente fluire e fluire a Fiume, e che gli interessi economici della città potrebbero essere gestiti più facilmente. Certamente il governo italiano, consapevole del suo dovere, non potrebbe mai permettere l'usura e lo sfruttamento che gli jugoslavi volentieri permettono, andando di pari passo con la corruzione delle classi dirigenti.

Il dottor Wilson guarda ancora Fiume con i pollici rivolti verso il basso. Tutta la nazione italiana anela al riscatto della città italiana. Se il dispotismo e il dollarismo dovessero trionfare, potremmo avere un esodo da Fiume della popolazione italiana: e non è impossibile che i croati vi trovino alla fine solo rovine e desolazione. In questa Rivista si è già detto che Fiume è la pietra di paragone della politica degli Alleati. Questa è una verità importante, e quanto prima la sua importanza sarà riconosciuta da coloro che hanno nelle loro mani la direzione della politica alleata, tanto prima si arriverà ad una soluzione adriatica che sarà giusta e duratura.

venerdì 22 marzo 2024

Censimenti revisionati

Molti di voi sapranno che tra il 1880 e il 1910 si sono tenuti i censimenti asburgici nelle terre orientali. Ma non tutti sanno che il censimento del 1900 e del 1910 sono stati revisionati due volte.

La rilevazione della lingua d'uso del 1880 e del 1890 non creò tanti conflitti, la situazione nel 1900 e nel 1910 era invece tesa, in particolare la rilevazione del 1910 era:

"[...] gegen den Willen der lokalen nationalen Mehrheit" (Brix, 1982: 203).
[Traduzione: "contro la volontà della maggioranza nazionale locale].

Tra i quattro censimenti effettuati tra 1880 e 1910, il censimento del 1910 fu quello più contrastato e fu revisionato due volte a causa delle proteste, specialmente da parte degli sloveni a Trieste.

Il 2 gennaio in prima pagina del Piccolo si trova l'articolo, il cui titolo è in forma di una domanda: 

"Gli slavi si sostituiscono al Governo nel censimento?" scritto in caratteri ornati. 

La domanda retorica non ha l'effetto di una domanda vera e propria, ma serve invece come affermazione mascherata da domanda che presuppone una risposta ovvia. L'articolista fa riferimento all'articolo del giorno precedente in cui il lettore è informato degli uffici slavi per il censimento. Gli slavi dell'Istria fanno un censimento anticipato con l'aiuto delle istituzioni slave e avvertono che non accetteranno i dati censiti dagli ufficiali governativi. Questi dati ufficiali vengono dichiarati incontestabili benché nel censimento precedente in Dalmazia gli italiani fossero stati censiti per difetto. Gli slavi, secondo l'articolista, si sarebbero presentati come vittime per ricevere favori dal Governo austriaco.

L'ipertema di quest'articolo è il censimento. L'argomento principale sono gli slavi che fanno un censimento anticipato e gli italiani che devono difendersi, il sottotema consiste nel reclamare potere nel Governo e nei Comuni da parte della componente slava.

Il metodo degli slavi, secondo l'articolista, consiste nel rafforzare il proprio gruppo etnico e l'indebolire la parte italiana. Per arrivare a questo obiettivo gli slavi si avvalgano delle istituzioni in cui slavi in funzione di pubblici funzionari diffondono gli interessi slavi e influenzano gli organi ufficiali. La tattica degli slavi è presentarsi come vittime per arrivare in seguito a "favori anche al di là del solito", cioè a un trattamento preferenziale da parte del Governo austriaco:

"Per mezzo dei parroci, dei maestri e dei professori del Ginnasio croato, che scorazzano da mesi le campagne come se non fossero pubblici funzionari, ma agitatori agli stipendi di una fazione politica, gli slavi avrebbero fatto una anagrafe tutta loro particolare dello slavismo istriano. Ed ora vanno intimando ai Capitanati ed ai Comuni che qualora i risultati del censimento ufficiale non dovessero confermare quelli della loro speciale anagrafe, protesterebbero fino al tribunale di Dio e farebbero condannare al patibolo gli autori del rilievo ufficiale."

(PICC, 02.01.1911, n. 10580, p. 1, capoverso 2).

Viene sottolineato il fatto che già il censimento 1900 ha sancito l'italianità di Trieste. Gli italiani, essendo la maggioranza hanno di conseguenza maggiori diritti che non possono essere contestati:

"Nel censimento gli italiani sono contati e sono ufficialmente contati: onde i risultati di esso, che si rinnovano di dieci in dieci anni, costituiscono per un decennio il documento costituzionale del loro possesso etnico di territori, dei loro diritti collettivi di nazionalità, delle loro rivendicazioni di paesi contestati dall'audacia straniera. Il censimento del 31 dicembre 1900 con la sua solenne affermazione della dominante italianità di Trieste, è tuttora il gran libro aperto sul quale noi domandiamo ci sia riconosciuta giustizia e mercè il quale è impossibile che l'impetuosità degli avversari attenga di passare ogni segno." 

(PICC, 21.12.1910, n. 10568, p. 1, capoverso 2).

Le proteste del circolo sloveno Edinost contro la rilevazione della lingua d'uso si esprimono in modo molto aggressivo nel quotidiano omonimo il 7 gennaio del 1911:

"Domani hanno da parlare gli slavi di Trieste. Qui siamo e qui vogliamo restare e godere dei nostri diritti. Domani getteremo alla clique signoreggiante il guanto della sfida e comincerà il duello, dal quale non desisteremo fino a che non avremo sotto i nostri piedi, ridotta in polvere, l'artificiale italianità di Trieste. Finora la nostra lotta era lotta per la padronanza. Non cesseremo finché non comanderemo noi a Trieste, noi, Sloveni, Slavi."

(Originariamente pubblicato sul giornale Edinost del 07.01.1911).

Dal primo censimento del 1910 la popolazione italiana e slovena di Trieste (città e dintorni) era così distribuita:

Italiani 141.509 (74,44%);
Sloveni 36.208 (19,41%);

Il secondo censimento del 1910 la popolazione italiana e slovena di Trieste (città e dintorni) era così distribuita:

Italiani 118.959 (51,83%)
Sloveni 56.916 (24,7%)

La reale percentuale di italiani presenti nella città di Trieste nel 1910 sarebbe maggiore se si includessero i 29.439 residenti italiani originari del Regno d'Italia, che nel censimento furono per motivi politici classificati separatamente come “regnicoli”.



giovedì 7 marzo 2024

Saggio di commento ai cognomi istriani di Dott. Giannandrea Gravisi.

[Tratto da: Dott. Giannandrea Gravisi, "Saggio di commento ai cognomi istriani", Pagine Istriane, Periodico mensile scientifico-letterario-artistico con particolare reflesso alla province dell'Istria. Annata V, 1907, Nazario Dottor de Mori, editore e redattore resp. Stabilimento Tipografico Carlo Priora (Capodistria 1907), pag. 179-197.]

Col lavoro che sta qui sotto io non ò l'intenzione (lo dice già il titolo) di offrire ai lettori uno studio completo sui cognomi istriani, cosa certamente di non facile attuazione; voglio soltanto mettere in rilievo alcune caratteristiche dei nostri nomi gentilizi. Forse la lettura di queste mie righe varrà ad invogliare qualche studioso più esperto di me a ritornare sull'argomento per darci alcunchè di completo ed armonico. Ma, avverto subito, le difficoltà in tal caso non sarebbero punto trascurabili. Anzitutto sarebbe necessaria una buona conoscenza delle lingue del paese, conditio sine qua non per ricerche di tal genere. Ed indispensabili sarebbero anche sode nozioni glottologiche e di storia provinciale e locale. Se a ciò poi si aggiunga la difficoltà di passar in rassegna tutti i cognomi di una provincia abbastanza vasta e popolata, si comprenderà di leggeri che un lavoro completo su tale argomento presenta delle serie difficoltà.

Noi consiglieremmo invece agli studiosi nostrani di prendere in disamina anzichè l'intera provincia, parti della medesima, singole città o comuni o distretti soltanto. In tal caso, specie se gli autori avessero a scegliere i territori a loro maggiormente conosciuti, le ricerche riescirebbero molto più perfette e complete. Si troverebbero argomenti interessantissimi, p e.: i cognomi italiani fra gli sloveni dell'Istria alta, oppure i cognomi italiani net territorio di Portole, oppure i cognomi rumeni nella Val d'Arsa superiore, oppure i cognomi rovignesi sparsi per l'Istria, oppure nomi locali derivati da nomi gentilizi italiani ecc. ecc. Invogliare i comprovinciali a ricerche di tal genere, ecco lo scopo precipuo del presente lavoretto!

Oltre alle gentili comunicazioni di amici e conoscenti, ai quali rendo qui publiche grazie, mi furono preziosa guida nelle mie ricerche alcuni lavori storici su singoli paesi della provincia; due di questi posseggono interi capitoli dedicati ai cognomi: «La storia doc. di Rovigno» del Benussi e «Isola e i suoi statuti» del Morteani. Per Rovigno mi servii inoltre di un [180] altro scritto del Benussi (1), per Capodistria dei noti opuscoli di Gedeone Pusterla. Anche da altre opere di storia patria ò spigolato qua e là importanti notizie (2).

Credo opportuno di far precedere alle serie dei cognomi alcunni cenni storico etnografici sulla nostra provincia, s'intende sempre tenendo d' occhio l'argomento principale.

Gl'Italiani dell'Istria sono i diretti discendenti degli antichi Istri, romanizzati completamente dai coloni che, dopo la gloriosa caduta di Nesazio (177 a. C), da Roma e dall'Italia affluirono nel paese e gli impressero quel carattere nazionale che nessuna prepotenza di avversari potrà mai cancellare; la loro lingua è nata dalla mescolanza dell'antico traco-celtico col latino rustico. Da tale mescolanza si sviluppò con l'andar de' secoli il dialetto istriano, che vivacchia ancora nell'Istria bassa, a Rovigno, Dignano, Valle, Fasana, Gallesano e Sissano: nel rimanente della penisola esso fu soppiantato dal veneto. Nulla quindi più ridicolo che l'asserire essere stati gli Italiani trasportati in Istria da Venezia: anzi è vero proprio il contrario. Quando i barbari ebbero saccheggiata la parte orientale dell'alta Italia e distrutta Aquileja, fra le genti che spaventate da tali incursioni si rifugiarono sulle isolette della laguna, dando origine a Venezia, vi furono anche molti Istriani; le cronache venete ci rammentano che 33 famiglie delle primarie dell'Istria (senza parlar delle altre) passarono colà, e furono tribunizie, cioè delle primitive. Di seguito se ne accrebbe il numero, ed arrivò fino a quello di 91 e ciò prima che l'Istria si fosse assoggettata al veneto dominio. Delle 674 famiglie patrizie venete adunque ben 91 (un settimo!) erano originarie dal nostro paese: queste ultime sono citate, a seconda delle città di provenienza, nello Stancovich (3).

Importazioni su vasta scala d'Italiani da noi ebbero luogo solo di rado: essi vennero per lo più alla spicciolata, ad eser [181] citar arti e mestieri o attratti dai commerci; vennero anche alcuni ghibellini fiorentini (Manchi), scacciati dal partito guelfo dei Neri (4). Abbastanza considerevole fu l'immigrazione dei montanari del Friuli (Cargneli), che durò fino ai giorni nostri ed era diretta nei villaggi dell'interno. Nelle città costiere invece, specie fra l'elemento marinaro, sono numerose le famiglie originarie da Chioggia.

Ora accenneremo ad alcune importazioni d'Italiani di maggior entità.

Nel 1561, essendo le campagne istriane quasi spopolate in seguito a guerre e pestilenze, il comune di Pola concesse ai bolognesi Leonardo Fioravanti, Sabba de Franceschi e Vincenzo dall'Acqua estesi tratti di terreno incolto e insalubre, con l'obbligo di ripopolarlo e coltivarlo. Essi introdussero in paese 124 famiglie di loro concittadini, i quali però in gran parte abbandonarono più tardi il territorio loro assegnato, specialmente, come dice lo Schiavuzzi, in seguito alle persecuzioni alle quali andavano soggetti da parte degli abitanti di Pola (5).

Nel 1627 la nobile famiglia veneziana Capello, posseditrice di Geroldía al Leme, vi trasportò le seguenti otto famiglie di contadini trevisani: Facchini, Zaninel, Pisatto, Fasinato, Sermioni, Franchetto, Basato e Fachinetto. Esistevano colà da prima le famiglie d'Elia, de Seja, Villan (6).

Nel 1628 venne ripopolato il territorio di Sanvincenti dai (Grimani di Venezia con coloni tratti dalla Dalmazia e dalla Trevisana; avanzi di questi ultimi sarebbero le odierne famiglie Follo, Ferlini, Morosini e Salambatti, sparse per la campagna (7). Nella seconda metà del secolo XVII furono trasportati dai Benedettini dell'allora esistente monastero di S. Nicolò d'Oltra coloni trevisani e friulani, i cui discendenti costituiscono tutt'ora la parte maggiore degli abitanti di quella [182] distesa di ridenti colli fra Muggia e Capodistria, chiamata la Val d'Oltra: vi predominano i seguenti cognomi: Colombin, Filippi, Fontanòl, Maràssich (8), Mauro, Milòc (9), Nòrbedo, Norello e Petruzzi.

Gli ultimi italiani venuti in massa da noi sono i friulani trasportati dal conte Bernardo Borisi nel territorio di Capodistria alla fine del secolo XVIII. Questi, che salvo rare eccezioni si sono conservati italiani, coltivano i terreni dei maggiori possidenti della nostra città. Ecco i loro nomi di famiglia (10): Angelini, Antoniutti, Apollonio, Argenti, Benedetti, Cheber, Cicutti, Corradin, Carèt, Danielutti, Fantini, (Gandusio, Giacomin, Lenardon, Loredan, Metton, Novèl, Pelòs, Petras, Rossetti, Viola e Zorzèt.

Lasciamo stare le poche migliaia di Rumeni e di Tedeschi che costituiscono da noi minoranze insignificanti, e veniamo agli Slavi, che abitano la parte maggiore delle campagne istriane. Le popolazioni slave dell'Istria sono o propaggini del blocco etnico che à il suo centro al di là dei confini naturali del paese o pur colonie trasportate da terre lontane: ai primi appartengono gli Sloveni ed i Croati, ai secondi i Morlacchi.

Gli Sloveni penetrarono stabilmente in paese verso la fine del secolo VIII, provenienti dalla Carniola: occuparono prima la Carsia e s'estesero un po' alla volta nelle sottostanti colline, fin circa al Dragogna. La prima protesta degl'Istriani contro la venuta degli Slavi, favoriti dai governatori franchi, fu fatta solennemente al placito del Risano (804). Nell'Istria orientale ritiensi che verso il 1000 abbiano preso stabile dimora i Croati, provenienti dalle isole del Quarnero e dalla Croazia; si estesero nell'Albonese, Barbanese e Pisinotto; nel secolo XII troviamo i primi nomi slavi dati a località istriane (11). I feudatari tedeschi della Contea di Pisino favorirono molto l'immigrazione di genti slave.

[183] Nel 1449 incominciano i trasporti di Morlacchi nelle campagne dell'Istria occidentale, spopolate in seguito alle pestilenze, alle guerre ed alla malaria. Erano essi un miscuglio di Dalmati, Bosnesi, Montenegrini, Valacchi, Greci ed Albanesi, fuggiti alle coste adriatiche all'avanzarsi del Turco. Venezia favoriva i trasporti di questa gente nelle deserte campagne dell'agro parentino e polese (12). Tali trasporti durarono fino alla seconda metà del secolo XVII; a i Croati ed i Morlacchi presi assieme formano i cosi detti Serbocroati.

Per i cognomi slavi vedi i copiosi elenchi del Tomasin (op. cit. a pag. 181). Numerosi sono poi fra gli Slavi i cognomi italiani; molti di questi coll'andar del tempo vennero risibilmente slavizzati; Bartolich, Benedettìch, Beninich, Bonifacich, Calegarich, Dessantich, Fornasarich, Furlanich, Gulantich, Marchesich, Romanich, Rossich, Soldatich ecc. E numerosi son pur d'altro canto gli Italiani con nome slavo; trattasi il più delle volte di famiglie che sono già italiane da secoli e che di slavo non anno più che il nome solo; non poche di queste vantano soggetti ch'ebbero a distinguersi nelle lettere e nelle [184] scienze nostre p. e. gli Stancovich, i Marsich, i Bencich, i Declencich ecc.

Come è naturale, non tutti i luoghi dell'Istria sono nelle medesime condizioni riguardo a purezza di cognomi italiani. In generale si può dire che i paesi alla costa sono in migliori condizioni che quelli dell'interno, quelli del continente in migliori che quelli delle isole del Quarnero. Le città o borgate, che per la loro posizione geografica sono chiamate già dalla natura ad essere il centro politico e commerciale di una zona molto estesa di campagna, anno maggior copia di nomi gentilizi slavi di quelle orograficamente più protette. Rarissimi sono quindi i cognomi non italiani ad Isola, a Pirano e a Rovigno, più spessi a Capodistria, a Parenzo e a Pola (13); nell'interno danno prova della loro purezza nazionale anche coi cognomi Buje, Grisignana, Portole, Dignano e Valle. Invece Montona, Pinguente, Pisino e Albona, circondato come sono da vastissimo territorio preponderantemente slavo, anno maggior copia di cognomi non italiani. La stessa regola vale anche per i luoghi di minor importanza. Delle città al Quarnero, Veglia è la più pura in fatto di cognomi.

Ad onta di tutto ciò la purezza dei cognomi non è ancora un indice sicuro per stabilire, in un paese etnicamente misto, la nazionalità di un dato luogo; quantunque contino maggior copia di cognomi slavi, Parenzo è altrettanto italiana quanto Isola, Montona ed Albona quanto Buje e Dignano e così via.

Ma se da soli i cognomi non bastano a formar un giudizio esatto sulle attuali condizioni etnografiche di un paese, essi ie qui nessuno vorrà negarcelo), sono in grado di dirci quale sia il substrato etnico di una data popolazione, quali schiatte e in quale misura contribuirono a l'ormarla; essi sanno anche indicarci dove esistette un'oasi linguistica e possono con abbastanza precisione segnarne i confini. Da questo punto di vista preso, lo studio dei cognomi può assumere, secondo noi, un carattere altamente scientifico. Esaminando i nostri nomi di famiglia, noi vediamo che l'immigrazione di slavi su territorio linguistico italiano fu di differente intensità a seconda de' tempi [185] e a seconda de' luoghi; talvolta nulla, talvolta piccola, talvolta abbastanza intensa; ci è dato anche di imbatterci in paesi italiani, dove gli abitanti hanno in maggioranza cognomi slavi: che in tal caso trattisi di una popolazione slava italianizzata sarebbe ben ridicolo il negarlo! La presenza di numerosi nomi locali derivanti da nomi gentilizi italiani (14) in territorio linguistico preponderantemente slavo, si avverte d'altro canto trattarsi colà di nostri connazionali ora in parte o completamente slavizzati.

Avvertimento. Nei seguenti capitoli prenderemo in disamina solo i cognomi italiani; l'occuparci anche di quelli slavi oltre che essere superiore alle nostre forze ci condurrebbe troppo lontano: esclusi sono pure quelli di famiglie delle altre province italiane dell'Austria e del regno d'Italia, dimoranti in Istria. Come è facile a comprendersi, non abbiamo elencato tutti i cognomi degli Italiani dell'Istria, bensì i più comuni e più caratteristici. Fu fatta eccezione solo per quelli derivanti da nomi od aggettivi geografici, che sono, almeno per quanto stava in noi, al completo; trattandosi di questi, abbiamo accennato (nelle note) anche a famiglie estinte. Per maggior intelligenza del lettore i cognomi sono suddivisi, a seconda dell'argomento, in 3 gruppi maggiori, che assieme ad alcune considerazioni formano tre differenti capitoli.

Capitolo primo: I suffissi.

Rispetto ai suffissi o desinenze, i cognomi italiani dell'Istria appartengono al gruppo veneto-friulano; l'affinità etnica del nostro popolo con quello dell'Italia settentrionale-orientale, i molti secoli del dominio della gloriosa Regina dell'Adria sulle nostre terre, le molteplici relazioni che noi [186] abbiamo avuto sempre col Friuli, con Venezia e con tutto il Veneto, contribuirono a dare tale carattere ai nostri cognomi,. Prevalgono quindi i suffissi ini, etti, etto, ello, utti, ussi, uzzo, oni, aro, ani, i quali, eccetto i due ultimi, sono altrettanti diminutivi, vezzeggiativi ed aumentativi; numerosissimi sono anche i cognomi tronchi (in, on, an) e quelli terminanti in is, pretti friulani. Mancano invece quasi del tutto i cognomi che tradiscono l'origine longobarda o germanica in generale, pur abbastanza numerosi nell'alta Italia e nella Toscana (15); mancanza quasi assoluta delle forme predominanti nell'Italia centrale (16), nella meridionale e in Sicilia (17).

Confrontando le varie parti dell'Istria fra di loro ò trovato che nel sud i suffissi uzzo ed icchio sono più numerosi che nel centro e nel nord; altre differenze importanti credo non ne siano.

Suffissi ini: Bazzarini, Beltramini, Boccasini, Gambini, Gorzalini, Manzini, Manzolini, Migliorini, Perini, Urlini, Vergottini, Ventini, Venturini (18) ecc. e poi moltissimi diminutivi di nomi propri, che sono citati nel prossimo capitolo.

E ancor maggiore è il numero dei cognomi tronchi, cioè con l'apocope della i finale; è la forma più in voga in tutta l'Istria: Baichin, Ballarin, Bonassin, Bonin, Boschin, Brandolin, Budicin, Burlin, Carrin, Cherin (Querin), Deltin, Derin, Driolin, Fantin, Fiamin, Fiorin, Gerin, Giachin, Manzin, Maraspin, Marin, Morin, Muscardin, Nigrisin, Palin, Passin, Perentin, Pontin, Pulin, Rabusin, Reganzin, Sabbadin, Santin, Serraschin, Talatin, Tosolin, Turrin, Varin, Zecchin, Zettin, Zubin.
In is, pure numerosissimi: Bollis, Clapis, Colombis, Daris, Fabris, Fiorencis, Gottardis, Laganis, Lucis, Menìs, [187] Misdaris, Mitis, Niclis, Pergolis, Petris, Prencis, Punis, Rainis, Rodinis, Rois, Solis, Trolis, Vidonis.
In etti, etto, anche numerosi: Bonetti, Carpenetti, Cassetti, Dongetti, Fioretti, Moschetti, Orsetti, Solvetti, Toffetti, Toffoletti; Busetto, Cocchietto, Da pretto, Nichetto, Pachietto, Paludetto ecc. pochissimi tronchi: Curet, Postel, Vecchiet, Zorzet.
In elli, ella, ello, anche numerosi: Baselli, Dinelli, Mazzarelli, Patelli, Rastelli; Bagatella, Ventrella, Verginella, Zanghirella; Cesarello, Mantello, Novello, Pizzarello, Sorgarello ecc.
Pochi in one, oni: Sansone; Bnttignoni, Calioni, Caredoni, Faregoni, Manzoni, Marinoni; moltissimi invece i tronchi: Bordon, Bulfon, Danelon, Delton, Grison, Maraston, Mitton, Sason, Tribusson, Vareton, Zuccon.
I cognomi terminanti in ano, ani, an sono raccolti in buon numero, nel capitolo terzo; qui ne citeremo alcuni altri: Bigliani, Canciani, Cruciani, Damiani, Lugnani, Morteani, Predonzani; Corsano, Gonano, Vorano; Broredan, Busan, Circian, Cirran, Clean, Dean, Furian, Galvan, Marzan, Pagan, Rossian, Russignan.
Abbastanza numerosi quelli in ussi, uzzi, uzzo: Benassi, Candussi, Calussi (anche Calucci e Caluzzi), Lirussi; Cuzzi, Iacuzzi, Schiavuzzi; Comuzzo, Gropuzzo, Marinuzzo, Peruzzo, Veneruzzo ecc. Tronchi pochi: Petrùs, Pizzamus.
Numerosi quelli in aro, ari, àr, èr, ori, òr, riferentisi quasi sempre ad arti e mestieri (vedi Cap. seg.).
Non molto frequenti quelli in azzi, azzo, assi, às: Coradazzi, Popazzi, Tolazzi; Antoniazzo, Caenazzo, Maserazzo; Baldassi; Dapàs, Godàs, Monàs, Mismàs, Moimàs.
Lo stesso dicasi di quelli in otti e otto: Bertotti, Marotti, Pontotti, Zarotti; Massarotto, Pivirotto, Vascotto; alcuni tronchi: Candid, Disiòt, Fontanòt, Meòl, Pertòt, Picòt.
In utti, atto, oltre ad alcuni che citeremo nel prossimo capitolo, abbiamo notato: Canfarutti, Franzutti, Mazzalutti, Minutti, Piutti; Manzutto.
Non pochi in ati, ato: Boccati, Previati; Bregato, Campanato, Covazzato.
Numerosi, specie nell'Istria inferiore, riscontransi i cognomi terminanti in icchio: Barcaricchio, Carbucicchio, [188] Castellicchio, Capolicchio, Draghicchio, Matticchio, Pastroricchio, Scampicchio, Tarticchio, Zadaricchio e qualche altro.
Abbiamo alcuni suffissi ièr: Ruzzier (Ruggero), Venier, Verdier, Vernier, Verzier (Vergerio), Zanier.
Pochissimi atti, atto: Borsatti, Bratti; Barzellatto, Bigatto.
Ch'io mi sappia, nessuno olli e pochissimi òl, iòl: Biasiol, Mazzarol, Mengaziol, Zampriol.
Pure pochissimi ante e anti: Aquilante, Bellante, Bradantante, Fioranti, Morgante, Revelante.
Pochissimi isi, forse i soli Borisi e Gravisi.
Alcuni cognomi terminano con vocale accentuata: Abbà, Barnabà, Bernè, Malusà, Salò, Sbisà, Steffè.
Poco frequenti sono pure i suffissi alda, aldi, aldo, ardi, ardo ecc. (vedi pg. 186): Bonaldo, Gariboldi, Gavardo, Giraldi, Grimalda, Rinaldi, Sgagliardi.
Capitolo secondo: Il significato.

In questo capitolo seguirò, con alcune modificazioni, il metodo adottato dallo Scarlatti (19); prenderò cioè per base le etimologie e disporrò i cognomi a seconda della loro comunanza d'origine e di significato.

È facile a comprendersi che, trattandosi di una sola provincia e per di più non abitata solo da italiani, i singoli gruppi non offriranno quella copia di materiali che offrirebbe uno studio p. e. su tutto il regno d'Italia. Fra noi predominano i cognomi derivati da nomi personali, da arti e mestieri, da qualità morali e fisiche e quelli derivati da nomi od aggettivi geografici; numerosi sono pure i cognomi d'etimologia incerta od ignota (20). [189]

Una prima fonte adunque dei cognomi sono i nomi personali che, trasmettendosi di padre in figlio, facilmente si cambiarono in gentilizi; eccone alcuni: Agostini; Albertini; Angeli, Angelini, Tolto (21); Almerigotti; Antonini, Antonelli, Antoniazzo, Dettoni, Tonetti; Bartoli; Battistella, Hattistin; Benedetti, De Betto (22); Bernardis, Bernardelli, Bernardon, Debernardi, Dellabernardina; Biagini; Carlini, Decarii; Corradini; D'Ambrosi; Danelon, Danielutti; Deluca; Filippi, Filippini, Filiputti; Franceschi, Franceschini, Defranceschi, Cecco, Cecconi; Gabrielli; Gasperini, Gasperutti; Giacomin, Giacopelli; Giorgini, Giorgis, Degiorgio, Dezorzi, Zorzet; Giovannini, Gianelli, Gianolla, Zanetti, Zanettin, Zanelli, Zanel, Zanella, Zuanelli, Dellizuani; Gregoretti; Lazzarini; Lorenzini, Lorenzetto, Lorenzutti; Léonardis, Leonardelli, Lenardon, Linarduzzi; Maddalena; Marchetti, Marcon, Demarchi; Martinnzzi; Mauro; Marin, Demarin; Paolini, Pauluzzi; Pieri, Pieruzzi, Delpiero; Rigo (Arrigo); Rinaldi; Rocco, Derocchi; Razzièr; Salomon; Sandri, Sandrin; Simonetti; Stefani, Stefanutti; Tomasi; Ubaldini, Baldini; Vittori; Zaccaria; Zuliani.
A questo gruppo panni opportuno aggiungere alcuni cognomi formati da due nomi personali o da un nome personale unito ad altra parola qualunque, p. e.: Depicolzuane, Fragiacomo, Pierobon, Valdemarin, Zandegiacomo, Zamarin, Zanfabbro, Zangrando.
Un secondo gruppo di cognomi si può formare con quelli derivati da professioni, arti e mestieri: Balestrier; Bottegaro, Calegari, Cancellier, Carbonaio, Crirellari, Del Mistro, Dell'Oste, Dell'Osto, Del Fabbro, Fabbro, Fabretto, Farretto, Facchin, Facchinetti, Fattor; Ferrari, Fornari, Fornasaro, Fornasari, Fornasar, Marangon, Marzari, Pagliaro, Pelizzaro, Pelizzèr, Pettenèr; Sartori, Sartoretto, Segàr, Seghèr, [190] Strolego, Tagliapietra, Tessèr, Tesserin, Tessaris, Tessaròlo, Zago, Zappadòr.
Affine al gruppo precedente è quello che si potrebbe formare dai cognomi derivati da gradi e dignità ecclesiastiche, celesti, feudali e militari; p. e.: Chierego, Chierighin, Abbà, Vescovo, Devescovi, Apostoli, Angeli, Angelini, Cherubini, Dessanti, Divo; Signori, Signoretto, Signorelìi, Castellani, Paladin, Barone, Delconte, Marchesi; Caporalin, Soldà, Tamburin.
Utensili ed oggetti d'ogni sorta: Balanza, Balanzin, Balestra, Bandiera, Bronzin, Cuenazzo, Corazza, Corda, Della Piccca, Deponte, Lera, Luchetto, Pianella, Rodella, Scarpa, Spagnoletto, Spongia, Sponza, Tavolato, Tromba, Zattera.
Piante, fiori e frutti: Castagna, Cicuta, Cipolla, Fiori, Fioretti, Florido, Fioranti, De Flora, Foglia, Formenton, Palma, Rovere, Salata, Sorbola, Sorgo, Viola, Zucca.
Ricco pure il gruppo composto da nomi di bestie (23): Basilisco, Cupon, Cicogna, Colombin, Colambis, Gallo, (Grio (Grillo), Moscon, Palombella, Polla, Polesini, Sauro, Volpi.
Ricco è il gruppo di cognomi derivati da qualità morali: Amoroso, Bon, Contento, Cortese, Delcaro, Della Saria, D'Onorà, Fedele, Galante, Gentili, Modesto, Nobile.
Colori: Bianchi, Bianchini, Biondi, Bruni, Brunelli, Brunetti, Candido, Delmoro, De Mori, Moretti, Negri, Neri, Rosso, Rossi, Rossetti, De Rossi.
Qualità fisiche: Bassa, Bassi, Basso, Belli, Del Bello, Curto, Longo, Delzotto, Gobbo, Degobbis, Grassi, Degrassi, Pelòs, Pesante, Piccoli, Rizzi, Rizzo, Vecchi, Zigante.
Casa e accessori: Casa, Corte, Cortiro. Piazza, Scala, Solaro, Solari.
Oro-idrografia, geologia e mineralogia: lamarina. Monte, Monti, Valle, Vallon, Dellavalle: Argenti, Calcina, D'oro. Ferro, Della Marna, Dellapietra, Depiera. [191]
Fenomeni atmosferici: Bonazza, Bontempo, Farento, Garbin, Tramontana.
Mesi e numeri: Gennaro, Zennaro, Agosto; Deotto, Quaranta, Quarantotto (24).
Nomi di cose astratte: Fortuna, Forza, Speranza.
Numerosissimi sono i cognomi composti (vedi anche gruppo 1): Acquarita. Barbarossa, Basadonna, Beltrame, Bennati, Benvenuti, Benregnù, Bevilacqua, Bonafin, Bonaluce, Bonano, Bonifacio, Boninsegna, Bonivento, Buoncompagno, Fiordelmondo, Malusà, Nassiguerra, Pettorossa, Fettaròs, Poht.
A questo capitolo aggiungeremo alcuni cognomi che ricordano la storia romana ed italiana e l'epopea carolingia: Apollonio, Bruti (25), Cassio, Cesare, Costanzo, Latin, Petronio, Pilato, Romano, Valente; Bembo Dandolo, D'Este, Loredan, Medici, Morosin, Tiepolo, Venier; Bradamante, Orlando, Morgante.
E abbastanza grande è il numero di quei cognomi che non sapremmo a qual gruppo aggiungere; ne citeremo alcuni di comunissimi : Artusi, Baseggio, Borri, Bubba, Candussio, Castro, Chicco, Cimador, Clera, Decleva, Comisso, Corrente, Corra, D'Agri, D Andri, Delise, Depase, Deprato, Drioli, Ferranda, Festi, Fonda, Franza, Frezza, Gandusio, Genzo, Ghiro, Mamolo, Marchio, Martissa, Mecchia, Miani, Mistaro, Mondo, Moscarda, Moro, Morio, Nòrbedo, Nordio, Papo, Paruta, Pase, Penso, Radico, Raralico, Rismondo, Riosa, Robba, Rossanda, Rota, Salragno, Sambo, Sansa, Stradi, Tamaro, Triscoli, Zaro, Zetto ecc.

Capitolo terzo: Cognomi derivati da nomi ed aggettivi geografici.

Poche province italiane (forse nessuna) contano tanta copia di cognomi derivati a questo modo quanto l'Istria; tale [192] fenomeno è in stretta connessione con le vicende storiche del paese.

Decimata la popolazione nostra dalle guerre, dalle pesti e dalla malaria, Venezia e gli Arciduchi introducevano in grandi masse coloni forestieri ; dei neovenuti, specialmente quelli che si stabilivano nelle città venivano dagli indigeni denominati secondo il luogo di loro provenienza. Paura delle incursioni delle genti della Contea su territorio veneto, ma più ancora la sgradita vicinanza dei nuovi coloni (genie per lo più barbara e feroce) inducevano gli abitanti delle borgate interne a rifugiarsi nelle città meglio fortificate della costa. Fra quest'ultime primeggia Rovigno, la quale, perchè isola (26) e ben murata, offriva sicuro ostello ai fuggiaschi istriani, che parimenti venivano designati a seconda dei loro luogo natio. È a dirittura sorprendente il numero di tali cognomi esistenti nel secolo XVI a Rovigno. Il Dr. Benussi in una sua pregevole publicazione da noi già citata a pg. 180 li riporta tutti e la serie è veramente interessante (27). Naturalmente non poche di queste famiglie sono estinte o anno assunto un altro cognome. Capodistria (28) e Isola (29) anno pur esse gran copia di si fatti [193] cognomi, però in stragrande maggioranza derivati da città d'Italia; numerosi sono essi pure a Pirano (30), a Parenzo, a Portole e si può dire dovunque nell'Istria; ne abbiamo raccolti 89 ma ne saranno probabilmente degli altri (31). In maggioranza sono nomi di città italiane (32), specie del Friuli e del Veneto; [194] în seconda linea viene l'Istria; poi la Dalmazia, l'Albania, la Grecia ed altri paesi. Ci atterremo a tale suddivisione (33).

a) Dal Veneto, Friuli orientale e Trentino

Altin (34), nei dintorni di Grisignana.
Bassàn (35), a Laurana.
Bassanese, nei dintorni di Portole.
Battaia (36), a Cherso.
Buranello (37), a Rovigno.
Cella (38), a Cherso.
Dalla Motta (39), a Rovigno.
Da Vanzo (40) a Pirano, Cittanova e Rovigno.
Dalla Venezia, a Capodistria ed Isola.
De Caneva (41), a Visignano.
D'Estè, a Capodistria ed Isola.
D'Udine, a Isola.
Fulin (42), a Rovigno.
Furlani, a Santa Domenica di Albona.
Gortàn (43), Dignano, Pinguente ed altri luoghi dell'interno.
Liòn (44), a Pirano. [195]
Lughi (45), a Portole.
Mestre, a Parenzo.
Monfalcon, a Parenzo.
Morgàn (46); nel comune di Corte d'Isola e di Canfanaro vi sono due ville abitate da famiglie di tal nome.
Padovàn, a Capodistria e Cittanova.
Pavàn (abbreviazione di Padovan), a Pirano e Rovigno.
Pinzan (47), a Parenzo e nella villa Pinzani di Montreo (Montona).
Trevisàn, a Dignano, Buie ed altri luoghi.
Torcello (48), a Grisignana.
Verla (49), a Dignano.
Veronese, a Pirano.
Visintin(i), a Portole e dintorni. È nome comunissimo nel Friuli orientale.

b) Da altre parti del regno d'Italia
Bergamasco, a Dignano.
Bergamo, a Sanvincenti.
Bologna, ad Isola.
Colognin, a Cherso.
Cassano (50), a Montona.
Fiorentin, a Veglia.
Ferrarra, a Dignano, Rovigno e Sanvincenti.
Ferrarese, a Dignano.
Gavardo (51), a Capodistria.
Marchesan (Marchigiano), ad Isola. È nome comunissimo a Grado. [196]
Mantoran, in più luoghi dell'interno (Pédena, Sovignaco).
Parma, ad Isola.
Perusino, a Parenzo.
Pesaro, a Capodistria ed Isola.
Piacentini, a Capodistria.
Piemonte, a Rovigno.
Pisani, a Valle.
Pugliese, ad Isola.
Romano, a Capodistria.
Ravenna, a Rovigno.
Salò (52), a Pirano.
Toscàn, a Villa Decani presso Capodistria.
Trani (53), a Pirano.

c) Dall'Istria
Bogliun(o), a Sissano.
Bri(v)onese, a Rovigno.
Chersan, nei dintorni di Dignano.
Chersin, a Pola e Fasana.
Dapiran, a Rovigno.
Dapinguente, detto.
Dapisin, detto.
Daveggia (Daveglia), detto.
Grimalda, a Portole, Grisignana, Maresego ed altri luoghi dell'interno.
Medelin (Medolino), a Rovigno e a Gallenano.
Muggia, a Rovigno.
Mujesan (Muggesano), a Pirano.
Novacco, ad Umago.
Parentin, a Cittanova.
Parenzan, a Pirano.
Torre, detto.
Vallese, a Rovigno.

d) Dalla Dalmazia, Albania e Grecia
Albanese, a Rovigno e a Parenzo.
Alessio (54), a Capodistria. [197]
Cattaro, a Pisino e Albona.
Ciprian, a Rovigno.
Cipriotti, a Dignano.
Dalino (55) (da Lemno), a Rovigno.
Dazzara, detto.
Decandia, a Veglia.
Melada (56), nella campagna di Cherso.
Premuda (57), a Lussinpiccolo.
Ragusin, detto.
Zaratìn, a Rovigno (v. anche Zadaricchio a pg. 188).

e) Da paesi diversi
Castiglia, ad Umago.
Crevato, a Buje.
Crevatin, cognome molto frequente in Istria, specie fra gli Sloveni.
Grego, a Rovigno e Orsera.
Lubiana (58), a Visinada e Verteneglio.
Tedeschi, ad Orsera.
Tedesco, nel comune di Lazzaretto presso Capodistria.
Turco, nel comune di Villa Decani ed altri dei dintorni di Capodistria.
Zagabria, a Fianona.

Note:
[180] «Abitanti, animali e pascoli in Rovigno e suo territorio nel secolo XVI». Atti e Memorie della Soc. istr. ecc. ecc. II, 1° e 2°, Parenzo 1886.
p. e. Camillo De Franceschi, La popolazione di Pola nel secolo XV e seguenti. Trieste, Caprin
«Biografia degli uomini distinti dell'Istria», Capodistria 1888. Pgg. 456-460.
[181] Vedi B. Schiavuzzi, Cenni storici sull'etnografia dell'Istria, Atti e Memorie ecc. XVIII, 1° e 2° pg. 75 e segg. — P. Tomasin, Die Volksstämme im Gebiete von Triest und Istrien, Trieste 1890); in questo lavoro si trovano citate le principali famiglie, istriane provenienti da Venezia, dal Friuli, dal resto d'Italia e quelle d'origine locale; quest'ultime sono di gran lunga le più numerose.
Schiavuzzi, op. cit. pgg. 100 e 101.
Carlo De Franceschi, L'Istria — Note storiche, Parenzo, 1879, a pg. 366.
Carlo De Franceschi, op. cit. pg. 366.
[182] La slavizzazione di questo nome friulano è recente; i Marassich, detti Barisoni, conservano come gli altri Valdoltrani, assieme alla lingua, il tipo prettamente, italiano.
[Il nome Milòc o Milòcco è comunissimo nelle Basse friulane, a Palmanova e a Udine.
Li trascrivo dal lavoro di Gedeone Pusterla (A. Tomasich), «Famiglie capodistriane esistenti nel secolo XVI», Capodistria, 1886, pg. 21 e 22.
Carlo De Franceschi, op. cit., pg. 351.
[183] Camillo De Franceschi, nel suo ultimo lavoro, citato a pg. 180, ci dà una chiara idea della slavizzazione della Polesana. Ancor alla metà del sec. XV Medolino era quasi esclusivamente abitata da indigeni, cioè da italiani; dei 197 cognomi di persone vissute colà fra il 1441 e il 1527, gli slavi saranno al massimo una decina; vi predominano i seguenti cognomi: Ambroxi, Aneda, Beltrame, Bertoli, Bevilaqua, Del Caro, Corvolini, Draxeli, Della Vecchia, Ferro, Germani, Guarneri, Luciola, del Matana, Paladini, de Vidal. Piccolissima fu l'infiltrazione slava per tutto il sec. XV fra gli abitanti di Momarano, Castagno, Arano, Orzevano e Marana: nessuna o quasi a Gallesano, Lisignano, Fasana, Peroi, Sissano e Pomer. A Peroi l'antica Pedrolo) ripopolata nel 1658 da coloni montenegrini, esistevano nel secolo XV le seguenti famiglie: de Antignana, Balifava, Bertaldon, Bisca, Hiverius, Cosso, Danucoli, de Daria, Della Pergola, Fasculini, Gignata, Gorlato, de Lindàr, Pasquini, Sani, Scincha, Schinella, Severi, Toti, Trulla e Zurloto. Soltanto Lavarigo e Stignano, due villette di pochi fuochi per ciascuna, appaiono ripopolate già al principio del Quattrocento da Schiavoni e Morlacchi di Dalmazia. La terribile pestilenza del 1527, che decimò la popolazione di Pola, fu probabilmente la causa della distruzione di Arano, Orzevano, Castagno e Marana, che più non risorsero dalle rovine. L'ultimo importante trasporto di slavi avvenne nel 1658, come già accennato, a Peroi; cosicchè nel corso di un secolo o poco più si mutò in gran parte il carattere nazionale della polesana: soltanto in tre ville perdurò e perdura ancora l'elemento indigeno italiano, cioè a Fasana, Sissano e Gallesano.
[184] L'accentramento di tante autorità militari à causato un po' di confusionismo nei cognomi di questa città.
[185] Ecco alcune di queste località a seconda dei rispettivi comuni: Albona: Cargnelli, Cicuti, Cumini, Mattiuzzi, Spagnoli; Antignana: Danieli, Fattori, Grimani, Lizzardi; Barbana: Batelli, Borini, Fumetti, Quaranti; Buje: Contarini, Musolini; Canfanaro: Morosini, Morgani, Dignano: Bonassini, Brusini, Maruzzi, Zucconi; Gimino: Battistini, Carnevali, Festi. Galanti, Luciani, Milanesi; Grisignana: Altini, Armani, Burri, Calcini, Cortinari, Mengotti, Pisoni, Reganzini, Vigini, Visintini; Montona: Caligari, Fedeli, Ferri, Fiorini, Paladini, Ziganti; Orsera: Perini, Pertinazzi; Pinguente: Carli, Gorelli, Lucchini; Pisino: Ballarini, Baroni, Cesari, Deltini, Facchini, Fattori, Fornasari, Franzini, Lanzi, Marcozzi, Marzari, Parisi, Pilati, Segari, Sergi, Ziganti; Portole: Rallini, Beninici, Bonazzi, Boschini, Castellani, Freschici, Foschici, Grimaldi, Iacuzzi, Mocenighi, Passini, Pighini, Visintini, Zubini; Sanvincenti: Marchetti, Tofolini; Umago: Cipriani, Gezzi; Visignano: Farini, Gasparini, Mainenti, Milanesi, Raffaelli.
[186] Eccone alcuni: Beroaldo, Berti, Bertoldi, Broccardi, Ellero, Epplrro, Ghisleri, Girardi, Graighero, Gropiero, Longobardi, Martinenghi, Prampero, Rodighiero, Solinibergo, Tibaldi ecc. ecc.
p. e.: Antoniucci, Angelucci, Bartoccini, Bartolucci, Cartocci, Cocconcelli, Fantucci, Lancelotti, Marcucci, Santucci ecc. ecc.
p. e.: Cappuccilli, Cifariello, Di Cagno, Di Nicolò, La Macchia, Laruffa, Lapiccirella, Loffreddo, Loperfido, Lorecchio, Lorusso, Pasulli, Petrilli ecc. ecc.
Significa anche soldati di ventura; vedi in proposito D. Venturini, La guerra di Gradisca, Capodistria, 1905, pg. 53.
[188] A. Scarlatti. I cognomi, in «Minerva, Rivista delle riviste» Roma, A. XIII, 1903, N i 37 e 39. Vedi anche G. Flechia, Di alcuni criteri per l'originazione dei cognomi italiani. Roma. Reale Accademia dei Lincei, 1878.
A Capodistria in fatto di cognomi si osservano alcuni strani fenomeni: certe famiglie ànno assunto, con l'andar degli anni, un altro cognome che, spesso corrisponde all'antico sopranome; gli Utel {utello, forse da otricello, è parola usata in Toscana ad indicare un piccolo vasetto di terra cotta eràno un tempo Bertuzzi, i Filippi Musella, i Sandrin Garella, i Visentini Pozzo; alcuni nomi di famiglie estinte sorvivono ancora quali sopranomi; p. e.: Bassin, Crota; certi sopranomi, p. e. Cassòn, Burlin sono contemporaneamente anche cognomi.
[189] Totto sta per Lotto da Angelotto. Nelle forme bisillabe à luogo non di rado un principio d'assimilazione per cui la consonante iniziale s'assimila alla seguente; p. e. Momo per Giomo da Girolamo, Nanni per Gianni da Giovanni, Nenzo per Renzo da Lorenzo. Vedi Flechia. op. cit., pg. 11.
Questo accorciamento per cui il nome parossitono perde per sincope quanto è tra la consonante iniziale e la vocale tonica, è fenomeno abbastanza comune in Italia; p. a. Bace deriva da Buonapace, Gialdo da Giraldo, Dato da Donato, Toso da Tignoso ecc. Vedi Flechia, o. c., pg. 10.
[190] «I nobili veneti, e i nobili municipali esposero sulle case il proprio stemma, composto con figure che per lo più ne simboleggiavano il nome. I Brancaleoni avevano assunto nello scudo una branca leonina, i Daino un daino, i Grilli due grilli, i Lepori una lepre, i Polesini due pulcini, gli Orso un orso...» Vedi G. Caprin. Istria nobilissima, I, Trieste 1905, pg. 252.
[191] Questo nome, frequente a Rovigno e ad Orserà, deriva, secondo il prof. De Gubernatis, dal numero dei membri di qualche confraternita medievale d'arti e mestieri.
Secondo una tradizione i Bruti discenderebbero dai Bruti, romani. Vedi anche D. Venturini, La famiglia albanese dei conti Bruti. Parenzo, 1905, pg. 3.
[192] Il canale che la divideva dalla terraferma, ridotto a bassofondo linnsccioso, venne interrato nel 1763. Vedi in proposito B. Benussi, Storia documentata di Rovigno, Trieste 1888, pgg. 6-8.
«Abitanti, animali e pascoli ecc.» pgg. 121-123. Nel delle 543 famiglie di Rovigno ne troviamo non meno di 146 che avevano approfittato dell'ospitalità di quella terra. Ecco alcuni nomi: Bri{v)onese, Da Brioni, Carso, Da Dignan, D'Albona, Da Canfanaro, Da Cherso, Da Ossero, Da Pedena, Da Pinguente, Da Pisin, Da Veggia, Da Zumin Gimino, Da Barbana, Da Coslaco, Del Carso, De Gallignana, De San Martin, De Sanvincenti, Rozzo, Gallignana, Lussin, Da Monfalcon, Da Piran. Da Pola, Da Caro d'Istria, Fasana, Fasanin, Medelin, Vallese, Veggian, Vrana; Bergamasco, Buranello, Da Caorle, Da Ferrara, Ferrarese, Furlan, Dalla Motta, Da Venezia; Albanese, Ciprioto, Clissa, Crovata, D'Arbe, Da Curzola, Da Fiume, Da Stagno, Da Zante, Da Zara, Dalla Brazza, Da Sebenico, Grego, Malvasia, Narenta, Perasto, Raguseo, Zaratin, Svizzera.
Il loro numero era qui per lo passato molto maggiore; v'esistevano le seguenti famiglie : Albanese, Antivari, Bergamasco, Bergamo, Cargnel, Castelfranco, Crema, Cremona, Iudri, Isola, Lendinara, Lugo, Maniago, Marchesan, Navarrino, Ossana, Pinguente, Pinguentini, Salerno, Salò, Schiavon, Siena, Tedeschini, Todi, Torre, Trevisan, Verona, Veronese.
In L. Morteani, «Isola e i suoi statuti» Atti e Memorie ecc. Vol. III, 3° e 4°, 1888, pgg. 172-175 troviamo interessanti notizie sui cognomi isolani.
[193] Per i cognomi di questa città «che vanta una serie di famiglie che risalgono ad epoche lontanissime») vedi L. Morteani, Notizie storiche della città di Pirano, Atti e Memorie ecc. Vol. XII, 1885-l886, fasc. 1°-4°. Pola, che presentemente in fatto di cognomi desta poco interesse, constando la quasi totalità della sua popolazione di elementi immigrati da tutta l'Istria, Pola, diciamo, e il suo territorio contavano tino al secolo XVI, cioè prima del loro totale decadimento, gran copia di cognomi derivati da nomi ed aggettivi geografici. Ecco quelli che registra Cam. De Franceschi, op. cit.: Albanesi, de Albona, de Arezio, de Antivari, de Antignana, de Arbe, Arbisan, de Btassano, Battaia, de Bergamo, de Buglia, de Cargna, de Castelmuschio, de Cataro, de Chersio, de Corfù, de Cremona, Della Braza, Della Mirandula, de Fano, Ferrarese, de Flanona, de Fiorentia, de Flumine, de Francia, Furlan, de (Garardo, de Iadra, de Insula, de Iustinopoli, de Laurano, de Lindàr, de Lubiana, de Lussino, Mantoani, de Marzana, de Modruscia, de Montefalcone, de Montona, de Napoli, de Narenta, de Ossero, Paduano, de Parenzo, de Patras, de Paria, de Pesaro, de Pirano, Pisani, Polani, de Portogruario, Posega, de Preluca, de Prussia, de Raguxio, de Rimini, de Ruovigno, de Sagabria, de Sanvicenti, de Sdregna, de Segna, de Sibinico, de Spalato, de Torre, de Tragura, de Treviso, Turco, de Ungaria, de Valle, Veggia, de Venesia, Veneziani, de Verona, de Vicentia, Vicentini, de Zumino, de Bononia, de la Marcha.
Non abbiamo inserito nell'elenco alcuni cognomi, sull'origine de' quali avevamo de' dubbi, p. e. Polesini, che potrebbe derivare anche dal Polesine; Farento da Faventia (Faenza), Gravisi da Graviseae, città etrusca o da Grado (Gradesani, Gravisani), Travan da Travo presso Piacenza o da Trava prov. di Udine ecc. ecc.
«Ah, ah!» esclamerà qualcheduno «voi stessi confessate che gli Italiani dell'Istria sono venuti dall'Italia!» Adagio Biagio, carissimo amico; noi diciamo solamente che in Istria vennero anche famiglie italiane, le quali poi rimasero tali fino al giorno d'oggi, essendo venute in paese italiano; altrimenti si sarebbero slavizzate. Del resto anche in altre province della cui italianità speriamo voi non vorrete dubitare, si trovano moltissime famiglie, il nome delle quali ci dice esser esse oriunde dall'Italia; nel Friuli orientale, p. e., abbiamo trovato questi cognomi: Arian, Bergamasco, Carnielutti, Carrara, Cremese, D'Este, Gortani, Maniago, Manzano, Maran, Marchesan, Maréga, Marocco, Monferrà, Orzàn, Padovan, Panigai, Parmeggiani, Perusino, Piemontese, Ponton, Romano, Savorgnani, Serravalle, Trevisan, Vinci, Visintin ecc. e nel Trentino; Bergamo, Bresciani, Caprera, Cargnel, Magnago, Mantovani, Moggio, Modena, Ravelli, Romani, Perugini, Toscana, Vanzo ecc. O sostenete che neppur colà gli Italiani sono autoctoni?
[194] A Trieste, fra le famiglie oriunde Israelite vi sono molti cognomi derivanti da nomi di città italiane: Ascoli, Castelbolognese, Fano, Macerata, Modugno, Pavia, Reggio, Rimini, Sinigaglia, Terni, Tolentino, Venezian, ecc.
Altinum, Altino, era celebre città della Venezia, distrutta nel 452 dagli Unni.
Bassano è città di circa 15.000 ab. sul Brenta, in provincia di Vicenza.
Battaglia è rinomato luogo di cura presso Abano; Battaja è frazione del comune di Fagagna (Udine).
Burano, Bureanum, è cittadetta di 6800 ab. posta su di un'isoletta della laguna veneta.
Cella è paesetto della Carnia, in val del Dogado.
Motta di Livenza è cittadetta di 6000 ab. in prov. di Treviso.
Vanzo è il nome di parecchi villaggi in provincia di Padova.
Caneva è borgata nel distretto di Sacile (Udine) e villaggio nella Carnia.
Fulin è trazione del comune di Tambre d'Alpago presso Belluno.
Questo nome, molto diffuso in Friuli, deriva dal Canal di Gorto, nella Carnia.
Lion è frazione di Albignasego (Padova).
[195] Lugo è cittadetta in provincia di Vicenza; anche altri luoghi nel regno d'Italia ànno tal nome.
Morgàn è nome di un paesello presso Belluno e di un comune presso Treviso.
Pinzàno è borgata nel distretto di Spilimbergo (Udine).
È frazione del comune di Burano, nell'Estuario veneto. Fu città ragguardevole e sede vescovile.
Verla è paesello presso la Val d'Adige nel Trentino; Villa Verla è comune in prov. di Vicenza.
Cassane d'Adda è città di 7500 ab. in prov. di Milano; ve ne sono anche d'altri specie in Lombardia.
Gavardo è grossa borgata di 2200 ab., in prov. di Brescia.
[196] Salò è borgata sul lago di Garda (Brescia).
Trani è citta di 27.000 ab. nella Puglia.
Alessio è città A d'Albania, che conta 5000 ab.
Lemno è isola, nel mar Egeo, appartenente alla Turchia.
Melada è isoletta nella Dalmazia sett.
Premuda e un'isoletta nella Dalmazia settentrionale.
Oltre che la capitale della Carniola, Lubiana è anche frazione di Caprino prov. di Verona. Non sarebbe improbabile che i Lubiana istriani fossero d' origine italiana.

mercoledì 6 marzo 2024

I contrasti nei comandi imperiali ed il fallimento della Strafexpedition (M. Vigna)

La battaglia degli altipiani, durata dal 5 maggio al 27 luglio 1916, spesso chiamata Frühjahrsoffensive (offensiva di primavera) nella storiografia austriaca e Strafexpedition (spedizione punitiva) in quella italiana, fu il tentativo dell’esercito imperial-regio asburgico di sfondare il fronte italiano sul saliente trentino-tirolese. L’obiettivo strategico primario era Bassano del Grappa, inteso quale punta d’una freccia che doveva estendersi su di un fronte assai più ampio. Uno sfondamento nella zona degli altipiani, con successivo dilagare a valle tra Bacchiglione e Brenta, avrebbe potuto concludere la guerra dell’Italia, perché quasi tutto l’esercito mobilitato, il cui grosso era concentrato sul fronte dell’Isonzo, sarebbe finito all'interno di una grande sacca senza possibilità alcuna di uscirne. 

La battaglia si risolse, dopo molti momenti critici per il Regio esercito, in una vittoria strategica per l’Italia anche se ottenuta a caro prezzo. Fu la prima offensiva condotta dall’Austria-Ungheria contro l’Italia, che non ne condusse altre da sola prima di quella sul Piave: la vittoria di Caporetto fu infatti resa possibile dal decisivo aiuto tedesco. La battaglia degli altipiani infatti indebolì a tal punto il fronte russo dell’Austria da consentire il massimo successo della Russia nella guerra, l’offensiva Brusilov. Inoltre l’usura delle truppe migliori ed il consumo d’ingente materiale, oltre al contraccolpo sul morale derivante dall’insuccesso, portarono alla vittoria italiana nella battaglia di Gorizia.

Numerosi furono i fattori che concorsero al fallimento dell’ambizioso progetto di Conrad Von Hotzendorf, che aveva concentrato nel Trentino le migliori unità e mezzi disponibili, a costo di sguarnire il fronte russo: la capacità del comando italiano di spostare celermente dall’Isonzo molte unità, che rallentarono ed infine fermarono gli austro-ungarici; la determinazione dei difensori, che si batterono talora sino all’annientamento d’interi reparti di retroguardia; il terreno di montagna costituiva di per sé una barriera naturale. Un altro fattore ancora però fu la cattiva conduzione della battaglia da parte dello stato maggiore austriaco e dei comandi sul campo. Erano stati scelte truppe esperte e bene addestrate, solitamente tenute a riposo per l’offensiva, spostata un’imponente artiglieria fra cui abbondavano anche calibri come obici da 381 e 420. Però gli alti comandi furono in disaccordo fra di loro ed incapaci di gestire un’operazione complessa.

 Il 10 febbraio a Teschen l’erede al trono, l’arciduca Carlo d’Asburgo, aveva chiesto al capo di stato maggiore Von Hoetzendorf di poter avere un comando nel Trentino in vista dell’offensiva, ma il generale aveva rifiutato ritenendo inadeguato totalmente il futuro imperatore. L’arciduca, fortemente contrariato, lasciò l’incontro ed andò a lamentarsi del diniego. Il capo di stato maggiore, sottoposto a pressioni politiche, si risolse ad accontentare Carlo d’Asburgo affidandogli il comando del XX corpo d’armata ed assegnandogli come tutore di fatto Alfred von Waldstätten, colonnello nominato capo di stato maggiore del corpo. Von Hoetzendorf dovette confrontarsi anche con un altro Asburgo, l’arciduca Eugenio comandante del fronte meridionale, che fece avere un suo piano operativo bocciato da Conrad, con sdegno del principe. Curiosamente, Von Hoetzendorf, l’arciduca Carlo e l’arciduca Eugenio erano tutti e tre notori italofobi, specialmente il primo ed il terzo che avevano proposto rispettivamente una guerra preventiva contro l’Italia e la snazionalizzazione sistematica del Trentino. Però fra di loro, in preparazione all’offensiva contro l’odiato nemico, il clima fu di astio, sfiducia ed invidia. I militari di professione reputavano i due arciduchi semplicemente inadeguati ed assurti alle loro cariche unicamente per ragioni di rango. Gli Asburgo invece erano irritati dall’atteggiamento di superiorità dei militari. In più l’arciduca Carlo non sopportava d’essere sottoposto gerarchicamente all’arciduca Eugenio, essendo lui l’erede al trono designato, mentre Eugenio reputava il parente incapace di comandare un corpo d’armata.

 Il clima di litigiosità, sfiducia, risentimento fra gli alti comandi favorì errori tattici e strategici gravi. Poiché Carlo d’Asburgo era l’imperatore in pectore, considerata la tarda età di Francesco Giuseppe che sarebbe morto pochi mesi dopo la battaglia, ottenne per il suo corpo d’armata, dunque per sé, un ruolo importante ed autonomo nell’offensiva, che condusse ad un allargamento eccessivo del fronte d’attacco anziché ad una concentrazione delle forze. Inoltre vi furono disaccordi fra i comandi anche sugli obiettivi intermedi, con disaccordo fra Von Hoetzendorf e l’arciduca Eugenio ognuno dei quali aveva le sue idee.
 È impossibile quantificare la misura in cui tale disorganizzazione dei comandi asburgici abbia influito sull’esito della battaglia, ma è certo che la presenza degli arciduchi Carlo ed Eugenio si rivelò una iattura per quella che, nelle intenzioni dello stato maggiore, doveva essere una battaglia decisiva per la guerra e la stessa sopravvivenza dell’impero.

La sorte dei militari italiani in mano all'Austria imperiale (M. Vigna)

I prigionieri italiani nella Grande Guerra furono molti: circa 260.000 catturati dall’inizio della guerra sino a Caporetto (per la maggior parte feriti), 280.000 presi nella ritirata dopo Caporetto, altri 50.000 nell’ultimo anno di guerra. Il totale ammonta quindi a circa 600.000, fra cui 19500 ufficiali. I morti in prigionia furono circa 100.000, quindi 1 prigioniero italiano su 6 perì nei campi di prigionia imperiali. La cifra effettiva di coloro che perirono in conseguenza delle condizioni della cattività è però più alta, perché altri 50.000 morirono poco dopo la liberazione dai lager imperiali perché ormai troppo debilitati e malati. Di fatto, su 600.000 prigionieri italiani finiti nei campi di concentramento imperiali, 150.000 morirono: 1 morto ogni 4 prigionieri.

Le condizioni dei prigionieri furono piuttosto differenti, perché circa 1/3 fu rinchiuso in campi della Germania (dove furono trattati molto meglio che nell’impero d’Austria) e vi furono differenze anche nei lager austriaci. Lo status dei militari italiani catturati fu comunque mediamente pessimo.

La razione quotidiana era inferiore alle 1000 calorie, quindi insufficiente per un uomo adulto. Il pasto che l’impero concedeva ai prigionieri fu solitamente così costituita, grossomodo: uno scadente caffè d'orzo come colazione, un minestrone a base di rape come pranzo, una patata, con una aringa ed una fettina di pane per cena. La carne era un lusso raro, che si limitava ad un pezzettino minuscolo due o tre volte la settimana. Ridotti a scheletri, i prigionieri cercavano di lenire la fame con espedienti inutili o dannosi, talora letali: ingollando grandi quantità di acqua, inghiottendo erba, carta, talora persino terra, piccoli pezzi di legno od addirittura sassolini.

La carenza alimentare era aggravata dal lavoro forzato, a cui i prigionieri erano obbligati per 12-14 ore al giorno, con lavori pesanti nell’agricoltura, nell’industria, nelle miniere. La combinazione fra mancanza di calorie e consumo di stesse in lunghi e gravosi impegni condusse inevitabilmente ad una alta mortalità.

La salute dei prigionieri fu menomata anche dal vestiario e dall’alloggiamento. Le autorità imperiali non si curarono di rimpiazzare le uniformi con cui erano stati catturati o di fornire ai prigionieri abbigliamento invernale qualora i prigionieri non lo avessero. Inoltre gli italiani erano rinchiusi di norma in grossi stanzoni privi di riscaldamento ed infestati da pidocchi.

Da ultimo, ma non per ultimo, i carcerieri imperiali fecero ampio ricorso a punizioni corporali durissime, secondo norme e consuetudini radicate nell’impero d’Austria e non solo verso i prigionieri. Il ricorso alla bastonatura, che per inciso era peggio della fustigazione, fu frequente contro i patrioti italiani nel Risorgimento ed ancora dopo il 1866 contro gli irredentisti in senso stretto. Contro i prigionieri italiani si utilizzarono bastonature e la tortura del palo. Essa era così condotta. L’italiano era legato con corde ad un palo alle caviglie ed ai polsi, tendendo le braccia sollevate verso l’alto ed all’indietro, i piedi invece sollevati dal suolo ed incrociati, affinché il corpo dovesse pendere in avanti descrivendo una sorta di semicerchio. Il punito era tenuto in questa faticosissima e dolorosa posizione per molte ore, due, tre, quattro. Se sveniva, ciò che accadeva sovente, il condannato era fatto rinvenire con un secchio d’acqua, oppure momentaneamente slegato e poi rilegato.

Il risultato di questa combinazione di dieta da morte per fame, lavori forzati, freddo e pidocchi, pestaggi e torture, fu un’ecatombe di decessi per polmonite, dissenteria, tubercolosi ed altro. Le testimonianze dei superstiti descrivono i campi di concentramento asburgici come popolati da scheletri ricoperti di stracci, che giacevano nel luridume, così affamati da buttarsi nei canali di scolo per tentare di recuperare scarti di cibo gettati nella spazzatura. I lager del kaiser furono soprannominati nel 1918 “le città dei morenti”.

Può essere utile un confronto fra i lager di Francesco Giuseppe e Carlo I da una parte, i lager del loro connazionale austriaco Adolf Hitler dall’altra. Il tasso di mortalità fra i prigionieri italiani nella Grande Guerra finiti nei campi di concentramento austriaci fu più che doppia di quella dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Era quindi di gran lunga più pericoloso e peggiore per gli italiani finire in un campo di prigionia di Cecco Beppe e del beato Carlo che in uno di Baffetto.


G. Procacci, "Soldati e prigionieri italiani", Torino 2000

Gian Paolo Bertelli, “Mauthausen 1918. una tragedia dimenticata”, Ferrara 2009

S. Picciaredda, "Diplomazia umanitaria. La Croce Rossa nella Seconda guerra mondiale", Bologna, 2003.

Karagiannis S., Convenzioni internazionali e diritto bellico, in La prima guerra mondiale, a c. di Audoin-Rouzeau S. e Becker J.J., Torino 2007

La Relazione della R. Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, Roma 1920-1921