venerdì 29 novembre 2024

Le origini e le prime vicende dei comuni istriani

 

Le origini e le prime vicende dei comuni istriani (1)

[Tratto da: Archeografo triestino. Raccolta di memorie, notizie e documenti, particolarmente per servire all astoria di Trieste, del Friuli e dell'Istria, Nuova serie - Vol. XXIII, Società di Minerva (Trieste, 1900), p. 101-128; e Rivista d'Italia, Volume 3, Società Editrice Dante Alighieri (Roma, 1900), p. 18-45.]

Chi studia le origini del comune, scrive il Villan, viene quasi a ricercare le origini del nostro proprio essere civile. Questa sentenza, se vale come tesi generale, assume una decisiva importanza per chi vuole conoscere e determinare le virtuali condizioni etniche e culturali della provincia dell'Istria, quando sulle stesse potessero sorgere eventualmente dei dubbi. Sta bene premettere subito, pertanto, essere state fin dall'origine codeste condizioni per la nostra provincia, del tutto ed esclusivamente, latine prima, italiane di poi, e non, dirò così, come merce importata e sovrapposta per virtù di conquista, ma come prodotto indigeno, svoltosi naturalmente per assimilazione e per istinto di razza.

Ed è questo che mi riprometto di dimostrare nel presente scritto. [19]

I.

Delle genti preistoriche dell'Istria non accade qui di parlare: sarà detto tutto, asseverando, essere state un misto di Veneti e di Celti (2). Venuta definitivamente l'Istria in potere di Roma, nell'anno 129 a. C, ritornò l'ordine, la sicurezza e il benessere fra le popolazioni indigene, mentre di pari passo estendevansi, colla lingua, i benefici della civiltà latina. Il ponte di passaggio erano le città. Favorite dai Romani nel loro sviluppo anche nell'Istria, esse divennero poscia il perno della amministrazione provinciale, ed i centri dai quali irradiavasi la nostra cultura e civiltà.

L'aggregazione dell'Istria all'Italia per opera dell'imperatore Augusto — che formò dell' Istria e della Venezia una sola unità politica, la «decima regione italica», col titolo: Venetia et Histria — fu uno dei fatti più importanti della nostra storia provinciale, siccome quello che rese l'Istria non solo partecipe delle esenzioni e dei diritti per i quali gli Italici andavano distinti dai provinciali, ma che inalzò anche le città istriane, formatesi nel periodo della dominazione romana, al grado di municipi perfetti.

Già nell'anno 129 a. C. erano state fondate nell' Istria due colonie romane, l'una a Trieste, l'altra a Pola. Dopo la battaglia d'Azio, Ottaviano mandò una colonia di legionari anche a Parenzo.

La sede del convento giuridico degli Istriani durante la repubblica era Pola, la quale mantenne anche all'epoca imperiale una certa supremazia sugli altri municipi. Ivi si eresse il tempio a Roma e ad Augusto (che ancora sussiste intatto), risiedette il flamen Augustorum, s'inalzarono statue agli imperatori, e si costruì per le feste provinciali quella meraviglia dell'arte che è l'anfiteatro — la cui cinta esterna si ammira tuttodì nella sua imponente mole.

Questi municipi quasi piccole repubbliche, i cui cittadini erano membri del popolo romano, godevano allora della massima [20] autonomia, con forma di governo eminentemente popolare, sotto la direzione di un consiglio di decurioni eletti dal popolo.

L'amministrazione e le cariche erano tali e quali come a. Roma: quindi i comizí popolari, la curia, duo viri iure dicundo, duo viri quinquennales, gli edili, questori, ecc.

Possedendo l'Istria il pieno diritto di cittadinanza romana, i suoi liberi abitatori erano inscritti in una tribù di Roma: i Polesi nella Vellina, i Parentini nella Lemonia, i Tergestini nella Pupinia, alla quale pare fossero ascritti anche i Capodistriani e gli Emoniensi, quei di Albona alla Claudia. — Che più? L'Istria ebbe in quel tempo dai suoi figli culto divino, ebbe are e templi.

Grazie alla straordinaria floridezza di cui godette l'Istria, altre città e borgate sorsero, o si ingrandirono, già nel primo secolo dell' impero, e precisamente: Pinguente, Pedena, Pucino, Egida (odierna Capodistria), Albona e Fianona. — Nel secolo successivo sorsero: Lovrana, Nesazio, Arsia, Vistro (queste tre ultime poi scomparse), Rovigno, Cissa (sommersa nel mare), Umago, Sipar (distrutta dai pirati), Pirano, Prosecco (?).

Non seguiremo le vicende subite dai municipi istriani sotto l'impero, per quanto concerne la restrizione fatta nelle libertà; diremo solo, che anche all'epoca di Costantino, la Venezia e l'Istria continuarono a formare una sola circoscrizione politica, retta da un consolare subordinato sempre al vicario per l'Italia, il quale a sua volta dipendeva dal prefetto al pretorio per l'Italia.

In quanto alle cariche municipali, troviamo nel v secolo il defensore che ne è la prima autorità, i duumviri, ai quali era rimasta la giurisdizione municipale e la presidenza della curia, e da ultimo il curatore che amministrava il patrimonio e le rendite del comune, ed era per così dire la continuazione del curator reipublicae dei secoli precedenti.

II.

Importa di ricordare un altro fatto di non scarsa importanza. Già nel primo secolo dell'impero, si era diffuso nell'Istria il cristianesimo per opera di S. Ermagora, discepolo dell'apostolo [21] S. Marco. Le prime comunità cristiane fondaronsi anche qui nei centri più popolati, ossia nelle città, che ebbero proprî vescovi e martiri durante il periodo delle persecuzioni.

Conceduta da Costantino ai seguaci di Cristo la libertà di culto, e diffusosi rapidamente il loro numero, sorsero già verso la fine del IV secolo a Trieste, a Parenzo, a Pola, le basiliche cristiane, i cui mirabili avanzi sono ancora visibili, specialmente a Parenzo. E come fu costume generale di quei tempi, la chiesa cattolica regolò anche nell' Istria la propria circoscrizione territoriale in corrispondenza alla politica. In ogni municipio sedette un vescovo, ed ogni municipio, col suo agro giurisdizionale, formò una diocesi. Così a Trieste, a Parenzo, ed a Pola, coi s'aggiunsero più tardi le sedi vescovili di Capodistria, Emonia (Cittanova) e Pedena.

Le prime irruzioni dei barbari non ci toccarono, nè ci apportarono delle alterazioni politiche dirette; salvo il risentimento che l'Istria dovette avere a cagione delle aumentate contribuzioni di legionari e di danaro. I Visigoti passarono oltre senza invadere la nostra provincia. Qualche drappello di Unni avrà forse scorseggiato il suo confine nordico, ma nulla più. Dicasi altrettanto degli Eruli e Rugi condotti da Odoacre, il cui breve dominio non alterò, certo, la costituzione politica dei nostri municipi. Sorvenuto Teodorico coi suoi Ostrogoti, è noto che egli rispettò in Italia, e quindi anche in Istria, la costituzione e la religione dei popoli vinti. Le città, dunque, ed i territori ad esse subordinati, continuarono a reggersi anche sotto i sovrani ostrogoti colle forme municipali, quali esistevano negli ultimi tempi dell' impero.

A lato delle autorità romane, incaricate dell'amministrazione civile, stava il conte goto, il quale era il luogotenente militare della provincia, ed il giudice nelle questioni insorgenti fra i Goti.

Le liti fra un Goto ed un Romano venivano giudicate anch'esse da un conte goto, ma sempre coli'assistenza di un giurisperito romano.

Sotto il pacifico e pur ordinato governo di Teodorico si accrebbe naturalmente la prosperità materiale della provincia, tanto più che essa aveva poco sofferto dalle precedenti invasioni [22] e guerre, e conservato vivo e fiorente il proprio commercio marittimo sull'Adriatico, nel Mar Nero e sulle coste dell'Africa.

Eppure il governo di Teodorico fu generalmente inviso alle popolazioni, che vedevano in lui il barbaro conquistatore che le aveva disarmate e tenute soggette, e il nemico della loro fede religiosa. Roma restava sempre per gli Istriani la città venerata, siccome unica fonte legittima di ogni autorità civile, e siccome la sede del sommo Pontefice.

Nessuna meraviglia quindi che allo scoppiare della guerra dei Bizantini contro gli Ostrogoti, gli Istriani affrettassero coi loro voti la vittoria delle armi greche, ed accogliessero con giubilo le schiere di Vitalio nel 539, gli eserciti di Belisario nel 544, e di Narsete nel 552.

III.

Il titolo di «santa Repubblica» col quale gl'Istriani solevano chiamare, con eloquente espressione, il Governo greco, rende testimonianza di quanto affetto i nostri antenati fossero legati alla religione cattolica e all'autogoverno siccome cardini fondamentali del vivere sociale.

Le più splendide manifestazioni di questo sentimento allora dominante noi le troviamo nella creazione delle basiliche tanto-numerose nell'Istria, da meritare al nostro paese il nome di « terra delle basiliche». L'inalzamento delle quali era l'espressione del sentimento di gratitudine verso la divinità che aveva liberata la provincia dal giogo dei Goti ariani, e ristabilita la santa Republica.

Per opera del vescovo Eufrasio sorse in quel torno di tempo a Parenzo, sulle fondamenta di altra precedente basilica della fine del secolo IV, demolita da lui perchè crollante, la basilica presente, splendida di marmi e di preziosi mosaici, il più insigne monumento dell'arte cristiana del vi secolo che ancora. rimanga. Il Ferstel la chiama una delle più splendide opere dell'arte antica cristiana. Ancor oggi, sopra la cattedra vescovile, risplende la croce colle aste dagli apici appuntati, che la caratterizza dei tempi di Giustiniano.

[23] Per brevità non parliamo di altre basiliche, o distrutte o in qualche parte ora esistenti a Trieste, a Pola e a Cittanova.

Col sentimento religioso fioriva altresì la cultura in tutte le città dell'Istria. Molte persone insigni per pietà e sapienza furono chiamate ad alte cariche nella gerarchia ecclesiastica, e taluna persino agli onori degli altari. Molte famiglie, che dall' Istria passarono all'estuario veneto, vennero ivi chiamate a coprire alte cariche dello Stato, e taluno divenne persino doge (Pietro Trandonico 836-864).

Giustiniano, venuto in possesso dell' Italia e dell' Istria, abolita la forma di governo introdotta dai Goti, aveva ristabilita nell'Istria la costituzione romana, quale essa vigeva nell'ultimo secolo dell'impero, ed aumentata l'autorità del difensore, affinchè questi potesse più efficacemente tutelare gli interessi delle città cui era preposto, contro gli abusi degli impiegati governativi. Ai vescovi era stata accordata la sorveglianza ed il controllo sulla condotta dei funzionari del municipio, mentre era dovere dei publici magistrati di render conto ad essi del loro operato. Agli stessi vescovi era stata conceduta la giudicatura in appello nei casi in cui la parte si credesse lesa nei suoi diritti dal giudice civile.

Quest'ampia autonomia municipale e provinciale non potè però durare a lungo, sia per cagione dell'invadente burocratismo dominante alla corte, sia anche a causa della necessità di mettere la provincia in istato di difesa, allorquando i Longobardi, occupato il Friuli e l'alta Italia, minacciavano di occupare queste contrade. Ed ecco il difensore, il curatore, il giudice provinciale perdere la loro originaria importanza, ed essere sostituiti dal potere militare.

Però la curia ed i decurioni esistettero nelle nostre città certamente fino alla fine del secolo vi e molto probabilmente anche durante tutta la dominazione bizantina, ma pare con attribuzioni limitate.

Il modo tenuto dagli Istriani nel famoso placito al Risano, che vedremo più sotto, le forme della loro protesta e gli argomenti addotti a difesa dei loro diritti (contro l'introduzione di coloni slavi chiamati dal duca Giovanni, e da questi beneficati con terre appartenenti agli Istriani), concorrono a [24] dimostrare che quella adunanza non poteva essere stata la espressione di un popolo interamente escluso per quasi duo secoli dal governo della pubblica cosa, o limitato soltanto ad eleggere le minori cariche cittadine.

Se il Gfrörer sostiene, che «la paura dei Longobardi costrinse i Bizantini ad un governo mite e giusto nella Venezia», altrettanto è da credere sia avvenuto anche nell'Istria, dove eguale se non maggiore era il pericolo dell'invasione straniera, e necessaria una pronta e gagliarda difesa da parte degli abitanti. Pensiamo quindi che, per questo motivo, non sia mancato neppure durante il dominio bizantino nelle città istriane il comune, questa autorità intermedia fra i dominatori ed i soggetti.

Autori molto accreditati asseriscono, che nelle città commerciali si conservò più che altrove la municipalità; e che il perdurare della costituzione romana è strettamente congiunto alla conservazione della libera nazionalità romana, avente in sua mano la proprietà territoriale. E tali erano appunto le condizioni dell'Istria, la quale, a differenza delle contigue Provincie italiche, carnioliche e dalmatiche, potè conservare inalterata e pura la sua nazionalità romano-bizantina, senza mescolanza di popolazioni straniere, fossero germaniche o slave. L'Istria fu dei Longobardi soltanto dal 751-788, e gli Sloveni vi fecero bensì delle incursioni, portandovi desolazione e morte nei territori da loro percorsi; ma non l'occuparono neppure parzialmente, ne mai si stabilirono in alcuna delle città e borgate.

E nessuno nemmeno si immaginerà che quelle poche centinaia di slavi pagani, che il sopra detto duca Giovanni trasportò come coloni dalla Carniola sul finire del secolo VIII, per coltivare le terre da lui tolte alle chiese ed ai municipi, abbiano potuto in qualche guisa alterare le condizioni secolari etnografiche ed amministrative del paese.

Aggiungiamo, per ultimo, che ammettendo la continuità della curia nell'Istria bizantina durante i secoli VII ed VIII, non si viene a contraddire alla storia; certo essendo che le curie continuarono a sussistere nell'impero bizantino nei secoli VII ed VIII, ed anche nel IX, e persino in molte località nel X secolo, come ce lo dimostrano le Novelle 46 e 47 dell' imperatore Leone.

[25] Anche durante il regime longobardo, le città formarono il perno dell'amministrazione politica, nel modo stesso che lo avevano formato nel periodo romano-bizantino.

Il principale mutamento fu quello della costituzione del maestro dei militi bizantino con un duca longobardo, dei tribunali coi gastaldi, e dei vicari cogli sculdasci.

L'occupazione longobarda fu del resto troppo breve per produrre mutamenti profondi nelle istituzioni politico-sociali della nostra provincia. Ed è perciò, che mentre in tutta l'Italia superiore dominava da ben due secoli il feudalismo, si erano ivi radicate le istituzioni longobardo-feudali, ed alla precedente popolazione romana si era sovrapposto un popolo straniero di origine germanica; nell' Istria perdurava ancora in buona parte la costituzione romana-bizantina, ed i suoi abitanti mantenevano pura la propria nazionalità, senza mescolanza di popoli stranieri.

IV.

Nel 789 l'Istria venne in potere di Carlo Magno e dei suoi Franchi. La conquista franca ha portato una grande rivoluzione nel nostro paese. Al sistema autonomo-romano, durato ben otto secoli, veniva repentinamente sostituito il feudale-franco, colla cooperazione dell'alto clero istriano.

Le istituzioni pubbliche bizantine vennero tutte abolite; aboliti il maestro dei militi, i tribuni, i vicari; abolita la curia, tolta ogni partecipazione del popolo alle cariche pubbliche ed all'elezione di qualsiasi magistrato; tolta la giurisdizione ai liberi sugli stranieri e sui liberti. Ogni potere civile e militare faceva capo al duca franco, imposto dal nuovo sovrano, il quale, a sua volta, condivideva questi poteri coi centarchi da lui nominati e da lui solo dipendenti, tutti investiti del potere arbitrario, senz'altra limitazione che il volere del duca, unica fonte di legge e di autorità per tutti.

I beni pubblici vennero confiscati a vantaggio del duca e dei suoi famigliari: spegnevasi ogni autorità e giurisdizione dei comuni maggiori sui luoghi del contado; molte, infine, le località minori donate dal duca ai suoi Franchi con lui [26] venuti in buon numero, ed a lui legati dal vincolo di vassallaggio. Gli Istriani perdettero non solo ogni partecipazione alla cosa pubblica, ma dovettero altresì subire la legge del vinto.

Alle angherie ed alle pubbliche rapine si aggiungevano le imposte arbitrarie, esorbitanti, persino il divieto della pesca.

Agli altri Italiani che avevano provato gli effetti della prepotenza longobarda, non frenata da leggi, gli ordinamenti di Carlo Magno potevano apparire una benedizione; non così però agli Istriani, ai quali, abituati al viver libero, quei subiti ordinamenti dovevano riuscire oltremodo gravosi.

Il grido di dolore degli Istriani giunse mediante il patriarca di Grado, Fortunato, all'orecchio di Carlo Magno, che ordinò tostasi aprisse una severa inchiesta. E fu convocato il placito provinciale al Risano (a. 804), accennato più sopra, ove alla presenza dei messi dell' imperatore, e dinanzi al patriarca di Grado ed all'alto clero istriano, fu posto a nudo dai rappresentanti delle città e castella tutto l'odioso procedere del duca, dei vescovi e dei loro aderenti. I messi imperiali dovettero far ragione alle giuste lagnanze dei rappresentanti del popolo: vennero restituiti i beni ai comuni e la giurisdizione ai forestieri; esonerati i liberi dalle opere servili; furono soppresse le imposte arbitrarie, ripristinati i tribuni e le altre magistrature bizantine; e restituito, per ultimo, agli Istriani il diritto di scegliersi liberamente i magistrati secondo l'antica loro consuetudine, diritto questo che fu poscia loro confermato con apposito diploma, nell'815, dal figlio e successore di Carlo Magno, l'imperatore Lodovico il pio.

In tal modo gli Istriani poterono sottrarsi per qualche tempo ancora all'oppressione del sistema feudale, e mantenere ancora in parte la loro passata autonomia.

Ma non fu altro che una breve sosta: colle condizioni mutate, le città perdettero un po' alla volta la giurisdizione sugli antichi territori: la campagna, sciolta dal nesso di subordinazione al municipio, venne facilmente avvolta nelle spire del feudalismo; fattosi poi questo sempre più forte, invase da ultimo-le stesse città.

Però le decisioni prese nel placito al Risano, non rimasero» interamente lettera morta. Per tutto il secolo ix, le forme di [27] governo proprie dei tempi bizantini continuarono a mantenersi nelle nostre città. Ciò è dimostrato dai documenti di quel tempo, i quali menzionano i tribuni, i vicari ed i loro servatores, e comprovano altresì che il diritto civile era quello della legge romana.

Vi ha anzi nella costituzione municipale istriana del secolo ix tanta impronta di romanità, che il Bethmann-Holweg (3) e con lui il Wagner, sostennero persino che la così detta lex romana utinensis debba la sua origine nell'Istria, armonizzando appieno quella legge colle condizioni politiche che quivi allora vigevano per effetto della costituzione franco-romana.

Non si può fissare che approssimativamente il tempo, in cui i tribuni e le altre magistrature romane cedettero il posto nelle nostre città alle nuove autorità feudali. Ciò sarebbe avvenuto verso la fine del IX ed il principio del X secolo.

A partire del 932 al 1032, i documenti ricordano la presenza nelle città di un grande numero di persone e di famiglie, i cui nomi tradiscono la loro origine tedesca. Quelle persone non solo abitavano nelle nostre città, ma coprivano anche le varie cariche di locopositi, di avvocati del popolo, e di scabini. Erano venuti in Istria col duca Giovanni queste famiglie tedesche, le quali presero prima dimora nella campagna in mezzo ai loro domini, carpiti alle città ed alle chiese, ma poi vennero a stabilirsi nelle città, ove per gii stessi loro possedimenti e per il favore dei governanti, ottennero ben presto il posto fra i maiores, e vennero eletti alle cariche più elevate.

Se le città salvarono dal generale naufragio le antiche magistrature e la costituzione, perdettero tuttavia la giurisdizione sino allora esercitata sugli estesi agri municipali.

Due fatti concorsero particolarmente a favorire questa separazione della campagna dalle città: le immunità del clero e la creazione delle baronie laiche.

Infatti nella nostra provincia si andò formando una serie di immunità vescovili e conventuali: borgate, terre, castella e ville vennero infeudate ai vescovi ed agli abati indigeni e forestieri, senza riguardo se le terre infeudate appartenessero [28] ad altra circoscrizione municipale o diocesana. Ne furono infeudate anche a principi che ressero il nostro paese, ed a dinasti poi che nulla ebbero a che fare coli'Istria; rinfeudate o donate cotesto ad altre persone; cosicchè tutta la campagna andava frazionata in una molteplice quantità di giurisdizioni più o meno subordinate al signore principale, ma indipendenti affatto dalla giurisdizione della città, cui prima avevano appartenuto.

Nello stesso tempo che le infeudazioni e le immunità operavano questo cangiamento radicale nei rapporti fra le città ed i loro territori, il feudalismo introducevasi un po' alla volta nelle città stesse, finendo da ultimo col dominarle.

Durante il periodo romano e bizantino, erano i proprietari, possessores, quelli che costituivano la casta dominante nei municipi. I possidenti erano i primiores civitatis, quelli insomma che avevano il governo del municipio. La mercatura e le arti erano considerate come opere servili, e lasciate ai clienti, ai liberti, agli schiavi ed agli stranieri. Il ceto dei mercanti e degli artigiani teneva allora un posto di mezzo fra i veri cittadini e gli schiavi.

Le cose si cangiarono in loro favore allorquando la difesa del paese, minacciato dalle invasioni nemiche, divenne scopo supremo del governo bizantino, e la costituzione civile della provincia dovette cedere il posto alla supremazia militare. Colla scomparsa dei possidenti maggiori, causata dall' introduzione del sistema feudale, dalla confisca dei grandi possessi pubblici e privati, e dalla perdita della campagna, subentrarono a quelli i possidenti minori, e più particolarmente i negozianti e gli artigiani, i quali formano ormai il nerbo della cittadinanza propriamente detta.

Col cangiamento della posizione giuridica dei commercianti, e della parte a loro segnata nella difesa del paese, cessano pure, sul finire del ix secolo, le magistrature romano-bizantine dei tribuni, vicari, locopositi ecc., per dare luogo all'introduzione degli scabini, voluta dal nuovo ordine di cose, e dal feudalismo, quando questo dalla campagna penetrò in città.

Il marchese, il conte provinciale, od i loro luogotenenti, Don amministravano direttamente la giustizia: essi erano soltanto, i presidi dei tribunali, ne tenevano la direzione esterna, e [29] curavano la esecuzione delle sentenze. Il pronunciamento delle decime, in base al diritto, apparteneva soltanto alla rappresentanza dei cittadini.

L'imperatore Carlo Magno aveva, cioè, ordinato che per i tribunali fossero eletti dai messi reali, oppure dai conti, colla cooperazione del popolo, un certo numero di assessori stabili chiamati scabini, i quali dovessero intervenire nella trattazione degli affari ordinari imposti dalla legge, ed anche degli straordinari proposti dai conti. Questi scabini venivano eletti nelle singole città, ed il loro numero ordinario era di 12, dei quali almeno 7 dovevano essere presenti in ogni giudizio.

Si trovano poi gli scabini chiamati a giudicare anche in assemblea giudiziaria provinciale, il qual fatto ci dimostra che l'Istria formava allora un tutto a sè, indipendente da altre Provincie e che gli scabini medesimi costituivano una specie di corporazione provinciale.

Lo scabinato non era inoltre privo di una tal quale importanza politica, dacchè gli scabini formassero, nella maggior parte delle città, il punto centrale della costituzione cittadina, nella stessa maniera che la comunità dei liberi ne costituiva propriamente il corpo. Eletti dai liberi cittadini, gli scabini erano i loro permanenti rappresentanti, il centro di unione e la salvaguardia delle libertà rimaste.

Nè l'attività dei cittadini era limitata alla difesa della loro terra ed all'azione degli scabini; ma molti altri erano i modi, co' quali i cittadini, costituiti in particolari deputazioni, partecipavano all'intiera azienda municipale.

Per riscuotere le decime ecclesiastiche si sceglievano 4 od 8 uomini per ogni comune, i quali servivano da testimoni fra gli ecclesiastici ed il comune, qualora insorgessero dissidi fra l'una e l'altra parte.

I messi dovevano eleggere d'accordo col vescovo e col conte, in ogni città, dei deputati allo scopo di presiedere alla riattazione dei ponti. Dei fiduciari venivano eletti nelle città e distretti, coll'obbligo giurato di notificare gli omicidi, i furti, gli adulteri e le illecite unioni. Le persone migliori e leali venivano elette dai messi ad inquirere, e ad assistere il conte negli affari giudiziari. Dei giurati erano scelti a sorvegliare le monete ed i pesi.

[30] Colla metà del secolo zi cessano gli scabini, ed al loro posto vengono gli iudices. Questo rrtono al titolo romano indica già la prevalenza della reazione municipale romana sulla feudalità .germanica.

In questo frattempo troviamo in qualche città istriana una Altra carica, quella cioè dell' advocatus totius populi, senza conoscere però di preciso le attribuzioni rispettive.

Frequente è pure nell' Istria in questo secolo e nei susseguenti il locopositus, la quale carica era la prima della città e rappresentava o il conte provinciale, oppure il conte urbano, tanto se ecclesiastico, quanto se laico.

In certi atti solenni, per esempio nelle ambascerie che si spedivano a Venezia, troviamo oltre al locoposito, all'avvocato del popolo ed agli scabini, un certo numero di cittadini; e gli atti rispettivi venivano sottoscritti da un maggior numero di questi ultimi.

Tutte queste rappresentanze ci autorizzano a conchiudere, che il sistema feudale, da noi, non aveva del tutto soppressa la partecipazione dei liberi comunisti alla cosa pubblica, ma che continuavano ad avere parte attiva nelle faccende delle città. Così quell'alito di indipendenza che spirava nelle nostre città durante il secolo X, malgrado il più rigido feudalismo, null'altro era che la continuazione dell'autogoverno goduto prima, modificato soltanto nelle forme esteriori.

E questo stato di cose era certamente dovuto alla conservazione della nazionalità romana nel popolo, immune da infiltrazioni di genti straniere abituate al servaggio, al continuo contatto con Venezia, ed alla necessità di provvedere da se alla difesa del commercio marittimo, rimasto pressochè unica fonte di ricchezza per le città.

Quindi ogni città formava un ente politico a sè, diviso e -distinto dagli altri, con proprio sviluppo storico e proprio ordinamento interno. [31]

V.

Colla trasmigrazione dei popoli, occupate dai barbari le regioni transalpine, ogni scambio dell'Istria con codeste contrade Tenne a cessare, per cui l'attività commerciale degli Istriani fu ristretta quasi esclusivamente alla via marittima lungo l'Adriatico.

Ed ecco venire noi a contatto con Venezia, la quale aveva preso il posto già tenuto da Aquileia.

I legami fra i due popoli, già abbastanza stretti dall'affinità di razza, dai vincoli di parentela, e dai trattati commerciali, si consolidarono vie più col pericolo comune ond'era minacciato il commercio marittimo dai corsari slavi, stabilitisi nella finitima Dalmazia.

Una serie di guerre, che i Veneziani dovettero sostenere contro i detti Slavi, ravvivarono, come bene si comprende, i vecchi rapporti fra la Dominante e l'Istria. Noi assistiamo, pertanto, in questo periodo, a molti esempì di patti conchiusi fra le nostre città e la Repubblica: non erano ancora dedizioni, ma semplici trattati di protezione, quasi di alleanza, mercè i quali le città istriane si obbligavano di dare un certo numero di navi per mantenere la polizia del mare, e qualche contribuzione fissa di vino, olio ed altre derrate per la chiesa di S. Marco.

Questi amichevoli rapporti degli Istriani coi Veneziani non garbavano a qualche marchese, e perciò si ebbero, per le influenze del padrone dominatore, frequenti rotture di patti che occasionarono vendette e rappresaglie. Ma alfine, nel 933, venne stipulato a Rialto un solenne trattato di pace fra l'Istria e Venezia, dal marchese d'Istria, dai vescovi di Pola e Cittanova, da due locopositi e da due scabini, da 12 altri fiduciarî di Pola, Capodistria, Muggia, Pirano, ivi convenuti; inoltre fu giurato da appositi fiduciari di ciascuna città.

Questo trattato lo si può quindi a buon diritto considerare come la pietra angolare su cui Venezia inalzò più tardi l'edifizio della sua dominazione nell'Istria. L'affinità di origine, la comunanza di istituzioni, gli interessi commerciali, [32attirando gli Istriani sempre più nell'orbita della politica di Venezia, fecero poi il resto per il trionfo dei suoi disegni su. questa provincia.

VI.

La pace fra Venezia e l'Istria è durata lungamente; ma le cose cangiarono all'improvviso, allorquando scoppiava a Venezia, nell'agosto 976, la rivolta contro il doge, ed il suo sistema politico, e Candiano IV cadeva vittima dei cospiratori. I Capodistriani retti dal conte Sicardo tentarono di sottrarsi all'onoranza promessa e mantenuta per tanti anni al doge veneto; ma salito al potere il nuovo doge, Pietro Orseolo, una delle sue prime cure fu quella di sopire queste discordie, e regolare le cose cogli Istriani, ed in particolar modo coi Capodistriani, coi quali conchiuse a Capodistria stessa, il 12 ottobre 977, un nuovo trattato.

Questo nuovo patto non era in complesso che la rinnovazione dei trattati anteriori, specie di quello del marzo 933, con alcune aggiunte però, e con modificazioni importantissime, fra cui noteremo quella dell'annuo contributo delle 100 anfore di vino, non già elargite a titolo di onoranza al doge, ma come un vero contributo, se pure velato col titolo di servitium; e questo contributo non è più personale, ma obbligatorio a perpetuità. Nella. città di Capodistria risiederà d'ora innanzi un veneziano come fiduciario e quasi rappresentante del doge, affine di controllare il pieno adempimento dei patti, esigerne all'occorrenza l'osservanza, e di tenere informato il suo governo. Inoltre Capodistria si obbligava a conservare sempre la pace con Venezia, anche quando tutta l'Istria fosse in armi contro la Repubblica. Il rappresentante del doge a Capodistria aveva, infine, la veste ufficiale di console veneziano investito del potere di sedere a tribunale, e giudicare insieme a' giudici capodistriani, secundum consuetudine nostram et vestram, ogni qualvolta un veneziano dimorante nella detta città aveva bisogno di ricorrere alla giudicatura indigena.

Venezia agiva con molta circospezione, studiandosi di conseguire ogni maggior utile dalla nostra provincia, senza destare [33] sospetti neir imperatore di Germania, e senza attentare, almeno in teoria, a nessuno dei suoi diritti di sovranità sulla penisola istriana.

Ma l'Istria non formava una provincia nel senso moderno della parola. Frazionata dal feudalismo in una quantità di territori separati fra loro, ogni città formava quasi una repubblica a sè, per nulla interessata alle sorti della città vicina.

Il sopra ricordato documento ci porta ad altre considerazioni ancora. Desta meraviglia la grande autonomia spiegata in questa circostanza dal popolo capodistriano, ed il modo tenuto nel concludere il trattato, senza quasi ricordarsi della sua dipendenza dal potente imperatore tedesco.

Capodistria concede ai Veneziani piena libertà di commercio; dispone indipendentemente dei dazi di entrata, condonandoli ai Veneziani; si obbliga a perenne tributo; accetta nella città la presenza di un console veneto; e promette di mantenere la pace con Venezia anche se gli Istriani la guerreggiassero. Dell'imperatore Ottone I si fa un cenno fuggevole solo nell' introduzione: Imperante domino nostro Ottone serenissimo imperatore, e nella chiusa: absque iussione imperatoris.

Il conte Sicardo, il rappresentante dell'autorità feudale a Capodistria, non fa poi la miglior figura, quando, costretto dalla volontà del popolo, sottoscrive il trattato che era la negazione della sua propria autorità.

I pirati Croati e Narentani continuano intanto ad infestare l'Adriatico; ma il doge Orseolo II con una serie di fatti d'armi li sottomette (a. 1000). Le vittorie di questo doge avevano assicurato anche all' Istria la navigazione sull'Adriatico ed il commercio colla Dalmazia e coli'Italia meridionale; perciò radica-vasi sempre più negli Istriani la persuasione che soltanto dallo stretto accordo colla potente Repubblica, signora dell'Adriatico, poteva venir loro la protezione necessaria alla conservazione ed allo sviluppo del proprio commercio marittimo. Ogni accrescimento della potenza di Venezia nell'Adriatico, ed ogni [34] aumento dei suoi privilegi nelle provincie orientali, equivaleva ad un aumento d'influenza anche sulle città istriane.

Gli Istriani comprendevano la necessità di rimanere attaccati a Venezia, onde assicurarsene la protezione; e Venezia, alla sua volta, ne approfittava per stringerli maggiormente a sè, come aveva fatto per lo innanzi colle città della Dalmazia. Con questa differenza però, che mentre Venezia aveva spiegato contro quest'ultime tutta la propria energia, e si era servita anche della forza materiale per vincolarle a sè, malgrado fossero dipendenti dall'imperatore greco, non più temuto per la sua debolezza, circondavasi per l'opposto delle maggiori cautele nella sua azione verso le città istriane, siccome dipendenti dal potente imperatore tedesco, dal quale Venezia aveva tutto da temere, se non per mare, sicuramente almeno nelle sue relazioni continentali, particolarmente colle provincie dell'Alta Italia.

Questa differenza di rapporti fra l'uno e l'altro impero spiega anche il diverso modo di agire della Repubblica. La conquista della costa dalmata venne fatta da lei coll'impiego della forza, ed in uno spazio di tempo relativamente breve; l'acquisto delle città marittime istriane fu invece il frutto di due secoli di abile e conseguente politica, mai perduta d'occhio.

VII.

L'anno 1096, calamitoso per fame e per altri disastri che desolavano tutta la Venezia, fu anche l'anno della prima crociata.

Una parte dei crociati, quelli condotti dai conti di Tolosa e quelli del vescovo Ademaro di Puy, scelsero la via per l'alta Italia, ed attraversando la Lombardia ed il Friuli, giunsero ad Aquileia, donde continuarono il viaggio per l'Istria e la Dalmazia.

Qui torna in acconcio di rilevare il fatto che i crociati, appena giunti nella Dalmazia, si accorsero della presenza di una doppia popolazions, l'una dissimile dall'altra per lingua e per costumi. Trovarono, cioè, nelle città marittime una popolazione romana, e nell'interno genti d'origine slava e di costumanze ancor barbare. Queste genti, fuggite su pei monti all'avvicinarsi dei crociati, sbucavano dai loro boschi molestando in tutte [35] le guise l'esercito in marcia, costringendo i crociati a terribili rappresaglie. Nulla di tutto questo avevano veduto e sofferto nell'Istria: e questo prova che le condizioni della Dalmazia erano affetto diverse da quelle dell' Istria per nazionalità dei suoi abitauti, e per costumi. Dal che è lecito anche d'inferire che la lingua allora, parlata dagli Istriani era una sola per tutti, cioè la romana, e che i crociati non ebbero motivo di lamentarsi dell'accoglienza ricevuta dagli abitanti.

Se pensiamo che in pari tempo anche Venezia mandava nelle acque dell'Oriente una squadra di 200 legni sotto il comando del figlio del doge Vitale, Giovanni Michele, è lecito di ritenere che altrettanto vigoroso per la crociata fosse anche l'entusiasmo fra gli abitanti dell'Adriatico superiore, e che molti Istriani accorressero pure ad ingrossare le file dei militi della croce. E non per nulla tante città istriane portano ancora oggi l''insegna della croce sul loro stemma!

Siccome poi da oltre un secolo le navi istriane commerciavano sicure nelle acque della Dalmazia e dell'Adriatico inferiore, così erasi altresì lentamente affievolito nelle nostre città costiere il sentimento del bisogno della costante protezione e di una quasi permanente tutela su di esse da parte della Repubblica veneta.

S'aggiunga che, come nell'alta Italia, Così anche nelle città istriane manifestavasi l'aspirazione alla completa autonomia municipale, e la tendenza di affrancarsi da ogni dipendenza da predominio straniero. Questa era l'idea predominante di quel tempo, che, riuscita infine vittoriosa, diede nascimento e vita ai liberi comuni italici.

Ma a Venezia interessava di avere aperti i porti dell'Istria, e di scongiurare l'eventualità che il naviglio istriano si adoperasse contro di lei, perciò si teneva pronta ad approfittare di qualunque pretesto per imporsi colla sua potenza alle città istriane, e per sostituire in esse all'onoranza la fedeltà, al protettorato la signoria.

E ben presto si offerse l'occasione desiderata. Fossero velleità di indipendenza maggiore, più larga forse di quanto era gradito a Venezia, o fossero questioni d'indole commerciale o marittima, certo è che fra Venezia e le città di Capodistria, di [36] Isola e Pola devono essere scoppiate nel 1145 delle ostilità, se nel dicembre di quello stesso anno i rappresentanti delle or nominate città dovettero recarsi a Venezia, e quivi giurare sopra i santi Vangeli perpetua fedeltà vera e leale a San Marco, al doge P. Polano, a tutti i suoi successori, ed al comune di Venezia, come fossero esse altrettante città del dogado, obbligandosi per di più a rinnovare lo stesso giuramento all'elezione di ogni nuovo doge, come usavano le altre città venete.

Non possiamo seguire tassativamente, per i limiti che ci siamo imposti in questo scritto, altri avvenimenti, simili al succitato, che si sono seguiti in questo tempo; diremo soltanto che, come per le dette città, così è accaduto, sii per giù, anche per Rovigno, per Parenzo, Cittanova ed Umago.

Ora tali avvenimenti avevano offerto a Venezia novella occasione di fare un passo avanti verso l'assoggettamento dell'Istria, senza ledere, almeno in teoria, i diritti degli imperatori tedeschi e dei margravi, da' quali essa dipendeva. Venezia non solo aveva per sè ottenuto libertà di commercio in tutte le suddette terre istriane e completa esenzione da ogni dazio e da qualsiasi altro aggravio; non solo aveva imposto a Pola, come per lo innanzi a Capodistria, un proprio rappresentante che controllasse la puntuale esecuzione dei trattati, e fosse sempre presente nei tribunali e fuori, per proteggere i Veneziani da ogni angheria e sopraffazione; ma eransi rese altresì tributarie le città istriane con danaro o prodotti, e tutte poi soggette rispetto al naviglio, del quale Venezia poteva fare libero uso, qualora si guerreggiasse al di qua di Zara e di Ancona.

L'importanza che la Repubblica annetteva a codesti successi, ed alla conseguente subordinazione delle città marittime istriane, è comprovata dallo splendido trionfo con cui fu ricevuta a Venezia la squadra col Morosini e Gradonico, che ritornava vittoriosa dalle acque dell'Istria.

Il Navagero, nella sua Storia di Venezia, a. 1150, racconta che, assoggettate le città marittime istriane, il doge veneto aggiungesse agfi. altri suoi titoli quello di Dux totius Istriae.

E qui sta bene di notare che Venezia, raggiunto il suo scopo verso le città istriane, si studiò di risparmiare quanto [37] potè i cittadini, e di impedire che inutili crudeltà contro i prigioni, o la perdita dei beni e dei possessi, mantenessero negli Istriani uno strascico d'odio e di rancore contro il governo della Repubblica. Venezia non intendeva d'inalzare con la forza brutale Pedifizio della sua signoria sulle città marittime istriane. Trattò invece gli Istriani, anche durante la guerra, piuttosto da amici fuorviati, che da nemici.

È nota la guerra combattuta fra l'imperatore Federico Barbarossa e le città lombarde, decisa colla battaglia di Legnano il 19 maggio 1176. A quella guerra prese parte, a fianco dell' imperatore, anche il margravio d'Istria Bertoldo III degli Andechs colle sue genti.

I Veneziani, che si erano dapprima avvicinati ai Lombardi, accettarono poscia volentieri le parti di mediatori fra il pontefice Alessandro III e l'imperatore, e a Venezia avvenne il convegno, dove, addì 1 agosto 1177, fu firmata la pace. Vi erano presenti anche il vescovo Filippo di Pola, il vescovo Vernando di Trieste, il vescovo Pietro di Parenzo, e Giovanni arciprete di Pola, con numeroso seguito.

A questa pace fra l'imperatore e le città lombarde susseguì nel 1183 la pace di Costanza, che venne pure firmata dal surricordato margravio d'Istria Bertoldo III degli Andechs.

Gli Istriani ebbero parte, come credesi, agli avvenimenti che prepararono la vittoria dei Lombardi, e la conseguente pace del 1177.

Via via che Venezia rafforzava la sua potenza nella Dalmazia e nell'Adriatico inferiore, e migliorava le sue relazioni coi Normanni, anche le città istriane estendevano il proprio commercio marittimo e lo assicuravano con la stipulazione di speciali trattati di pace e di amicizia colle varie città della Dalmazia. Un esempio lo abbiamo nel trattato di pace firmato in questo periodo di tempo fra Rovigno e Ragusa, rinnovato poi nel 1188. Anche Pirano allargava i suoi commerci nell'Adriatico inferiore, ed era venuto a conchiudere un trattato di pace e di sicurtà con Spalato, rinnovato con speciale documento [38] il 4 aprile 1192. Queste due città si giuravano reciprocamente pace e sicurezza tanto nelle persone, quanto nel naviglio che arrivasse nel loro porto.

Anche Capodistria, che dopo il 1146 era stata sempre fedelissima a Venezia, seppe avvantaggiarsi della benevolenza del doge, attirando a sè il monopolio del commercio del sale che si faceva nella nostra provincia per la via di mare.

Pola, invece, che non poteva dimenticare il primato godute per tanti secoli nella provincia, non poteva rassegnarsi ad essere tributaria e vassalla di Venezia, e perciò di frequente si ribellava ai patti anteriormente stabiliti, per ritornare da capo, stretta dalle armi, alla soggezione.

Abbiamo anche il caso di guerre intraprese fra le stesse città istriane, per gelosie di predominio, o per rivalità nei commerci e nella pesca. Così la guerra fra Pirano e Rovigno nel 1207. Ai Piranesi si erano alleati i Capodistriani, ma poi i primi si staccarono dalla lega e mandarono il loro podestà, che teneva al tempo stesso l'ufficio di gastaldione, a conchiudere la pace, che venne firmata il 4 gennaio 1208.

VIII

Il periodo che intercede fra la metà del secolo X e quella del secolo XII sarebbe uno dei più interessanti per lo studio del rivolgimento avvenuto nelle condizioni interne dei municipi istriani, se si possedessero le fonti necessarie a seguirne le varie fasi. Ma pur troppo di questo periodo di tempo i documenti sono ancor più scarsi che nel precedente; e lo storico che vuole addentrarsi nella ricerca dei singoli fatti, si trova nelle condizioni di colui che ha in mano soltanto i due capi d'una lunga. catena, e deve dalla qualità di essi argomentare dello stato degli anelli intermedi.

Come si è detto, il secolo X segna nella nostra provincia la massima prevalenza del feudalismo. Questo però, si è vedute puranco, non è riuscito a spegnere tutte le precedenti istituzioni romano-bizantine, ne a togliere ogni partecipazione dei liberi cittadini alla vita pubblica. Laonde, non appena si rilassarono le ritorte del feudalismo, rinacque subito dagli avanzi [39] della municipalità romana il nuovo comune non per creazione, ma per evoluzione.

Vedemmo il popolo istriano eleggere i suoi scabini, i quali non solo erano centro e rappresentanza dei cittadini d'una singola città e tutori dei costoro diritti, ma costituivano anche la rappresentanza giuridica dell'intera provincia. Vedemmo inoltre i liberi abitatori delle città prender parte al potere giudiziario, assistendo ai giudizi e concorrendo al giudizio in qualità di assessori o di astanti, e firmare, come tali, i deliberati del placito giudiziario. Finalmente questi liberi cittadini vengono chiamati a giurare e a confermare i trattati conchiusi con Venezia, delegando all'uopo propri deputati; promettono annue onoranze al doge veneto; assicurano agli stranieri protezione nei possessi e nei coloni; stabiliscono le modalità da seguirsi nell'amministrazione della giustizia fra gl'indigeni ed i Veneziani; regolano la partecipazione delle gabelle; e persino dispongono a loro talento delle proprie forze di mare.

Dal premesso si può conchiudere, avere sperimentato l'Istria un feudalismo temperato, tale cioè, da lasciare alla cittadinanza una notevole libertà di azione in molta parte della vita municipale, nei giudizi, nei commerci, nelle imposizioni, e persino nel pronunciarsi sulla pace e sulla guerra.

Il grado di autonomia che trasparisce dai fatti su accennati è tanto notevole, che il Gfrörer, nella sua Storia di Venezia (e. 20) non esita punto di affermare che «i 58 egregi cittadini di Giustinopoli firmati a tergo del documento del 932, assieme ai 20 nominati nel testo, abbiano formato il gran consiglio di Capodistria».

A mantenere vivo ed operoso questo spirito di libertà e di autonomia nelle città istriane, molto concorsero anche le confraternite, le quali, istituite a scopo religioso sotto la protezione dei santi più celebrati, servivano in pari tempo ad avvicinare gli elementi omogenei, ed a stringerli fra loro, secondo che si presentava il momentaneo bisogno, nella difesa, od anche nella offesa. Lo spirito di associazione ereditato dal periodo romano, e di cui fanno fede i molteplici collegi allora esistiti, non si spense interamente nei secoli successivi, ma si trasformò, seguendo la corrente delle idee allora dominanti, in associazioni [40] religiose. Nel 1072 è ricordata dai documenti la confraternita di S. Giusto a Trieste, e nel 1082 la congregazione di S. Maria a Capodistria.

Si domanda ora: se tali erano le condizioni interne delle nostre città nel mezzo del secolo X, quale fu l'indirizzo da esse preso nel secolo susseguente? L'autonomia goduta sino allora doveva sempre più ampliarsi sino a raggiungere il completo autogoverno, oppure camminare a ritroso, e restringersi?

La continuità della popolazione senza mistura di elementi stranieri, è la prima condizione per la continuità delle istituzioni, e per la loro successiva evoluzione. Or bene, quel carattere nazionale romano, che si mantenne inalterato nei secoli precedenti, continuò a durare nella popolazione istriana anche nei susseguenti secoli XI, XII, XIII, XIV. Come nel secolo IX l'Istria non vide mutata la sua impronta nazionale dalle infeudazioni dei beni pubblici a nobili franchi, e dalle poche centinaia di coloni slavi pagani qui trapiantati dal duca Giovanni (poscia spariti o allontanati dal paese, o fusi nell'elemento preponderante); Così passò pure inosservata la presenza di quei pochi Slavi che nei secoli XI e XII, dalla vicina Carniola calarono lentamente ed alla spicciolata dalla Carsia, e si stabilirono qua e là nella campagna dell'Istria pedemontana. Il carattere nazionale dell'Istria, e quello in particolare degli abitanti delle città, rimase quale era per lo innanzi; e l'antico elemento cittadino romano continuò tranquillo la sua evoluzione, trasformandosi nel nuovo italico. E già di questi secoli noi possediamo dei preziosi cimeli del parlar volgare istriano, e documenti latini che lo ricordano (4). Ne poteva essere altrimenti, se Dante, poco tempo dopo, elenca nel suo «De Vulgari Eloquio» (lib. ib. ib. ib. ib. ib. I, cap. X) fra i dialetti d'Italia, anche quello dell'Istria.Istria.

Gli abitanti delle nostre città continuavano, dunque, a tramandarsi di padre in figlio, assieme alla lingua, le consuetudini degli avi, mentre più strette si facevano allora le [41] relazioni colla Romagna e con Venezia; colla Romagna, la culla del rinascente studio del diritto romano; con Venezia, la città dei grandi commerci e delle istituzioni popolari, continuo esempio ai nostri di vita nazionale e di autonomia politica.

E di quanto queste relazioni colla riva opposta dell'Adriatico divennero più vive, d'altrettanto si allentarono quelle colla Germania, e coi paesi al di là delle Alpi. I margravi teutonici delle case Weimar-Orlamünde, degli Eppenstein, degli Sponheim, e degli Andechs, che ebbero in feudo dai sovrani tedeschi il nostro paese, occupati com'erano da cure ben maggiori, ed obbligati a risiedere altrove dai loro interessi dinastici, poco o nulla si curarono della nostra provincia, e rare volte durante il loro lungo governo si fecero qui vedere, od intervennero attivamente negli affari pubblici.

Se ora passiamo a considerare le modificazioni avvenute nelle singole magistrature, troveremo cessati dappertutto gli jcabìni, ed in loro luogo ricordati gli iudices. Che questi giudici delle città fossero ufficiali del comune, lo comprova anche l'esistenza documentata del comune, quale corpo autopolitico, già nella prima metà del sec. xn, e parimenti l'esistenza nelle città di uno speciale diritto consuetudinario civile e penale.

A Capodistria, nel trattato del 1145, troviamo ricordati i seguenti ufficiali pubblici: il gastaldo, il nodaro, il giudice, il popolo. La pace conchiusa con Venezia nel 1150 fu giurata per Rovigno dal giudice e da 17 altre persone; per Parenzo dall'arciprete, dal gastaldione e da altre 5 persone, ed in ambidue i luoghi per consensum omnium vicinorum maiorum atque minorum.

A Pola in calce del trattato dell'anno 1145 conchiuso colla repubblica di Venezia, sono firmati prima il conte, poscia il suo locoposito, quindi 11 persone fra le quali 2 giudici, e da ultimo l'niversus populus.

E probabile, ma non accertato, che nelle città istriane già formate a comune, a lato dell' assemblea di tutto il popolo (conciono, od arrengo come lo chiamavano) vi fosse anche esistito un consiglio ad imitazione di Venezia che nel 1172 riordinò il Gran consiglio, e istituì il Consiglio minore (la Signoria) nel 1178.

[42] Nel 977 si ricordano le decisioni degli habitantes (di Capodistria) divisi in maiores et minores — nel 1118 (a Parenzo) sono menzionati i concives nobiles — nel 1145 havvi (a Pola) il populus polisanus a maiore usque ad minorem — nel 1150 la stessa denominazione serve per i cittadini di Pola, mentre quelli di Rovigno e di Parenzo si scrivono vicini maiores et minores.

Quando l'autorità dei vescovi, o dei conti, venne ristretta a vantaggio del comune, e passò di fatto, se non di diritto, alle città presso che tutto il potere da quelli esercitato; quando i vari ceti sociali e le singole maestranze si strinsero fra loro in altrettante corporazioni; e quando all'indipendenza a poco a poco acquistata, si aggiunse la chiara coscienza e la decisa volontà di libero reggimento, allora si senti anche il bisogno di riorganizzare la magistratura comunale colla creazione dei consoli, ad imitazione del grande modello: Roma.

V'erano due specie di consoli: i constiles communis ed i consules de placitis causarum. Tutti e due avevano parte del governo generale del comune; ma mentre ai primi era più particolarmente affidata l'amministrazione nello stretto senso della parola, i secondi, per il loro speciale istituto, curavano di preferenza la giurisdizione civile. Motivo per cui anche più tardi li vediamo sussistere a fianco del podestà succeduto al posto dei consoli e del comune.

Coll'istituzione dei consoli, il potere giudiziario, sino allora affidato ai giudici, venne a concentrarsi nelle loro mani. Però i giudici rimasero, ma quali giurisperiti consiglieri dei consoli, poichè questi giudicarono sempre sentito prima il loro parere.

Un passo innanzi nell'ordinamento del comune si fece colla creazione del podestà, che venne ad occupare il posto tenuto sino allora dai consoli del comune, conservando però i consoli di giustizia (ossia i giudici civili) nell'esercizio delle loro funzioni. Coll'aggregazione dei poteri in una sola persona, si volle evitare i danni che frequentemente risultavano dalle viste discordi di più consoli, aventi le stesse attribuzioni di potere.

A seconda dei tempi e dei luoghi, il podestà o era eletto dall'imperatore, o dal principe del paese, oppure spettava a [43] questi soltanto la conferma, mentre l'elezione era lasciata ai cittadini.

Il trentennio dal 1150 al 1180, come per l'alta Italia, cosi anche per l'Istria, è il periodo in cui gli ordinamenti dei comuni si riorganizzano, si regolano e si determinano definitivamente.

Così i documenti del 1186 ci mostrano il comune di Capodistria pienamente organizzato e rappresentato dal podestà e da 4 consoli.

Sei anni più tardi, cioè nel 1192, è documentata anche a Pirano la costituzione a comune col podestà e coi consoli. L'egual cosa, nel 1194, la troviamo a Parenzo; nel 1199 a Pola, e così via.

Nelle funzioni propriamente governative, il podestà era dovunque assistito da un consiglio di assessori, senza il cui voto egli non poteva prendere veruna deliberazione di rilievo. A questo consiglio minore, o di governo, aggiunge vasi uno pia numeroso, il consiglio del popolo, il quale veniva convocato per tutti gli affari più importanti, cioè per l'intimazione della guerra e per la conclusione della pace, per oggetti di legislazione, per determinare le imposte e le tasse, per eleggere i consoli, il podestà, e simili. Di rado si convocava la radunanza dell'intero popolo ad un Così detto parlamento (concione e arengo), e solamente per la pubblicazione di nuove leggi o di importanti deliberazioni, per le quali si voleva essere certi del suffragio universale, per l'installazione dei nuovi magistrati, ecc.

Nell'Istria la partecipazione dell'assemblea del popolo agli avvenimenti di maggior rilievo sia nell'epoca romana, sia durante lo stesso periodo feudale, o in quello della massima autonomia comunale, ci è comprovata da numerosi documenti storici, che qui sarebbe troppo lungo anche di citare.

Dai documenti si deduce ancora che le città erano divise in varie classi, cioè: nei nobili (coi milites, ministeriali e cogli arimanni) compresi, assieme agli scabini di prima, ai giudici di poi, ed agli altri preposti al comune, nel titolo più generico di cives maiores; restando a tutti gli altri cittadini quello di cives minores.

In progresso di tempo, questa divisione perdette però [44] ogni pratica importanza. Sempre gli stessi documenti ci fanno conoscere pur anco le arti maggiormente esercitate nelle singole città, alcune delle quali erano costituite in maestranze, con propri maestri.

Un fattore principale di autonomia dei comuni, d'importanza pari all'esercizio indipendente dalla giurisdizione, si fu la legislazione statutaria. Allorquando al comune riuscì di riunire in un fascio i vari ordini sociali sino allora rimasti divisi, si raccolsero pure i diversi diritti personali in un solo e comune diritto statutario, valevole per tutti gli abitanti del comune e del territorio. Questo diritto, consuetudinario sino allora, ed usato particolarmente nei giudizi dagli assessori, venne ora codificato in forma precisa, ed ebbe forza di legge statutaria.

Di un diritto codificato, di uno statuto nel vero senso della parola, si fa menzione per la prima volta a Capodistria in due documenti del 1238 e 1239, ed a Pola in altro documento del 1264. Epperciò appare evidente che anche nell'Istria la compilazione degli altri statuti coincidesse colla surrogazione del podestà ai consoli, cioè quando emerse il bisogno di affermare meglio le proprie antiche consuetudini giudiziarie di confronto al podestà forastiero, succeduto nella giudicatura ai consoli, giudici concittadini.

Se noi aggruppiamo ora tutti questi fatti e li completiamo secondo che l'uno serve di prova o di corollario all'altro, dobbiamo concludere che le nostre città raggiunsero il massimo grado di autonomia negli ultimi decenni del sec. XII, nel tempo in cui la provincia fu retta dagli ultimi margravi degli Andechs-Merania: indifferente poi se tale autonomia sia derivata dalle concessioni ottenute, o dalle usurpazioni commesse. E tanto forte era nelle nostre città il sentimento della propria autonomia, e tanto alta la coscienza della propria dignità, che esse trattavano col patriarca di Aquileia, quando divenne loro signore temporale, non già come sudditi inverso il principe, ma da pari a pari, da potenza a potenza.

Coll'infeudazione del patriarca Volchero, avvenuta nel 1209, comincia per l'Istria un nuovo periodo di storia, il quale rappresenta per i nostri comuni quasi un periodo di traviamento, [45] in cui continue si fanno le lotte tra i comuni stessi ed i patriarchi, i primi per difendere od ampliare l'autonomia già acquistate, i secondi per limitarla al più possibile. Erano le vicende di tutti i comuni italiani, ne i nostri cessarono di esser tali, neppure quando, caduta la Repubblica dopo cinque secoli di dominazione, fummo aggregati ad un impero che non era più nazionale.

L'assoggettamento dei nostri comuni a Venezia, compiutosi interamente nel 1420, pose fine al su detto periodo di transizione.

M. Tamaro.


Note:

  1. Chi volesse saperne di più sul presente argomento, o vedere ampiamente documentato quanto sarà esposto in questo scritto, può leggere l'opera, uscita alla luce nei primi del 1898, sotto gli auspici della «Società istriana di archeologia e storia patria», col titolo: Nel Medio Evo - Pagine di storia istriana, scritte dal dott. B. Benussi, (Parenzo, tip. G. Coana, 1897). In questo libro, magistrale per scienza storica e per analisi critica, al capo IV,
  2. Dott. B. Benussi. L'Istria sino ad Augusto (Trieste, 1881, Cap. III).
  3. Ursprung der lombardischen Stätdte-freiheit, 1846, p. 20-50.
  4. Documenti latini del 1106,1202,1222,1236 e via via, hanno intere frasi esplicative in volgare, per renderli più accessibili all' intelligenza del popolo. Gli «Atti e Memorie» della Società storica istriana hanno pubblicato (vol III, fasc. 3 e 4) parecchi testamenti in volgare tratti dai registri della Vicedomineria di Pirano dei primi anni del secolo XIV e XV.

sabato 26 ottobre 2024

Saluto a Pola

Da due giorni la bora urlava rabbiosa, flagellando con raffiche violente la riva, le piazze e le strade di Trieste. La neve, caduta abbondante nella notte, si era accumulata negli angoli e a ridosso dei Palazzi e aveva reso ancor più pungente il gelo. Non fu agevole impresa per me, quella mattina dell'ultima domenica di gennaio del 1947, attraversare la Piazza dell'Unità facendo sforzi di equilibrio sul selciato levigato e terso come uno specchio, per raggiungere la stazione marittima dov'era atteso l'arrivo da Pola del piroscafo recante uno dei primi scaglioni di esuli. Di là dalla banchina, nella cornice dei monti candidi, un mare verdastro, livido e corrucciato, non prometteva niente di buono. Anche la natura sembrava accanirsi contro i fratelli istriani, rendendo più ardua e penosa la loro partenza. 

Dopo cinque ore di difficile navigazione, la piccola motonave — che aveva proprio il nome della città martire — attraccava al molo della Pescheria, offrendo una visione prettamente polare, con gli alberi e le sovrastrutture incrostati di ghiaccio e la tolda bianca di neve. Settecento profughi erano a bordo: un carico di sventura e di dolore. Ma un dolore forte, rassegnato, sereno. Li ho visti sbarcare, quegli infelici, mi sono spinto in mezzo a loro, li ho interrogati. Tutti affrontavano con serenità il duro destino. In qualche occhio ho colto il luccichio di una lacrima, ma non ho sentito né un lamento né un'imprecazione. 

Era tutta gente umile, autentico popolo, sensibile ad ogni parola d'interessamento e di simpatia, pronta a stringere con gratitudine la mano che gli veniva tesa. Erano famiglie complete, con vecchi e bambini, con poco e misero bagaglio degni genere e foggia. Sulla tolda e nella stiva erano accumulate le masserizie: mobili, letti, materassi, coperte, qualche veicolo e numerosi capi di bestiame. Autocarri erano in attesa: caricavano i profughi e li portavano alla stazione ferroviaria, donde avrebbero raggiunto le varie destinazioni. C'erano a bordo anche alcuni malati gravi, che furono avviati agli ospedali. Un vecchio che portava un grosso zaino mi confidò che dentro c'era una pietra strappata all'Arena romana perché fosse posta sulla sua tomba, dovunque essa sarà. Altri mi mostrarono sacchetti di terra raccolti nella città abbandonata e portati come prezioso cimelio, come sacro talismano. 

Dal piroscafo furono sbarcate anche due bare. con salme esumate dai congiunti che non volevano, nell'esilio, staccarsi dai loro defunti. Più di cinquanta — mi dissero — già ne erano state tolte (e molte lo furono in seguito) dal cimitero di Pola, dove ogni giorno si svolgeva un pietoso pellegrinaggio di partenti che si recavano a dare l'ultimo saluto, a recare l'ultimo fiore, a spargere l'ultima lacrima sulle sepoltura destinate all'incuria e all'abbandono. Molti fotografavano le tombe e le lapidi; e se l'esumazione non fosse costata tanto, nessuno avrebbe rinunciato a portarsi via i propri morti. 

La mattina dopo mi sono imbarcato sulla stessa motonave, che tornava a Pola, e sono andato a vivere da vicino il dramma della città olocausta. La furia degli elementi si era placata e il mare era calmo. A bordo erano molti viaggiatori con grosse valige, ceste e sacchi vuoti: tutti polesi che facevano la spola con Trieste per portar via quanto più potevano dalla casa che stavano per lasciare. La stiva era zeppa di legname, di paglia e d'altro materiale d'imballaggio, di cui a Pola c'era estremo bisogno. La piccola nave seguiva una rotta obbligata, segnata molto al largo dalle boe, sì che soltanto col binocolo del capitano potevo scorgere dal ponte di comando il profilo delle città costiere, le belle cittadine venete su cui incombeva la triste sorte. Che se Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, Umano e Cittanova erano comprese nel cosiddetto Territorio Libero di Trieste, invece Parenzo, Orsera, Rovigno, Pola e tutti i centri dell'interno, meno Buie, sarebbero passate sotto il dominio jugoslavo. La massa scura delle isole Brioni, che non sono più il paradiso terrestre di un tempo dopo che tutto vi è stato distrutto o depredato, è venuta verso mezzogiorno ad annunciare che la meta era vicina. E poco dopo, passando tra Punta Cristo e Punta Compare, la nave è entrata nel porto di Pola. 

La bianca città è apparsa in fondo all'ampia insenatura, dominata al pari di Roma da sette colli chiomati di cipressi e di pini. Ma prima ancora di accostare alla banchina, le rovine dell'arsenale e del cantiere mi avvertirono che Pola era gravemente ferita dalla guerra. Ferita dalla guerra ed uccisa dalla pace: ecco la tragica sorte di Pola. Perché se, sceso a terra ed inoltratomi nei suoi quartieri vecchi e nuovi, potei constatare quanto vasti ed ingenti fossero i danni prodotti dalle azioni belliche nel patrimonio edilizio e monumentale, ben più gravi mi si rivelarono le conseguenze dell'ingiusta pace a ragione della quale la città si andava svuotando, lentamente agonizzava e moriva. Trentamila persone, cioè quasi la totalità della sua popolazione, stavano per lasciarla, abbandonando le proprie case e gran parte degli averi, per non cadere in schiavitù, per non sentirsi stranieri nella terra natia, per conservare il privilegio di essere e di proclamarsi Italiani. 

Ad un iniquo verdetto, prima ancora che fosse sanzionato dalla firma del trattato di pace, si rispondeva con un plebiscito spontaneo ed unanime, il cui significato non poteva sfuggire a nessuno. E specialmente dovevano intenderlo e valutarlo gli italiani, presso i quali gli esuli confidavano di trovare solidarietà ed assistenza, pur sapendo che gravi difficoltà e disagi li attendevano e che il Paese, verso il quale li conduceva un sentimento di amore e di fedeltà, usciva esausto da una guerra disastrosa ed era esso stesso impegnato in una dura lotta per la sua rinascita, spirituale non meno che materiale. 

 A Pola tutto è romano, veneto, italiano, dall'architettura alla lingua, dal paesaggio al costume. E così in tutta l'Istria. Pensavo quella mattina, navigando lungo la costa occidentale della penisola, all'epistola in cui Cassiodoro, ministro del re goto Teodorico, descriveva nel 537 la riviera istriana, da lui giudicata non Inferiore all'incantevole paradiso di Baia, dove imperatori e patrizi romani, sazi di gloria e ricchezza, si ritiravano a godere la vita degli Dei. E poiché anche su questi poggi n'erano allora molti e fastosi palazzi, egli concludeva che «I'Istria era fortuna ai mediocri, delizia ai ricchi, ornamento dell'impero d'Italia».

Inutile sarebbe oggi cercare le ville e le bianche palazzine che stavano presso le petraie dei Brioni, sugli spalti marini di Ursaria e di Cervara, nella silente solitudine di Salvore, e che il retore barbarico paragonava a perle disposte sul capo di una bella donna. Soltanto l'archeologo, nelle sue assidue esplorazioni, scopre ancora ruderi. frammenti e cimeli, pallide testimonianze dell'antico splendore. Già nel secolo XIV Pola presentava un panorama immenso di rovine sparse dovunque, e Dante canta lo spettacolo offerto alla vista dalla necropoli del Prato Grande. Pellegrini diretti in Terrasanta, e costretti dai venti a riparare nella sicura baia, stupiscono di tanta grandezza, e Nicola da Poggibonsi scrive nel 1346: «Puola si fu nobile terra, ché uno imperadore di Roma sì abitava molto in questa città, e però ci fece fare un castello, ch'è ancora tutto In piede, che propriamente è fatto come il Colosseo di Roma». Intendeva parlare, naturalmente, dell'anfiteatro. 

Ma due secoli più tardi Pola è meta di ben altro pellegrinaggio: sono i più insigni architetti italiani del Rinascimento — Fra Giocondo e Michelangelo, il Sangallo e il Falconetto, il Peruzzi e il Serlio e il Palladio — che si recano a studiarvi i monumenti romani, di cui ci hanno lasciato molti schizzi e disegni. Essi trovarono in piedi, più o meno conservati, solo i principali, che già da tempo era cominciato, specie da parte dei Veneziani e dei Genovesi, il saccheggio dei marmi artistici e l'asportazione del materiale archeologico in tutti i centri dell'Istria. La storia di queste spogliazioni sarebbe lunga; e chi vuol saperne qualcosa non ha che leggere le prime pagine della preziosa ma rarissima opera di Giuseppe Caprin "L'Istria nobilissima", in cui le millenarie vicende e il cospicuo patrimonio artistico della regione sono descritti ed illustrati con intelletto d'amore. Ma il più rimasto: e il Museo dell'Istria, una delle più belle Istituzioni di Pola italiana, è ricchissimo di materiale proveniente da ogni parte della penisola. e specialmente dagli scavi di Nesazio, il munito castelliere dove nel 177 avanti Cristo i Romani sconfissero il bellicoso re Epulo, fissando statoilmente il loro dominio su quella terra. Né fu senza angoscia che, passando per la mirabile Porta Gemine, salii a visitare le sale del Museo, le cui stupende raccolte stavano per essere abbandonate allo straniero. 

Dopo Roma e Verona, Pola è per grandiosità e splendore di monumenti la città più romana d'Italia. Ho voluto rivederli, salutarli tetti quei monumenti, che dopo l'esodo della popolazione sarebbero rimasti ad affermare di fronte al mondo l'italianità del luogo: l'Arena superba che alza in riva al mare la triplice corona delle sue bianche possenti arcate; l'Arco dei Sergi, di squisita armonia architettonica e di mirabile finezza decorativa; la Porta Erculeo, incorporata in un tratto di mura urbiche ritornate alla luce; il Tempio di Augusto, perfetto nella struttura e nei dettagli, gravemente danneggiato da una bomba e che si stava alacremente restaurando; e poi i resti del Foro, del Campidoglio e di due teatri. E sono andato a rivedere le testimonianze della civiltà italica, dal Medio Evo al Rinascimento: il duomo basilicale con i sacri ricordi che lo attorniano; la chiesa romanica di San Francesco col fine portale archiacuto e il mistico chiostro a loggiato; il tempietto bizantineggiante di Santa Maria del Canneto, avanzo di una grande basilica fondata nel VI secolo da un vescovo ravennate; il Palazzo Comunale di graziose forme venete, sotto il cui portico stavano ancora il busto di Dante e la lapide ai volontari istriani caduti nella guerra di redenzione del 1915-18, l'uno e l'altra fusi nel bronzo dei cannoni austriaci; il Castello costruito dai Veneziani sul colle capitolino e le artistiche case sparse in tutta la città vecchia. 

Quindi sono salito sul Monte Zero, uno dei sette colli, ch'era un tempo tutto verde di giardini fioriti e ombroso d'alberi, animato passeggio e ritrovo d'innamorati nelle placide notti estive, ma,quel giorno, deserto e squallido sotto il cielo plumbeo, che gravava sul ruderi cosparsi di neve dell'Istituto Idrografico sventrato dalle bombe. Più avanti c'era il cimitero militare della Marina, dove sono andato a ritrovare la tomba di Nazario Sauro prima che la salma dell'eroe fosse tolta di sotto il grande blocco di pietra d'Istria e portata in Italia. Ouando, rientrando in città, percorsi Via Sergia, ch'era la più centrale ed animata, dove s'aprivano i migliori negozi, i caffè e le pasticcerie eleganti, una visione di squallore mi offersero le case già in gran parte abbandonate, i negozi vuoti con le saracinesche abbassate, le vetrine spoglie delle merci già spedite altrove, o svendute, oppure lì imballate e pronte per il trasporto. Carri e oa, rettini sostavano davanti agli usci per caricare la roba della gente che partiva, e tutt'intorno era un gran picchiare di martelli per chiudere gabbie e casse. Gente passava con le valigie, scatole, fagotti diretta verso il porto, dove un'immensa catasta di mobili e di bagagli, su cui era caduta la neve, attendeva d'essere imbarcata sui piroscafi per Venezia e Trieste e sui velieri e bragozzi diretti ai porti della Romagna. Per far casse e bauli si erano divelte le assi dei pavimenti, segate le porte e le finestre delle abitazioni. soli negozi ancora aperti e in pieno fervore di lavoro erano quelli dei fotografi, perché tutti i partenti volevano portarsi un'immagine della città, e quasi tutti chiedevano l'Arena, sul cui sfondo si facevano ritrarre in gruppi familiari. Molto da fare avevano, in quei giorni, anche i sacerdoti per celebrare matrimoni, perché tutti i fidanzati volevano sposarsi nella città natale prima d'abbandonarla per un incerto destino; e i malati gravi Imploravano d'essere portati a morire in Italia per non essere sepolti in una terra che stava per diventare straniera. Tutti hanno voluto partire, i polesi, senza distinzione di casta e di età. Ho visto uscire dalle casupole del più umile quartiere mobili tarlati e sgangherati, che certo non avrebbero resistito alle peripezie di un lungo viaggio. Ho visto un fabbro svuotare la bottega di tutti I ferri vecchi, caricarli sul dorso di un asinello insieme alla fucina e all'incudine, e avviarsi all'imbarco.

Nella sua storia più volte millenaria Pola ha conosciuto un'altra parentesi buia e tremenda: e fu tre secoli fa, quando la malaria e le pestilenze la spopolarono fino a ridurla a trecentocinquanta abitanti. Ma questa volta il male ha avuto un'origine più mostruosa, poiché sono uomini che lo hanno procurato ad altri uomini, che hanno Indotto una popolazione ad abbandonare la propria città natia per consegnarla a un'altra popolazione che vi è estranea. Che la sola cosa slava ch'io ho veduto a Pola sono le scritte rosse con cui i partigiani di Tito avevano imbrattato le mura del castello durante la temporanea ocupazione, il cui terrificante ricordo molto contribuì a spingere i polesi sulla via dell'esilio. Questa migrazione spontanea, che non ha precedenti nella storia del nostro Paese se non nella fuga delle genti venete davanti alle invasioni barbariche dell'alto medio evo: questa migrazione in massa di una città, vittima di un errore umano, se ha rivelato molte miserie, fu anche ricca di sublime grandezza. Gli italiani dell'Istria (accanto al polesi, protetti nell'esodo dagli Alleati, non bisogna dimenticare quelli fuggiti, e che continuamente fuggono di nascosto e con gravi rischi dalle zone Interne In mano degli slavi) hanno dato al mondo una prova di quanto possa l'amore di Patria, affrontando con fermezza e coraggio le Incognite di un esilio che per tutti si annunciava triste o per molti durissimo. Eppure li ho veduti ballare e li ho uditi cantare I polesi, prima di abbandonare la loro città. Un veglione benefico a favore dei profughi più bisognosi, l'ultimo veglione di Pola italiana venne organizzato durante il carnevale nel teatro pavesato di tricolore, donde la gente è uscita per andare direttamente ad imbarcarsi, cantando le vecchie canzoni. Diceva una di esse: «Son nato drio la Rena e qua voio morir...». Ogni tanto qualcuno interrompeva il canto e, passando per l'ultima volta davanti alla sua casa vuota, si chinava a baciarne la soglia. E poi riprendeva il canto e il cammino. Nel porto, la nave in attesa brillava con tutti i suoi lumi. Staccandosi dal molo, nel mattino ancor buio e gelido, accese un potente faro e lo rivolse verso la città, fermando il fascio di luce sulla mole bianca dell'Arena. Un grido di commozione s'alzò dalla folla che gremiva i ponti, e mille braccia si protesero nell'angoscioso saluto. E a me vennero alla memoria le parole di Leon Battista Alberti: «E chi la vedrà non potrà andar via sazio d'aver ammirato, ma guarderà ancora e ancora, e anche allontanandosi, dovrà rivolgersi a riguardare». Parole che furono scritte proprio per Pola.

Giuseppe Silvestri

Arena di Pola, anno 1987

venerdì 11 ottobre 2024

Trieste città Italiana

L'UNIONE

Cronaca Capodistriana Bimensile

Capodistria, addì 9 Gennaio 1877


«Trieste è una città italiana: questo si sa da tutti, anche da quelli che vogliono far le finte di non saperlo e ci battezzano per ottentotti magari piuttosto che quel che siamo. 


Trieste è una città italiana per storia, per lingua, per costumi; e per giunta, la statistica, questa fredda statistica alla quale pure i tedeschi fanno tanto di cappello, ci vien dicendo che anche pel fatto dei suoi commerci Trieste è essenzialmente italiana.


La statistica che non più lontano di ieri, ha pubblicato l'ufficio della Borsa ce lo dice infatti, abbastanza chiaramente.


È una statistica questa della navigazione nel porto di Trieste nel 1876: vi troviamo gli arrivati e i partiti secondo bandiere e secondo i porti dai quali venivano e ai quali andavano le navi; e fra le bandiere quasi tutte quelle del mondo, a cominciare dalla possente inglese e a finire dalla innocente Samiotta, e fra i porti quelli di quasi tutti gli Stati dei due mondi: dal nostro Litorale alle due Americhe, a Tunisi, alle Indie.


Ma un fatto cade tosto sott'occhio a chi considera questa filza di cifre con occhio di economista e, s'è permesso di dirlo, con intento di filosofo.


E il fatto è questo: fra tutte le bandiere estere dei velieri quella che ha la prevalenza è l'italiana, e vi va aggiunta per parecchie frazioni la nostra marineria, italiana di stirpe in gran parte anch'essa; fra tutti i porti esteri il più rilevante commercio marittimo ci viene fornito coi velieri, da quelli del Regno italiano, ai quali considerando na-uralmente la cosa dal punto di vista etno-grafico, va aggiunto il Litorale italiano delI'Impero austro-ungherese.


Vediamo gli approdi: la bandiera delle navi a vela austro-ungherese, che ha però si noti, per centri precipui l'italiana città di Trieste e l'italiana isola dei Lussini, ci da un contingente di (mettiamo cifre rotonde) 160,000 tonn,, l'italiana del Regno viene subito dopo con 100,000 tonn.; la greca, la più rilevante di quelle che vengono dopo, quanto non dista! Ella figura per sole 33,000 tonn.; e la inglese non ne ha che 4000, l'americana 8000, l'ottomana 7000; la germanica non si fa viva che con 5000 tonnellate!


Vediamo la partenza delle navi a vela: austro-ungarica 156,000, italiana 100.000; si corre all'ingiù per la greca con 33,000, l'ottomana e la svedese con 6000, l'inglese con 4000! E anche qui la germanica non ne ha che 4000.


I porti di provenienza delle navi a vela ci presentano il medesimo fatto, dall'Inghilterra 50,000 tonn., dagli Stati Uniti 30,000, dalla Turchia 22,000. dalla Russia 14,000. dalla Grecia 10,000, dal Brasile 5000, dall'Italia regno 70.000! I porti austro-ungarici figurano per 100,000. tonn.; noi però considerando la cosa non dal punto di vista politico, ma da quello etnografico, potremo calcolare ben 65,000 di queste ultime tonnellate come provenienti da porti etnograficamente italiani perché appartenenti al Litorale italiano dell'Impero E provenienti dal Litorale ungaro-croato e dal dalmato, ove pure la lingua della civiltà e della marineria è italiana, resterebbero sole 40,000 tonn. La Germania, si noti, brilla con un magnifico zero.


Per la partenza dei velieri si dica lo stesso: Austria-Ungheria 110,000, delle quali però ben 64,000 del nostro Litorale; regno d'Italia 66,000. E poi ma molto poi, vengono Grecia 26,000, Turchia 14,000, Stati Uniti 10,000; le partenze per la Francia che ascesero a 69,000 tonn., non si possano dire normali, perché dipendenti dal capriccioso commercio delle doghe.


Nel movimento delle navi a vapore la navigazione coi piroscafi del Lloyd e delle piccole Società istriane è un gigante in paragone di tutte le altre: negli approdi e nelle partenze 400,000 sopra 650,000! Dunque qui pure la prevalenza è della marineria austro-ungarica e precisamente della triestina, che per linguaggio e per missione civilizzatrice è italiana. E vi vanno aggiunte 80,000 tonn., tanto all' arrivo che alla partenza, della marina del Regno d'Italia. Piroscafi tedeschi niente.


La statistica non dice di più: ma dice già molto, e dimostra così come anche per la natura dei suoi commerci e della sua navigazione Trieste sia italiana. A meno che non ci mutino di stirpe e di linguaggio quei 25 bastimenti tedeschi che in tutto e per tutto capitarono nel nostro porto, e quelle 486 tonn. di commercio marittimo che v'ebbero nel 1876 tra la seconda Venezia e l'anseatica Amburgo!»

L'Italia esposta agli Italiani

L'Italia esposta agli Italiani
rivista dell'Italia politica e dell'Italia geografica nel 1871. Di Libero Liberi · 1873

Fino dalla remota antichità, Polibio, Tolomeo, Dionisio Afro, Plinio, Erodiano ed altri, dichiararono essere italiana quella zona che stendesi dalle Alpi Giulie al golfo veneto. Il Cluverio, nella Italia antiqua, al capitolo De finibus universae Italiae, afferma l'italianità di questa sua regione orientale, citando in proposito Livio, Virgilio, Dionigi di Alicarnasso, Mela e altri che sarebbe soverchio l'enumerara. Trieste (Tergeste) e l'Istria ancora sotto la repubblica romana si riconoscevano parti integranti dell'Italia, e tali furono considerate in tutti i successivi scomparti territoriali fatti da Augusto, Adriano e Costantino, e in tutte le posteriori divisioni dell'Impero d'occidente, il che viene luminosamente dimostrato dal Carli nella sua opera Antichità italiche (P. I, lib. II, § 1; P. III, lib. I, §§ 2, 7, 10 e 11). Quindi sotto il regno degli Ostrogoti e dei Longobardi, l'Istria e Trieste continuavano a far parte d'Italia, come è attestato da lettere di Cassidoro (Porta orientale, pubblicazione triestina, vol. 1), e da Paolo Diacono, che scrisse della Venezia e dell'Istria: utraeque pro una provincia habentur (Rerum italic. script., tomo I, De Fast. Longobardorum, c. XIV). 

Parimenti nei successivi tempi degli imperi franco e romano germanico, mentre Trieste era libero municipio, indipendente da ogni Stato straniero, le restanti località del versante italiano delle Giulie appartenevano al regno italico, che col germanico formava il sacro impero (vedi la stessa opera dell'egregio Bonfiglio al capo I e II del libro II e capo II del libro IV). Dante proclamò nella sua Divina Commedia che il nostro paese si'estende sino al Quarnaro, 
Che Italia chiude e i suoi termini bagna.

Il geografo Flavio Biondo di Forli, che viveva nel secolo decimoquinto, disse che il confine nazionale è sul Quarnaro, e nella Undecima regio Histria scrisse: Albona et Terranova, oppida Histriae atque Italiae, ultima sunt censenda. Il veneziano Coppo, nell'opera Del sito dell'Istria, riconobbe ancor esso poco oltre Albona sul Quarnaro il confine italiano; e trattando di questo, così si espresse: Due gran montagne aderenti alle Alpi separano l'Italia dalla barbara nazione, una chiamata monte Caldiero, l'altra, sopra il Carner (Quarnaro), chiamata monte Maggiore. Lo stesso confine diede all'Italia nel cinquecento Goineus, nel cap. IV, De civitatibus recentioribus della sua opera De situ Histriae; e Giusto Fontanini, in uno scritto relativo a questa, il quale appella l'Istria postrema Italiae regio. 

L'illustre Giambullari lasciavaci scritto "esser l'Istria ultima provincia d'Italia, dalla banda dove il sol nasce." Pirro Mincio da Mantova, nel lib. II, pag. 31 delle sue Cronache di Trento, dove tratta dei confini d'Italia, ci dà con diverse parole l'idea medesima. Non altrimenti nel secolo decimosesto il bolognese Leandro Alberti, nella sua geografia tanto riputata ai suoi tempi, dichiara l'Istria decimanona regione italiana, ed anch'egli scrisse: Due gran montagne dividono l'Italia dai barbari, l'una addimandata monte Caldiero, l'altra Monte Maggiore nominata. Anco Lodovico Vergerio estende l'Istria e l'Italia ai nominati monti oltre Albona. Cluverio da Danzica, nella sua carta geografica dell'Italia, che è annessa alla sua Geografia universale, assegnava nel secolo decimosettimo all'italia, oltre alla contea di Gorizia e il territorio di Trieste, l'Istria e la Carsia fino alla principale catena delle Giulie. E nella sua carta geografica della Germania unita alla stessa opera, egli, escludendo da questa regione la contrada fra il golfo veneto e le Alpi Giulie, questa denomina parte d'Italia; e nel cap. XXXV del lib. III dell'opera medesima qualifica italiane le città e luoghi più importanti del bacino dell'Isonzo e dell'Istria. Hortel, altro tedesco, nella sua grande opera, Teatro dell'Universo, pone il confine italiano aderentę ai suddetti monti, nominando fra le terre italiane Albona presso ad essi. Parimenti Luca da Linda, tedesco anch'esso, nella sua opera, Relazioni e descrizioni universali e particolari del mondo, pubblicata nel secolo XVII, dice dell'Istria: Questa provincia appartiene all'Italia; e fra i nomi delle terre nostre dà quelli di Albona e di Fianona. Quindi nel capitolo di quella sua opera, il quale riguarda il governo dell'Istria, estende l'Italia anche a quella parte dell'Istria che era soggetta all'Austria. Giovanni Antonio Magini, nella sua Italia descritta, stampata a Bologna nel 1620, comprese l'Istria come decimosettima regione italiana. E nella Descrittione delle Alpi che dividono l'Italia dalla Francia e dalla Germania, pubblicata a Milano nello stesso anno da G. G. Conturbio, l'Istria è parte d'Italia. 

L'illustre Muratori, esteso e profondo conoscitore delle cose italiche, riunì gli scritti storici intorno a Trieste e all'Istria nel volume VI della sua collezione Rerum italicarum scriptores. In quella celebre raccolta delle opere storiche relative all'Italia, che fu fatta a cura di molti dotti stranieri col titolo Thesaurum antiquitatum et historiarum Italiae, pubblicata nel 1722 coi tipi della città e università di Leiden, nella parte IV del tomo VI figurano, colle storie italiane, storie fatte da Istriani e storie d'lstria. Nello scorso secolo anche il valente pubblicista Carli, nel N. XI dei Preliminari delle sue Antichità italiche, e nella parte III, lib. IV, § 2, della medesima, come altrove, ripetutamente professò convinzione dell'italianità dell'Istria. 

L'Ughelli, nella sua reputatissima Italia sacra (vol. IV, prov. X, col. 5 C.), dopo aver descritta l'Istria, che ei pure comprende in Italia, ne pone il confine a quelle Alpi quae Italiam a Carniola et Pannonia disterminant. Questa provincia era anche nel secolo decimottavo considerata parte d'Italia, come ne fanno fede la Nuova carta dell'Italia settentrionale e delle Alpi che la circoscrivono, formata d'ordine di S. M. Siciliana, dal Rizzi-Zanoni nel 1799; il Supplemento alla storia generale dei viaggi di H. De la Harpe, pubblicata a Venezia nel 1786; nonchè altre opere di quel tempo. Ma gli stessi imperatori austriaci, Giuseppe II e Leopoldo II, mentre coi decreti aulici, 26 marzo 1786, gennaio e aprile 1790, intendevano a diffondere la lingua tedesca in Trieste e nelle contee di Gorizia e d'Istria, riconoscevano essere questi paesi italiani, denominandoli paesi italiani di confine, Stati italiani. Così anco il governo austriaco co'suoi atti uffiziali chiaramente c'insegnò essere il nostro confine oltre Gorizia e Trieste. Il fatto geografico che l'Italia si estende come fino alle Alpi Carniche, così anco fino alle Giulie, e come nell'una, così all'altra riva del golfo veneto, si trova dunque riconosciuto da nazionali e stranieri dei nostri tempi risalendo a quei più remoti, nei quali la scienza geografica era ancora bambina. Del che se ne hanno poi a migliaia le prove nei tremila e più scritti intorno a Trieste, all'Istria e a Gorizia, dei quali fa cenno la ricordata Bibliografia dell'Istria, pubblicata in Capodistria nel 1864 da una patria società, fatica dell'egregio dott. Carlo Combi, ora professore all'istituto superiore di commercio in Venezia (Vedi l'opera del Bonfiglio suddetta, da pag. 534 a 541).

FIUME: la narrativa Ramousiana

Utopiche promesse: II Movimento Popolare di Liberazione

Osvaldo Ramous nel suo romanzo offre delucidazioni dei diversi equivoci venutisi a creare nell'immediato secondo dopoguerra, circa i diritti della popolazione italiana di Fiume, diventata in breve tempo una minoranza e il promesso, ma mancato, rispetto della lingua e cultura italiane. Nella lettera a Eraldo Miscia, Ramous spiega le ragioni e i motivi che lo indussero alla stesura del romanzo:

«Il cavallo di cartapesta (titolo più che ironico, amaro) non è nemmeno nelle intenzioni, un vero romanzo. lo l'ho scritto con lo scopo di rivelare lati sconosciuti della situazione storica che ha determinato l'attuale stato della mia città. Ho voluto rendere noti certi equivoci che sono ignorati da chi non li conosce per propria esperienza, e che furono determinanti per la sorte attuale di questa zona, sebbene la mia posizione non sia la più agevole per esprimere certe cose.»

Ovviamente, il governo comunista jugoslavo, una volta giunto al potere, venne meno alle utopiche promesse garantite, specie quelle riguardanti il futuro destino della città di San Vito. (I comunisti, pur di far aderire un maggior numero di fiumani alla causa della lotta popolare di liberazione, garantivano il mantenimento di un'ampia autonomia della città a guerra conclusa: 

«Noi non siamo degli imperialisti e non intendiamo prendere terre che non ci appartengono. Combattiamo per la libertà dei popoli e rispettiamo quindi la loro volontà. Sarà la popolazione dell'Istria e delle altre terre di confine a decidere del proprio destino. Nessuna prepotenza e nessuna pressione: tutto sarà fatto nel segno della liberta. (...) L'autonomia amministrativa cittadina di Fiume non può disturbare la nuova Jugoslavia, fondata sopra basi democratiche, e neppure un'autonomia ancora più larga di quella che aveva Fiume sotto l'Ungheria. In essa la lingua italiana potrà conservare quel posto che le vuole dare la maggioranza dei cittadini fiumani: Osvaldo Ramous, Il cavallo di cartapesta, cit., p. 177)»

Infatti, dopo l'armistizio italiano, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile ed entrato in vigore con il proclama del maresciallo Pietro Badoglio l'8 settembre, veniva proclamata dal Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale croato l'annessione di Zara, Fiume e dell'Istria alla futura Jugoslavia. Occorre precisare che tra i dieci e i quindici mila soldati italiani rimasti sul fronte balcanico si unirono al Movimento Popolare di Liberazione (MPL) jugoslavo mentre solo una parte di loro si schierarono a fianco dell'esercito nazista. Nonostante ciò, la componente italiana della Resistenza, poiché nata due anni dopo quella croata e slovena, non fu affatto coinvolta nelle trattative sui nuovi confini da stabilirsi a guerra finita. Infatti, stando a quanto rilevato da Stelli, "i Partiti comunisti croato e sloveno all'interno del MPL imposero rapidamente la loro egemonia con una politica di epurazione degli elementi italiani «sgraditi».

Non sorprende quindi il fatto che, già all'indomani dell'armistizio, si verificarono i primi casi di rivolte e insurrezioni popolari contro gli "elementi" fascisti, le quali assunsero piuttosto la forma di veri e propri eccidi, giudicando dalla loro sistematicità e brutalità dei metodi usati. Secondo la storiografia jugoslava, la causa principale di queste ribellioni brutali era l'oppressione della dittatura fascista esercitata nei confronti delle popolazioni croata e slovena nei territori annessi all'Italia, pertanto considerata una reazione spontanea e "naturale", quasi giustificata. Oggi, a più di mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, quando l'argomento delle foibe non rappresenta più un tema-tabù, si è propensi a considerare le rivolte popolari del 1943, stando alle ricerche più recenti, una manifestazione del nazionalismo jugoslavo e preannuncio della furia epuratrice messa in atto, a guerra finita, dai comunisti titini. 

(Ramous affronta l'argomento delle foibe e le sue presunte cause. Risulta significativo il dialogo tra i partigiani, Furio, Miljenko e Boris, dal quale traspare il rifiuto dello scrittore fiumano di considerare l'infoibamento degli italiani dell'Istria e di Fiume una conseguenza dell'oppressione fascista quanto piuttosto un atto barbarico attentamente pianificato dai comunisti titini... Bisogna abituarsi a tutto, se si vuol vincere. Una fucilazione è un atto di giustizia. (...) "Oggi, purtroppo, si combatte più con le fucilazioni che con le battaglie. Ce lo insegnano i tedeschi" disse Miljenko (...) "Ma quello che i tedeschi non sanno è che far fucilare agli altri è molto più utile che fucilare" riprese Boris. "È una specie di strategia che a noi riuscì magnificamente con gli italiani" (...) "Fu una cosa necessaria" continuò Boris.  «Gli italiani, come tu stesso sai, non sono per natura dei guerrieri. In Jugoslavia, appena entrati, si comportavano come in casa loro. Trattavano la gente, soprattutto nelle campagne, come dei compaesani. Il guaio era che la popolazione ci stava. (...) Il fatto è che c'era sotto un equivoco, e che l'equivoco doveva essere, con qualsiasi mezzo, eliminato. Non si poteva mica permettere che la popolazione andasse a bracetto con gli occupatori! Ti pare? Se i soldati italiani non erano cattivi, bisognava costringere alla cattiveria i loro comandanti. Per arrivarci, si doveva mettere delle bombe sotto le caserme, far cadere i soldati in imboscate, fa saltare dei treni e rendere di tutto responsabile la popolazione" "Un sistema infallibile." commentoò Furio

«Difatti. Picchia e ripicchia, i comandi italiani furono costretti a ricorrere alle rappresaglie. Così lo stato d'animo della popolazione fu portato al punto giusto. "La guerra senza l'odio non la si fa. O almeno non la si vince." "Ora però la situazione è chiara" disse Miljenko. L'esercito italiano non c'è più. Molti italiani sono passati, e continuano a passare, nelle nostre file." "Quelli passati ai tedeschi. Con loro non c'è che una cosa da fare" concluse Boris. "Se ci capitano tra le mani, metterli al muro o buttarli nelle foibe." (Osvaldo Ramous. Il cavallo di cartapesta, cit., pp. 186-187.)»


La secolare autonomia fiumana

Le testimonianze sulla particolare autonomia di Fiume risalgono al XVI secolo, quando questa venne sancita giuridicamente dallo Statuto Fernandineo del 1530.

Tuttavia, la "questione fiumana" si complicò nella seconda metà del XVIII secolo. Con un Diploma del 14 febbraio 1776 Maria Teresa, erede al trono in quanto figlia dell'imperatore Carlo VI, cedette Fiume alla Croazia. Questa sua decisione venne accolta sfavorevolmente dalla Municipalità fiumana e quindi l'imperatrice, per aderire ai desideri dei fiumani e degli ungheresi, dovette modificare il diploma precedente e con un rescritto del 23 aprile 1779 enunciò l'annessione della città alla Corona di Santo Stefano. Con il Diploma del 1779 furono ricompensati gli interessi dei fiumani, venne confermato lo status della città quale "corpus separatum" incorporato direttamente all'Ungheria. Venne inoltre stabilita un'amministrazione cittadina libera e privilegiata, esclusa da ogni pretesa esterna. Nonostante i fiumani rivendicassero fermamente l'autonomia della propria città all'interno dell'Impero, il diploma teresiano diede origine a una lunga controversia storico-giuridica tra il non indipendente regno di Croazia e l'Ungheria e rappresentò, in realtà, "il nocciolo di tutti i problemi politici della città del periodo più recente." Infatti, i primi sostenevano che in base ai provvedimenti del Diploma, veniva concessa un'amministrazione privilegiata della città senza però alterarne la dipendenza politica mentre l'Ungheria affermava che Fiume facesse parte integrante della Corona di Santo Stefano in veste di "corpus separatum" e, come tale, ne era politicamente dipendente. Fiume rimase "corpo separato" dell'Ungheria, con brevi intervalli, fino alla metà del XIX secolo. Con i moti rivoluzionari del 1848 che cambiarono notevolmente il clima politico, la città di Fiume passa sotto il dominio croato.


Il "periodo croato"

Destinato a durare non più di due decenni, precisamente dal 1848 al 1868, il "periodo croato" ebbe inizio con l'occupazione della città da parte delle truppe del capitano Josip Bunjevaz in nome del bano Josip Jelačić. Quest'ultimo, rimasto fedele alla Corona d'Austria dopo la rivoluzione ungherese, mirava a creare un vasto "Stato Illirico" unendo la Croazia, la Dalmazia e la Slavonia. Questo stato comprendeva pure la zona del litorale liburnico compresa la città di Fiume quale capoluogo, considerata in effetti parte integrante della Croazia all'interno dell'Impero. (Ad ostacolare i piani del bano croato furono i fiumani che per custodire la tradizionale autonomia fondarono, nel 1848, la Commissione storica in base a un decreto della Municipalità fiumana con il compito di raccogliere la documentazione storica sull'autonomia di Fiume, dando cosi l'avvio alle prime sistematiche ricerche storiografiche circa le radici culturali della città sull'Eneo. Cfr. Giovanni Stelli, La storiografia fiumana e la tradizione dell'autonomia cittadina, in Fiume crocevia di popoli e culture, cit., pp. 109-110)

Opponendosi tenacemente all'annessione e temendo che quest'ultima avrebbe compromesso la privilegiata posizione di Fiume con gravi ripercussioni economiche e culturali, il Consiglio comunale inviò diverse proteste e petizioni all'imperatore affermando che "Fiume, sebbene dall'anno 1848, interinalmente unita alla Croazia, non si considerò mai parte integrante di questo regno al quale non appartenne mai, poiché prima della sua incorporazione all'Ungheria non aveva mai avuto con la Croazia relazione alcuna e formava un corpo autonomo". 

Per conciliare le due parti contrastate, quella croata e ungherese, e per adempire ai desideri del Consiglio comunale di Fiume, l'imperatore fu costretto a trovare una soluzione. L'accordo venne raggiunto e codificato il 27 novembre 1868 con la nomina di una commissione mista ungaro-croato-fiumana mentre la città, secondo le esplicite richieste della Municipalità cittadina, venne riunita al Regno d'Ungheria. È doveroso precisare che l'accordo, considerato sin dall'inizio provvisorio, venne firmato solo dopo che la corte viennese falsificò il testo del controverso paragrafo 66, denominato dagli storici lo Straccetto fiumano, e lo incollò sopra quello originale. (Il paragrafo 66 dell'Accordo ungaro-croato nella versione originale ammetteva nei regni di Dalmazia, Croazia e Slavonia tutta la contea di Fiume, "inclusa fa città di Buccari e il suo distretto [...] ad eccezione della città di Fiume e del suo distretto, riguardo alla quale i comitati dei regni di entrambi gli Stati non sono riusciti a raggiungere un accordo." Lo Stracetto fiumano invece dichiarava che la città di Fiume e il suo distretto "formano un Corpo separato unito alla corona ungarica (Separatum sacrae regni coronae adnexum corpus) [...] avente come tale un'autonomia particolare e un ordinamento giudiziario e amministrativo" e che i parlamenti di Dalmazia, Croazia, Slavonia e di Fiume avrebbero discusso e risolto in futuro. Cfr. Maja Polić, Riječka krpica"1868. godine i uvjeti za njezino naljepljivanje na Hrvatsko-ugarsku nagodbu, cit., pp. 79-80.)


L'idillio ungherese-fiumano

La riannessione di Fiume all'Ungheria portò grandissimi benefici alla città poiché, essendo il suo unico sbocco sul mare, il governo ungherese investì considerevoli somme nella modernizzazione del porto. In questo periodo, denominato dai storici come "l'idillio ungherese-fiumano", si assistette a un progressivo sviluppo economico della città dovuto innanzitutto alla costruzione di moli, dighe, magazzini ed altre infrastrutture portuali. A contribuire allo slancio dell'attività commerciale ebbe notevole impatto la fondazione di compagnie marittime quali l'Adria. Sotto l'abile guida del Podestà e benefattore, Giovanni de Ciotta, venne costruito il tratto ferroviario Karlovac-Fiume che collegò la città quarnerina all'entroterra e alla capitale ungherese, Budapest. 

Tuttavia, già verso la fine del XIX secolo si intravedeva la fine dell'idillio" in seguito a una nuova politica adottata dalla Corona di Santo Stefano quale riflesso del nascente nazionalismo ungherese. In tal contesto, i fiumani pur sempre fiduciosi nella lealtà degli ungheresi nel rispettare i diritti stipulati nei diversi decreti e diplomi, commisero, stando a Stelli, un grave errore non avendo definito esplicitamente i limiti della loro autonomia. Errore questo che i fiumani pagheranno a caro prezzo dato che gli ungheresi, considerandosi gli unici meritevoli dello sviluppo e della prosperità di Fiume, promuovevano nel campo politico, a cavallo tra l'Ottocento e Novecento, una prassi delilliberale. Due leggi restrittive vennero introdotte dal governo ungherese senza il consenso della Rappresentanza. La prima diminuiva l'autorità della Rappresentanza municipale fiumana mentre l'altra prevedeva il controllo del governo ungherese sull'istruzione pubblica, restringendo in tal modo l'autonomia fiumana e mettendo in crisi l'italianità di Fiume. Con l'introduzione delle due leggi, iniziarono le avversità tra le due componenti etniche dominanti. Queste culmineranno all'inizio del XX secolo.


Il partito autonomo e la salvaguardia dell'autonomia fiumana

Al fine di difendere i diritti dell'autonoma municipalità cittadina e della lingua italiana, venne fondato da Michele Maylender il partito autonomo. Maylender venne eletto a podestà nel 1897 e rieletto altre sei volte. Quando a inizio Novecento il governo ungherese cominciò a realizzare politiche di magiarizzazione forzata, i giovani fiumani insorsero e, ormai scettici nei confronti della politica lealista del partito autonomo, fondarono nel 1905 il circolo La giovine Fiume, di stampo nettamente nazionalistico. Un nuovo provvedimento del governo ungherese che segnò la frattura definitiva tra Fiume e Budapest fu l'introduzione, in città, della polizia di Stato nel 1913, seguita da massiece dimostrazioni popolari. 
Fortunatamente per i fiumani, i piani di magiarizzazione e il processo di abolizione dell'autonomia di Khuen-Héderváry furono troncati dallo scoppio della Grande Guerra. (Nonostante il sodalizio, fondato da giovani irredenti italiani, si presentasse come un circolo con scopi sportivi, ricreativi e culturali, non mancarono manifestazioni di carattere politico. La prima di queste fu organizzata dalla società nel novembre 1905:

«Nel corso di una rappresentazione da parte di una compagnia italiana al Teatro civico del dramma La morte civile di Paolo Giacometti venne dispiegato un grande tricolore da una parte all'altra del tatro; intervennero i poliziotti, ma il funzionario preposto, evidentemente per nulla ostile ai manifestanti, sostenne nella sua relazione. che il tricolore dispiegato era quello...ungherese (che, come è noto, ha gli stessi colori di quello italiano, disposti però in bande orizzontali)!"; Giovanni Stelli, Storia di Fiume-Dalle origini ai giorni nostri, cit., p. 190.)»

Dopo la guerra e la dissoluzione della monarchia, gli ungheresi abbandonarono la città che fu Stato Libero dal 1920 al 1924 quando Fiume fu annessa all'Italia. Ventun'anni dopo, esattamente il 3 maggio 1945, le truppe titine occuparono la città, ma la presunta conquista di libertà toglierà ai fiumani la propria storica identità e autonomia, ed è questa macro-storia che Osvaldo Ramous con dolorosa profondità e senza false illusioni dipinge ne II Cavallo di cartapesta, in un'analisi attenta e perspicace.


Gli anni del terrore comunista: La politica epuratrice del governo jugoslavo

Con la fine del conflitto mondiale e l'occupazione di Fiume da parte delle truppe partigiane avvenuta il 3 maggio 1945, il governo comunista jugoslavo adottò un'accanita politica repressiva, volta a "neutralizzare" quelli che venivano considerati i "nemici del popolo". 

Venne instaurato, su modello sovietico, il sistema della cosiddetta "democrazia popolare" secondo il quale, almeno in teoria, il potere era in mano al popolo. Tale sistema politico-organizzativo era però assai lontano da quello democratico e si rivelò ben presto come un regime totalitario monopartitico. 

A proposito delle diverse organizzazioni politiche presenti a Fiume nell'immediato dopoguerra, la cui influenza era però trascurabile, vanno nominati il "Partito Autonomo" cappeggiato da Riccardo Zannella, il movimento "Fiume Autonoma Italiana" fondata da don Luigi Polano e la "Federazione liburnica" promossa da Giovanni Rubinich. Siccome il nuovo governo comunista non ammetteva l'esistenza di altri partiti e organizzazioni politiche, i fondatori dei suddetti movimenti, insieme ad altre centinaia di persone ritenute "nemici del popolo" e "oppositori", reali o potenziali, furono spietatamente liquidati dalla polizia segreta, l'OZNA, oppure svanirono nel nulla, inghiottiti dal buio. In alcuni passi del romanzo, Ramous offre cenno di queste sparizioni e dell'agghiacciante atmosfera che si respirava a Fiume nei giorni successivi all'occupazione jugoslava:

«In città, intanto, si diffondevano delle voci tutt'altro che tranquillanti. Si parlava di arresti notturni, di deportazioni, di esecuzioni capitali avvenute senza pubblici processi, e perciò incontrollabili. Delle persone sparite, il più delle volte non era possibile aver nessuna notizia. Ai familiari che ne chiedevano, veniva risposto che nulla si sapeva di loro.»

Un sommario approssimativo delle vittime fiumane della politica repressiva jugoslava è stato tracciato dallo storico Amleto Ballarini:

«A Fiume, per mano dei militari e della polizia segreta (OZNA prima e UDBA poi), sotto le direttive del Partito comunista croato (...), con la complicità diretta o indiretta del Comitato popolare cittadino (...), non meno di 500 persone di nazionalità italiana persero la vita tra il 3 maggio (1945) e il 31 dicembre del 1947. A questi dovremmo aggiungere un numero impreciso di "scomparsi" (non meno di un centinaio) che il mancato controllo nominativo nell'anagrafe storica comunale ci costringe a relegare nell'anonimato insieme al consistente numero, nei paesi della provincia del Carnaro e dei distretti annessi dopo il 1941, di vittime di nazionalità croata (che spesso ebbero, almeno tra il 1940 e il 1943, anche la cittadinanza italiana) determinate a guerra finita dal regime comunista jugoslavo.»

Alle sparizioni casuali e liquidazioni massicce fecero seguito, tra il 1946 e il 1948 innumerevoli sequestri e confische di beni messe in atto, sempre con motivazioni generiche, dalle autorità comuniste. Ne scrive a proposito Ramous:

«Qualche giorno prima, era uscita da quell'alloggio una coppia di anziani negozianti, rimasti senza lavoro e senza mezzi, dopo il sequestro della loro bottega. L'espropriazione era avvenuta, come già in altri casi, non in base a pubbliche generali disposizioni, ma in seguito a un controllo, durante il quale erano state rilevate alcune trasgressioni di regole che i proprietari non avevano avuto mai l'occasione di conoscere.»

Tale fatto, come se non bastasse, rese ancora più opprimente la situazione nei territori annessi alla Jugoslavia costringendo la stragrande maggioranza della popolazione di quelle zone alla dura e forzata scelta dell'esilio.


L'esodo

Nonostante il regime comunista jugoslavo avesse inizialmente garantito il rispetto della tradizionale autonomia fiumana e dei diritti etnici e culturali delle minoranze, una volta giunto al potere assunse un atteggiamento diametralmente opposto, svelando le sue vere intenzioni. Negli ultimi capitoli del romanzo, in particolare quello intitolato La tua logica non è la mia, Ramous affronta un preciso momento storico, cioè le delusioni alle quali andarono incontro i fiumani che hanno creduto nella tanto proclamata libertà e fratellanza tra i popoli, ovvero nell'internazionalismo socialista che risultò, anzi, un nazionalismo jugoslavo. In tal