Nel 789 l'Istria venne in potere di Carlo Magno e dei suoi Franchi. La conquista franca ha portato una grande rivoluzione nel nostro paese. Al sistema autonomo-romano, durato ben otto secoli, veniva repentinamente sostituito il feudale-franco, colla cooperazione dell'alto clero istriano.
Le istituzioni pubbliche bizantine vennero tutte abolite; aboliti il maestro dei militi, i tribuni, i vicari; abolita la curia, tolta ogni partecipazione del popolo alle cariche pubbliche ed all'elezione di qualsiasi magistrato; tolta la giurisdizione ai liberi sugli stranieri e sui liberti. Ogni potere civile e militare faceva capo al duca franco, imposto dal nuovo sovrano, il quale, a sua volta, condivideva questi poteri coi centarchi da lui nominati e da lui solo dipendenti, tutti investiti del potere arbitrario, senz'altra limitazione che il volere del duca, unica fonte di legge e di autorità per tutti.
I beni pubblici vennero confiscati a vantaggio del duca e dei suoi famigliari: spegnevasi ogni autorità e giurisdizione dei comuni maggiori sui luoghi del contado; molte, infine, le località minori donate dal duca ai suoi Franchi con lui [26] venuti in buon numero, ed a lui legati dal vincolo di vassallaggio. Gli Istriani perdettero non solo ogni partecipazione alla cosa pubblica, ma dovettero altresì subire la legge del vinto.
Alle angherie ed alle pubbliche rapine si aggiungevano le imposte arbitrarie, esorbitanti, persino il divieto della pesca.
Agli altri Italiani che avevano provato gli effetti della prepotenza longobarda, non frenata da leggi, gli ordinamenti di Carlo Magno potevano apparire una benedizione; non così però agli Istriani, ai quali, abituati al viver libero, quei subiti ordinamenti dovevano riuscire oltremodo gravosi.
Il grido di dolore degli Istriani giunse mediante il patriarca di Grado, Fortunato, all'orecchio di Carlo Magno, che ordinò tostasi aprisse una severa inchiesta. E fu convocato il placito provinciale al Risano (a. 804), accennato più sopra, ove alla presenza dei messi dell' imperatore, e dinanzi al patriarca di Grado ed all'alto clero istriano, fu posto a nudo dai rappresentanti delle città e castella tutto l'odioso procedere del duca, dei vescovi e dei loro aderenti. I messi imperiali dovettero far ragione alle giuste lagnanze dei rappresentanti del popolo: vennero restituiti i beni ai comuni e la giurisdizione ai forestieri; esonerati i liberi dalle opere servili; furono soppresse le imposte arbitrarie, ripristinati i tribuni e le altre magistrature bizantine; e restituito, per ultimo, agli Istriani il diritto di scegliersi liberamente i magistrati secondo l'antica loro consuetudine, diritto questo che fu poscia loro confermato con apposito diploma, nell'815, dal figlio e successore di Carlo Magno, l'imperatore Lodovico il pio.
In tal modo gli Istriani poterono sottrarsi per qualche tempo ancora all'oppressione del sistema feudale, e mantenere ancora in parte la loro passata autonomia.
Ma non fu altro che una breve sosta: colle condizioni mutate, le città perdettero un po' alla volta la giurisdizione sugli antichi territori: la campagna, sciolta dal nesso di subordinazione al municipio, venne facilmente avvolta nelle spire del feudalismo; fattosi poi questo sempre più forte, invase da ultimo-le stesse città.
Però le decisioni prese nel placito al Risano, non rimasero» interamente lettera morta. Per tutto il secolo ix, le forme di [27] governo proprie dei tempi bizantini continuarono a mantenersi nelle nostre città. Ciò è dimostrato dai documenti di quel tempo, i quali menzionano i tribuni, i vicari ed i loro servatores, e comprovano altresì che il diritto civile era quello della legge romana.
Vi ha anzi nella costituzione municipale istriana del secolo ix tanta impronta di romanità, che il Bethmann-Holweg (3) e con lui il Wagner, sostennero persino che la così detta lex romana utinensis debba la sua origine nell'Istria, armonizzando appieno quella legge colle condizioni politiche che quivi allora vigevano per effetto della costituzione franco-romana.
Non si può fissare che approssimativamente il tempo, in cui i tribuni e le altre magistrature romane cedettero il posto nelle nostre città alle nuove autorità feudali. Ciò sarebbe avvenuto verso la fine del IX ed il principio del X secolo.
A partire del 932 al 1032, i documenti ricordano la presenza nelle città di un grande numero di persone e di famiglie, i cui nomi tradiscono la loro origine tedesca. Quelle persone non solo abitavano nelle nostre città, ma coprivano anche le varie cariche di locopositi, di avvocati del popolo, e di scabini. Erano venuti in Istria col duca Giovanni queste famiglie tedesche, le quali presero prima dimora nella campagna in mezzo ai loro domini, carpiti alle città ed alle chiese, ma poi vennero a stabilirsi nelle città, ove per gii stessi loro possedimenti e per il favore dei governanti, ottennero ben presto il posto fra i maiores, e vennero eletti alle cariche più elevate.
Se le città salvarono dal generale naufragio le antiche magistrature e la costituzione, perdettero tuttavia la giurisdizione sino allora esercitata sugli estesi agri municipali.
Due fatti concorsero particolarmente a favorire questa separazione della campagna dalle città: le immunità del clero e la creazione delle baronie laiche.
Infatti nella nostra provincia si andò formando una serie di immunità vescovili e conventuali: borgate, terre, castella e ville vennero infeudate ai vescovi ed agli abati indigeni e forestieri, senza riguardo se le terre infeudate appartenessero [28] ad altra circoscrizione municipale o diocesana. Ne furono infeudate anche a principi che ressero il nostro paese, ed a dinasti poi che nulla ebbero a che fare coli'Istria; rinfeudate o donate cotesto ad altre persone; cosicchè tutta la campagna andava frazionata in una molteplice quantità di giurisdizioni più o meno subordinate al signore principale, ma indipendenti affatto dalla giurisdizione della città, cui prima avevano appartenuto.
Nello stesso tempo che le infeudazioni e le immunità operavano questo cangiamento radicale nei rapporti fra le città ed i loro territori, il feudalismo introducevasi un po' alla volta nelle città stesse, finendo da ultimo col dominarle.
Durante il periodo romano e bizantino, erano i proprietari, possessores, quelli che costituivano la casta dominante nei municipi. I possidenti erano i primiores civitatis, quelli insomma che avevano il governo del municipio. La mercatura e le arti erano considerate come opere servili, e lasciate ai clienti, ai liberti, agli schiavi ed agli stranieri. Il ceto dei mercanti e degli artigiani teneva allora un posto di mezzo fra i veri cittadini e gli schiavi.
Le cose si cangiarono in loro favore allorquando la difesa del paese, minacciato dalle invasioni nemiche, divenne scopo supremo del governo bizantino, e la costituzione civile della provincia dovette cedere il posto alla supremazia militare. Colla scomparsa dei possidenti maggiori, causata dall' introduzione del sistema feudale, dalla confisca dei grandi possessi pubblici e privati, e dalla perdita della campagna, subentrarono a quelli i possidenti minori, e più particolarmente i negozianti e gli artigiani, i quali formano ormai il nerbo della cittadinanza propriamente detta.
Col cangiamento della posizione giuridica dei commercianti, e della parte a loro segnata nella difesa del paese, cessano pure, sul finire del ix secolo, le magistrature romano-bizantine dei tribuni, vicari, locopositi ecc., per dare luogo all'introduzione degli scabini, voluta dal nuovo ordine di cose, e dal feudalismo, quando questo dalla campagna penetrò in città.
Il marchese, il conte provinciale, od i loro luogotenenti, Don amministravano direttamente la giustizia: essi erano soltanto, i presidi dei tribunali, ne tenevano la direzione esterna, e [29] curavano la esecuzione delle sentenze. Il pronunciamento delle decime, in base al diritto, apparteneva soltanto alla rappresentanza dei cittadini.
L'imperatore Carlo Magno aveva, cioè, ordinato che per i tribunali fossero eletti dai messi reali, oppure dai conti, colla cooperazione del popolo, un certo numero di assessori stabili chiamati scabini, i quali dovessero intervenire nella trattazione degli affari ordinari imposti dalla legge, ed anche degli straordinari proposti dai conti. Questi scabini venivano eletti nelle singole città, ed il loro numero ordinario era di 12, dei quali almeno 7 dovevano essere presenti in ogni giudizio.
Si trovano poi gli scabini chiamati a giudicare anche in assemblea giudiziaria provinciale, il qual fatto ci dimostra che l'Istria formava allora un tutto a sè, indipendente da altre Provincie e che gli scabini medesimi costituivano una specie di corporazione provinciale.
Lo scabinato non era inoltre privo di una tal quale importanza politica, dacchè gli scabini formassero, nella maggior parte delle città, il punto centrale della costituzione cittadina, nella stessa maniera che la comunità dei liberi ne costituiva propriamente il corpo. Eletti dai liberi cittadini, gli scabini erano i loro permanenti rappresentanti, il centro di unione e la salvaguardia delle libertà rimaste.
Nè l'attività dei cittadini era limitata alla difesa della loro terra ed all'azione degli scabini; ma molti altri erano i modi, co' quali i cittadini, costituiti in particolari deputazioni, partecipavano all'intiera azienda municipale.
Per riscuotere le decime ecclesiastiche si sceglievano 4 od 8 uomini per ogni comune, i quali servivano da testimoni fra gli ecclesiastici ed il comune, qualora insorgessero dissidi fra l'una e l'altra parte.
I messi dovevano eleggere d'accordo col vescovo e col conte, in ogni città, dei deputati allo scopo di presiedere alla riattazione dei ponti. Dei fiduciari venivano eletti nelle città e distretti, coll'obbligo giurato di notificare gli omicidi, i furti, gli adulteri e le illecite unioni. Le persone migliori e leali venivano elette dai messi ad inquirere, e ad assistere il conte negli affari giudiziari. Dei giurati erano scelti a sorvegliare le monete ed i pesi.
[30] Colla metà del secolo zi cessano gli scabini, ed al loro posto vengono gli iudices. Questo rrtono al titolo romano indica già la prevalenza della reazione municipale romana sulla feudalità .germanica.In questo frattempo troviamo in qualche città istriana una Altra carica, quella cioè dell' advocatus totius populi, senza conoscere però di preciso le attribuzioni rispettive.
Frequente è pure nell' Istria in questo secolo e nei susseguenti il locopositus, la quale carica era la prima della città e rappresentava o il conte provinciale, oppure il conte urbano, tanto se ecclesiastico, quanto se laico.
In certi atti solenni, per esempio nelle ambascerie che si spedivano a Venezia, troviamo oltre al locoposito, all'avvocato del popolo ed agli scabini, un certo numero di cittadini; e gli atti rispettivi venivano sottoscritti da un maggior numero di questi ultimi.
Tutte queste rappresentanze ci autorizzano a conchiudere, che il sistema feudale, da noi, non aveva del tutto soppressa la partecipazione dei liberi comunisti alla cosa pubblica, ma che continuavano ad avere parte attiva nelle faccende delle città. Così quell'alito di indipendenza che spirava nelle nostre città durante il secolo X, malgrado il più rigido feudalismo, null'altro era che la continuazione dell'autogoverno goduto prima, modificato soltanto nelle forme esteriori.
E questo stato di cose era certamente dovuto alla conservazione della nazionalità romana nel popolo, immune da infiltrazioni di genti straniere abituate al servaggio, al continuo contatto con Venezia, ed alla necessità di provvedere da se alla difesa del commercio marittimo, rimasto pressochè unica fonte di ricchezza per le città.
Quindi ogni città formava un ente politico a sè, diviso e -distinto dagli altri, con proprio sviluppo storico e proprio ordinamento interno. [31]
V.
Colla trasmigrazione dei popoli, occupate dai barbari le regioni transalpine, ogni scambio dell'Istria con codeste contrade Tenne a cessare, per cui l'attività commerciale degli Istriani fu ristretta quasi esclusivamente alla via marittima lungo l'Adriatico.
Ed ecco venire noi a contatto con Venezia, la quale aveva preso il posto già tenuto da Aquileia.
I legami fra i due popoli, già abbastanza stretti dall'affinità di razza, dai vincoli di parentela, e dai trattati commerciali, si consolidarono vie più col pericolo comune ond'era minacciato il commercio marittimo dai corsari slavi, stabilitisi nella finitima Dalmazia.
Una serie di guerre, che i Veneziani dovettero sostenere contro i detti Slavi, ravvivarono, come bene si comprende, i vecchi rapporti fra la Dominante e l'Istria. Noi assistiamo, pertanto, in questo periodo, a molti esempì di patti conchiusi fra le nostre città e la Repubblica: non erano ancora dedizioni, ma semplici trattati di protezione, quasi di alleanza, mercè i quali le città istriane si obbligavano di dare un certo numero di navi per mantenere la polizia del mare, e qualche contribuzione fissa di vino, olio ed altre derrate per la chiesa di S. Marco.
Questi amichevoli rapporti degli Istriani coi Veneziani non garbavano a qualche marchese, e perciò si ebbero, per le influenze del padrone dominatore, frequenti rotture di patti che occasionarono vendette e rappresaglie. Ma alfine, nel 933, venne stipulato a Rialto un solenne trattato di pace fra l'Istria e Venezia, dal marchese d'Istria, dai vescovi di Pola e Cittanova, da due locopositi e da due scabini, da 12 altri fiduciarî di Pola, Capodistria, Muggia, Pirano, ivi convenuti; inoltre fu giurato da appositi fiduciari di ciascuna città.
Questo trattato lo si può quindi a buon diritto considerare come la pietra angolare su cui Venezia inalzò più tardi l'edifizio della sua dominazione nell'Istria. L'affinità di origine, la comunanza di istituzioni, gli interessi commerciali, [32] attirando gli Istriani sempre più nell'orbita della politica di Venezia, fecero poi il resto per il trionfo dei suoi disegni su. questa provincia.
VI.
La pace fra Venezia e l'Istria è durata lungamente; ma le cose cangiarono all'improvviso, allorquando scoppiava a Venezia, nell'agosto 976, la rivolta contro il doge, ed il suo sistema politico, e Candiano IV cadeva vittima dei cospiratori. I Capodistriani retti dal conte Sicardo tentarono di sottrarsi all'onoranza promessa e mantenuta per tanti anni al doge veneto; ma salito al potere il nuovo doge, Pietro Orseolo, una delle sue prime cure fu quella di sopire queste discordie, e regolare le cose cogli Istriani, ed in particolar modo coi Capodistriani, coi quali conchiuse a Capodistria stessa, il 12 ottobre 977, un nuovo trattato.
Questo nuovo patto non era in complesso che la rinnovazione dei trattati anteriori, specie di quello del marzo 933, con alcune aggiunte però, e con modificazioni importantissime, fra cui noteremo quella dell'annuo contributo delle 100 anfore di vino, non già elargite a titolo di onoranza al doge, ma come un vero contributo, se pure velato col titolo di servitium; e questo contributo non è più personale, ma obbligatorio a perpetuità. Nella. città di Capodistria risiederà d'ora innanzi un veneziano come fiduciario e quasi rappresentante del doge, affine di controllare il pieno adempimento dei patti, esigerne all'occorrenza l'osservanza, e di tenere informato il suo governo. Inoltre Capodistria si obbligava a conservare sempre la pace con Venezia, anche quando tutta l'Istria fosse in armi contro la Repubblica. Il rappresentante del doge a Capodistria aveva, infine, la veste ufficiale di console veneziano investito del potere di sedere a tribunale, e giudicare insieme a' giudici capodistriani, secundum consuetudine nostram et vestram, ogni qualvolta un veneziano dimorante nella detta città aveva bisogno di ricorrere alla giudicatura indigena.
Venezia agiva con molta circospezione, studiandosi di conseguire ogni maggior utile dalla nostra provincia, senza destare [33] sospetti neir imperatore di Germania, e senza attentare, almeno in teoria, a nessuno dei suoi diritti di sovranità sulla penisola istriana.
Ma l'Istria non formava una provincia nel senso moderno della parola. Frazionata dal feudalismo in una quantità di territori separati fra loro, ogni città formava quasi una repubblica a sè, per nulla interessata alle sorti della città vicina.
Il sopra ricordato documento ci porta ad altre considerazioni ancora. Desta meraviglia la grande autonomia spiegata in questa circostanza dal popolo capodistriano, ed il modo tenuto nel concludere il trattato, senza quasi ricordarsi della sua dipendenza dal potente imperatore tedesco.
Capodistria concede ai Veneziani piena libertà di commercio; dispone indipendentemente dei dazi di entrata, condonandoli ai Veneziani; si obbliga a perenne tributo; accetta nella città la presenza di un console veneto; e promette di mantenere la pace con Venezia anche se gli Istriani la guerreggiassero. Dell'imperatore Ottone I si fa un cenno fuggevole solo nell' introduzione: Imperante domino nostro Ottone serenissimo imperatore, e nella chiusa: absque iussione imperatoris.
Il conte Sicardo, il rappresentante dell'autorità feudale a Capodistria, non fa poi la miglior figura, quando, costretto dalla volontà del popolo, sottoscrive il trattato che era la negazione della sua propria autorità.
I pirati Croati e Narentani continuano intanto ad infestare l'Adriatico; ma il doge Orseolo II con una serie di fatti d'armi li sottomette (a. 1000). Le vittorie di questo doge avevano assicurato anche all' Istria la navigazione sull'Adriatico ed il commercio colla Dalmazia e coli'Italia meridionale; perciò radica-vasi sempre più negli Istriani la persuasione che soltanto dallo stretto accordo colla potente Repubblica, signora dell'Adriatico, poteva venir loro la protezione necessaria alla conservazione ed allo sviluppo del proprio commercio marittimo. Ogni accrescimento della potenza di Venezia nell'Adriatico, ed ogni [34] aumento dei suoi privilegi nelle provincie orientali, equivaleva ad un aumento d'influenza anche sulle città istriane.
Gli Istriani comprendevano la necessità di rimanere attaccati a Venezia, onde assicurarsene la protezione; e Venezia, alla sua volta, ne approfittava per stringerli maggiormente a sè, come aveva fatto per lo innanzi colle città della Dalmazia. Con questa differenza però, che mentre Venezia aveva spiegato contro quest'ultime tutta la propria energia, e si era servita anche della forza materiale per vincolarle a sè, malgrado fossero dipendenti dall'imperatore greco, non più temuto per la sua debolezza, circondavasi per l'opposto delle maggiori cautele nella sua azione verso le città istriane, siccome dipendenti dal potente imperatore tedesco, dal quale Venezia aveva tutto da temere, se non per mare, sicuramente almeno nelle sue relazioni continentali, particolarmente colle provincie dell'Alta Italia.
Questa differenza di rapporti fra l'uno e l'altro impero spiega anche il diverso modo di agire della Repubblica. La conquista della costa dalmata venne fatta da lei coll'impiego della forza, ed in uno spazio di tempo relativamente breve; l'acquisto delle città marittime istriane fu invece il frutto di due secoli di abile e conseguente politica, mai perduta d'occhio.
VII.
L'anno 1096, calamitoso per fame e per altri disastri che desolavano tutta la Venezia, fu anche l'anno della prima crociata.
Una parte dei crociati, quelli condotti dai conti di Tolosa e quelli del vescovo Ademaro di Puy, scelsero la via per l'alta Italia, ed attraversando la Lombardia ed il Friuli, giunsero ad Aquileia, donde continuarono il viaggio per l'Istria e la Dalmazia.
Qui torna in acconcio di rilevare il fatto che i crociati, appena giunti nella Dalmazia, si accorsero della presenza di una doppia popolazions, l'una dissimile dall'altra per lingua e per costumi. Trovarono, cioè, nelle città marittime una popolazione romana, e nell'interno genti d'origine slava e di costumanze ancor barbare. Queste genti, fuggite su pei monti all'avvicinarsi dei crociati, sbucavano dai loro boschi molestando in tutte [35] le guise l'esercito in marcia, costringendo i crociati a terribili rappresaglie. Nulla di tutto questo avevano veduto e sofferto nell'Istria: e questo prova che le condizioni della Dalmazia erano affetto diverse da quelle dell' Istria per nazionalità dei suoi abitauti, e per costumi. Dal che è lecito anche d'inferire che la lingua allora, parlata dagli Istriani era una sola per tutti, cioè la romana, e che i crociati non ebbero motivo di lamentarsi dell'accoglienza ricevuta dagli abitanti.
Se pensiamo che in pari tempo anche Venezia mandava nelle acque dell'Oriente una squadra di 200 legni sotto il comando del figlio del doge Vitale, Giovanni Michele, è lecito di ritenere che altrettanto vigoroso per la crociata fosse anche l'entusiasmo fra gli abitanti dell'Adriatico superiore, e che molti Istriani accorressero pure ad ingrossare le file dei militi della croce. E non per nulla tante città istriane portano ancora oggi l''insegna della croce sul loro stemma!
Siccome poi da oltre un secolo le navi istriane commerciavano sicure nelle acque della Dalmazia e dell'Adriatico inferiore, così erasi altresì lentamente affievolito nelle nostre città costiere il sentimento del bisogno della costante protezione e di una quasi permanente tutela su di esse da parte della Repubblica veneta.
S'aggiunga che, come nell'alta Italia, Così anche nelle città istriane manifestavasi l'aspirazione alla completa autonomia municipale, e la tendenza di affrancarsi da ogni dipendenza da predominio straniero. Questa era l'idea predominante di quel tempo, che, riuscita infine vittoriosa, diede nascimento e vita ai liberi comuni italici.
Ma a Venezia interessava di avere aperti i porti dell'Istria, e di scongiurare l'eventualità che il naviglio istriano si adoperasse contro di lei, perciò si teneva pronta ad approfittare di qualunque pretesto per imporsi colla sua potenza alle città istriane, e per sostituire in esse all'onoranza la fedeltà, al protettorato la signoria.
E ben presto si offerse l'occasione desiderata. Fossero velleità di indipendenza maggiore, più larga forse di quanto era gradito a Venezia, o fossero questioni d'indole commerciale o marittima, certo è che fra Venezia e le città di Capodistria, di [36] Isola e Pola devono essere scoppiate nel 1145 delle ostilità, se nel dicembre di quello stesso anno i rappresentanti delle or nominate città dovettero recarsi a Venezia, e quivi giurare sopra i santi Vangeli perpetua fedeltà vera e leale a San Marco, al doge P. Polano, a tutti i suoi successori, ed al comune di Venezia, come fossero esse altrettante città del dogado, obbligandosi per di più a rinnovare lo stesso giuramento all'elezione di ogni nuovo doge, come usavano le altre città venete.
Non possiamo seguire tassativamente, per i limiti che ci siamo imposti in questo scritto, altri avvenimenti, simili al succitato, che si sono seguiti in questo tempo; diremo soltanto che, come per le dette città, così è accaduto, sii per giù, anche per Rovigno, per Parenzo, Cittanova ed Umago.
Ora tali avvenimenti avevano offerto a Venezia novella occasione di fare un passo avanti verso l'assoggettamento dell'Istria, senza ledere, almeno in teoria, i diritti degli imperatori tedeschi e dei margravi, da' quali essa dipendeva. Venezia non solo aveva per sè ottenuto libertà di commercio in tutte le suddette terre istriane e completa esenzione da ogni dazio e da qualsiasi altro aggravio; non solo aveva imposto a Pola, come per lo innanzi a Capodistria, un proprio rappresentante che controllasse la puntuale esecuzione dei trattati, e fosse sempre presente nei tribunali e fuori, per proteggere i Veneziani da ogni angheria e sopraffazione; ma eransi rese altresì tributarie le città istriane con danaro o prodotti, e tutte poi soggette rispetto al naviglio, del quale Venezia poteva fare libero uso, qualora si guerreggiasse al di qua di Zara e di Ancona.
L'importanza che la Repubblica annetteva a codesti successi, ed alla conseguente subordinazione delle città marittime istriane, è comprovata dallo splendido trionfo con cui fu ricevuta a Venezia la squadra col Morosini e Gradonico, che ritornava vittoriosa dalle acque dell'Istria.
Il Navagero, nella sua Storia di Venezia, a. 1150, racconta che, assoggettate le città marittime istriane, il doge veneto aggiungesse agfi. altri suoi titoli quello di Dux totius Istriae.
E qui sta bene di notare che Venezia, raggiunto il suo scopo verso le città istriane, si studiò di risparmiare quanto [37] potè i cittadini, e di impedire che inutili crudeltà contro i prigioni, o la perdita dei beni e dei possessi, mantenessero negli Istriani uno strascico d'odio e di rancore contro il governo della Repubblica. Venezia non intendeva d'inalzare con la forza brutale Pedifizio della sua signoria sulle città marittime istriane. Trattò invece gli Istriani, anche durante la guerra, piuttosto da amici fuorviati, che da nemici.
È nota la guerra combattuta fra l'imperatore Federico Barbarossa e le città lombarde, decisa colla battaglia di Legnano il 19 maggio 1176. A quella guerra prese parte, a fianco dell' imperatore, anche il margravio d'Istria Bertoldo III degli Andechs colle sue genti.
I Veneziani, che si erano dapprima avvicinati ai Lombardi, accettarono poscia volentieri le parti di mediatori fra il pontefice Alessandro III e l'imperatore, e a Venezia avvenne il convegno, dove, addì 1 agosto 1177, fu firmata la pace. Vi erano presenti anche il vescovo Filippo di Pola, il vescovo Vernando di Trieste, il vescovo Pietro di Parenzo, e Giovanni arciprete di Pola, con numeroso seguito.
A questa pace fra l'imperatore e le città lombarde susseguì nel 1183 la pace di Costanza, che venne pure firmata dal surricordato margravio d'Istria Bertoldo III degli Andechs.
Gli Istriani ebbero parte, come credesi, agli avvenimenti che prepararono la vittoria dei Lombardi, e la conseguente pace del 1177.
Via via che Venezia rafforzava la sua potenza nella Dalmazia e nell'Adriatico inferiore, e migliorava le sue relazioni coi Normanni, anche le città istriane estendevano il proprio commercio marittimo e lo assicuravano con la stipulazione di speciali trattati di pace e di amicizia colle varie città della Dalmazia. Un esempio lo abbiamo nel trattato di pace firmato in questo periodo di tempo fra Rovigno e Ragusa, rinnovato poi nel 1188. Anche Pirano allargava i suoi commerci nell'Adriatico inferiore, ed era venuto a conchiudere un trattato di pace e di sicurtà con Spalato, rinnovato con speciale documento [38] il 4 aprile 1192. Queste due città si giuravano reciprocamente pace e sicurezza tanto nelle persone, quanto nel naviglio che arrivasse nel loro porto.
Anche Capodistria, che dopo il 1146 era stata sempre fedelissima a Venezia, seppe avvantaggiarsi della benevolenza del doge, attirando a sè il monopolio del commercio del sale che si faceva nella nostra provincia per la via di mare.
Pola, invece, che non poteva dimenticare il primato godute per tanti secoli nella provincia, non poteva rassegnarsi ad essere tributaria e vassalla di Venezia, e perciò di frequente si ribellava ai patti anteriormente stabiliti, per ritornare da capo, stretta dalle armi, alla soggezione.
Abbiamo anche il caso di guerre intraprese fra le stesse città istriane, per gelosie di predominio, o per rivalità nei commerci e nella pesca. Così la guerra fra Pirano e Rovigno nel 1207. Ai Piranesi si erano alleati i Capodistriani, ma poi i primi si staccarono dalla lega e mandarono il loro podestà, che teneva al tempo stesso l'ufficio di gastaldione, a conchiudere la pace, che venne firmata il 4 gennaio 1208.
VIII
Il periodo che intercede fra la metà del secolo X e quella del secolo XII sarebbe uno dei più interessanti per lo studio del rivolgimento avvenuto nelle condizioni interne dei municipi istriani, se si possedessero le fonti necessarie a seguirne le varie fasi. Ma pur troppo di questo periodo di tempo i documenti sono ancor più scarsi che nel precedente; e lo storico che vuole addentrarsi nella ricerca dei singoli fatti, si trova nelle condizioni di colui che ha in mano soltanto i due capi d'una lunga. catena, e deve dalla qualità di essi argomentare dello stato degli anelli intermedi.
Come si è detto, il secolo X segna nella nostra provincia la massima prevalenza del feudalismo. Questo però, si è vedute puranco, non è riuscito a spegnere tutte le precedenti istituzioni romano-bizantine, ne a togliere ogni partecipazione dei liberi cittadini alla vita pubblica. Laonde, non appena si rilassarono le ritorte del feudalismo, rinacque subito dagli avanzi [39] della municipalità romana il nuovo comune non per creazione, ma per evoluzione.
Vedemmo il popolo istriano eleggere i suoi scabini, i quali non solo erano centro e rappresentanza dei cittadini d'una singola città e tutori dei costoro diritti, ma costituivano anche la rappresentanza giuridica dell'intera provincia. Vedemmo inoltre i liberi abitatori delle città prender parte al potere giudiziario, assistendo ai giudizi e concorrendo al giudizio in qualità di assessori o di astanti, e firmare, come tali, i deliberati del placito giudiziario. Finalmente questi liberi cittadini vengono chiamati a giurare e a confermare i trattati conchiusi con Venezia, delegando all'uopo propri deputati; promettono annue onoranze al doge veneto; assicurano agli stranieri protezione nei possessi e nei coloni; stabiliscono le modalità da seguirsi nell'amministrazione della giustizia fra gl'indigeni ed i Veneziani; regolano la partecipazione delle gabelle; e persino dispongono a loro talento delle proprie forze di mare.
Dal premesso si può conchiudere, avere sperimentato l'Istria un feudalismo temperato, tale cioè, da lasciare alla cittadinanza una notevole libertà di azione in molta parte della vita municipale, nei giudizi, nei commerci, nelle imposizioni, e persino nel pronunciarsi sulla pace e sulla guerra.
Il grado di autonomia che trasparisce dai fatti su accennati è tanto notevole, che il Gfrörer, nella sua Storia di Venezia (e. 20) non esita punto di affermare che «i 58 egregi cittadini di Giustinopoli firmati a tergo del documento del 932, assieme ai 20 nominati nel testo, abbiano formato il gran consiglio di Capodistria».
A mantenere vivo ed operoso questo spirito di libertà e di autonomia nelle città istriane, molto concorsero anche le confraternite, le quali, istituite a scopo religioso sotto la protezione dei santi più celebrati, servivano in pari tempo ad avvicinare gli elementi omogenei, ed a stringerli fra loro, secondo che si presentava il momentaneo bisogno, nella difesa, od anche nella offesa. Lo spirito di associazione ereditato dal periodo romano, e di cui fanno fede i molteplici collegi allora esistiti, non si spense interamente nei secoli successivi, ma si trasformò, seguendo la corrente delle idee allora dominanti, in associazioni [40] religiose. Nel 1072 è ricordata dai documenti la confraternita di S. Giusto a Trieste, e nel 1082 la congregazione di S. Maria a Capodistria.
Si domanda ora: se tali erano le condizioni interne delle nostre città nel mezzo del secolo X, quale fu l'indirizzo da esse preso nel secolo susseguente? L'autonomia goduta sino allora doveva sempre più ampliarsi sino a raggiungere il completo autogoverno, oppure camminare a ritroso, e restringersi?
La continuità della popolazione senza mistura di elementi stranieri, è la prima condizione per la continuità delle istituzioni, e per la loro successiva evoluzione. Or bene, quel carattere nazionale romano, che si mantenne inalterato nei secoli precedenti, continuò a durare nella popolazione istriana anche nei susseguenti secoli XI, XII, XIII, XIV. Come nel secolo IX l'Istria non vide mutata la sua impronta nazionale dalle infeudazioni dei beni pubblici a nobili franchi, e dalle poche centinaia di coloni slavi pagani qui trapiantati dal duca Giovanni (poscia spariti o allontanati dal paese, o fusi nell'elemento preponderante); Così passò pure inosservata la presenza di quei pochi Slavi che nei secoli XI e XII, dalla vicina Carniola calarono lentamente ed alla spicciolata dalla Carsia, e si stabilirono qua e là nella campagna dell'Istria pedemontana. Il carattere nazionale dell'Istria, e quello in particolare degli abitanti delle città, rimase quale era per lo innanzi; e l'antico elemento cittadino romano continuò tranquillo la sua evoluzione, trasformandosi nel nuovo italico. E già di questi secoli noi possediamo dei preziosi cimeli del parlar volgare istriano, e documenti latini che lo ricordano (4). Ne poteva essere altrimenti, se Dante, poco tempo dopo, elenca nel suo «De Vulgari Eloquio» (lib. ib. ib. ib. ib. ib. I, cap. X) fra i dialetti d'Italia, anche quello dell'Istria.Istria.
Gli abitanti delle nostre città continuavano, dunque, a tramandarsi di padre in figlio, assieme alla lingua, le consuetudini degli avi, mentre più strette si facevano allora le [41] relazioni colla Romagna e con Venezia; colla Romagna, la culla del rinascente studio del diritto romano; con Venezia, la città dei grandi commerci e delle istituzioni popolari, continuo esempio ai nostri di vita nazionale e di autonomia politica.E di quanto queste relazioni colla riva opposta dell'Adriatico divennero più vive, d'altrettanto si allentarono quelle colla Germania, e coi paesi al di là delle Alpi. I margravi teutonici delle case Weimar-Orlamünde, degli Eppenstein, degli Sponheim, e degli Andechs, che ebbero in feudo dai sovrani tedeschi il nostro paese, occupati com'erano da cure ben maggiori, ed obbligati a risiedere altrove dai loro interessi dinastici, poco o nulla si curarono della nostra provincia, e rare volte durante il loro lungo governo si fecero qui vedere, od intervennero attivamente negli affari pubblici.
Se ora passiamo a considerare le modificazioni avvenute nelle singole magistrature, troveremo cessati dappertutto gli jcabìni, ed in loro luogo ricordati gli iudices. Che questi giudici delle città fossero ufficiali del comune, lo comprova anche l'esistenza documentata del comune, quale corpo autopolitico, già nella prima metà del sec. xn, e parimenti l'esistenza nelle città di uno speciale diritto consuetudinario civile e penale.
A Capodistria, nel trattato del 1145, troviamo ricordati i seguenti ufficiali pubblici: il gastaldo, il nodaro, il giudice, il popolo. La pace conchiusa con Venezia nel 1150 fu giurata per Rovigno dal giudice e da 17 altre persone; per Parenzo dall'arciprete, dal gastaldione e da altre 5 persone, ed in ambidue i luoghi per consensum omnium vicinorum maiorum atque minorum.
A Pola in calce del trattato dell'anno 1145 conchiuso colla repubblica di Venezia, sono firmati prima il conte, poscia il suo locoposito, quindi 11 persone fra le quali 2 giudici, e da ultimo l'niversus populus.
E probabile, ma non accertato, che nelle città istriane già formate a comune, a lato dell' assemblea di tutto il popolo (conciono, od arrengo come lo chiamavano) vi fosse anche esistito un consiglio ad imitazione di Venezia che nel 1172 riordinò il Gran consiglio, e istituì il Consiglio minore (la Signoria) nel 1178.
[42] Nel 977 si ricordano le decisioni degli habitantes (di Capodistria) divisi in maiores et minores — nel 1118 (a Parenzo) sono menzionati i concives nobiles — nel 1145 havvi (a Pola) il populus polisanus a maiore usque ad minorem — nel 1150 la stessa denominazione serve per i cittadini di Pola, mentre quelli di Rovigno e di Parenzo si scrivono vicini maiores et minores.
Quando l'autorità dei vescovi, o dei conti, venne ristretta a vantaggio del comune, e passò di fatto, se non di diritto, alle città presso che tutto il potere da quelli esercitato; quando i vari ceti sociali e le singole maestranze si strinsero fra loro in altrettante corporazioni; e quando all'indipendenza a poco a poco acquistata, si aggiunse la chiara coscienza e la decisa volontà di libero reggimento, allora si senti anche il bisogno di riorganizzare la magistratura comunale colla creazione dei consoli, ad imitazione del grande modello: Roma.
V'erano due specie di consoli: i constiles communis ed i consules de placitis causarum. Tutti e due avevano parte del governo generale del comune; ma mentre ai primi era più particolarmente affidata l'amministrazione nello stretto senso della parola, i secondi, per il loro speciale istituto, curavano di preferenza la giurisdizione civile. Motivo per cui anche più tardi li vediamo sussistere a fianco del podestà succeduto al posto dei consoli e del comune.
Coll'istituzione dei consoli, il potere giudiziario, sino allora affidato ai giudici, venne a concentrarsi nelle loro mani. Però i giudici rimasero, ma quali giurisperiti consiglieri dei consoli, poichè questi giudicarono sempre sentito prima il loro parere.
Un passo innanzi nell'ordinamento del comune si fece colla creazione del podestà, che venne ad occupare il posto tenuto sino allora dai consoli del comune, conservando però i consoli di giustizia (ossia i giudici civili) nell'esercizio delle loro funzioni. Coll'aggregazione dei poteri in una sola persona, si volle evitare i danni che frequentemente risultavano dalle viste discordi di più consoli, aventi le stesse attribuzioni di potere.
A seconda dei tempi e dei luoghi, il podestà o era eletto dall'imperatore, o dal principe del paese, oppure spettava a [43] questi soltanto la conferma, mentre l'elezione era lasciata ai cittadini.
Il trentennio dal 1150 al 1180, come per l'alta Italia, cosi anche per l'Istria, è il periodo in cui gli ordinamenti dei comuni si riorganizzano, si regolano e si determinano definitivamente.
Così i documenti del 1186 ci mostrano il comune di Capodistria pienamente organizzato e rappresentato dal podestà e da 4 consoli.
Sei anni più tardi, cioè nel 1192, è documentata anche a Pirano la costituzione a comune col podestà e coi consoli. L'egual cosa, nel 1194, la troviamo a Parenzo; nel 1199 a Pola, e così via.
Nelle funzioni propriamente governative, il podestà era dovunque assistito da un consiglio di assessori, senza il cui voto egli non poteva prendere veruna deliberazione di rilievo. A questo consiglio minore, o di governo, aggiunge vasi uno pia numeroso, il consiglio del popolo, il quale veniva convocato per tutti gli affari più importanti, cioè per l'intimazione della guerra e per la conclusione della pace, per oggetti di legislazione, per determinare le imposte e le tasse, per eleggere i consoli, il podestà, e simili. Di rado si convocava la radunanza dell'intero popolo ad un Così detto parlamento (concione e arengo), e solamente per la pubblicazione di nuove leggi o di importanti deliberazioni, per le quali si voleva essere certi del suffragio universale, per l'installazione dei nuovi magistrati, ecc.
Nell'Istria la partecipazione dell'assemblea del popolo agli avvenimenti di maggior rilievo sia nell'epoca romana, sia durante lo stesso periodo feudale, o in quello della massima autonomia comunale, ci è comprovata da numerosi documenti storici, che qui sarebbe troppo lungo anche di citare.
Dai documenti si deduce ancora che le città erano divise in varie classi, cioè: nei nobili (coi milites, ministeriali e cogli arimanni) compresi, assieme agli scabini di prima, ai giudici di poi, ed agli altri preposti al comune, nel titolo più generico di cives maiores; restando a tutti gli altri cittadini quello di cives minores.
In progresso di tempo, questa divisione perdette però [44] ogni pratica importanza. Sempre gli stessi documenti ci fanno conoscere pur anco le arti maggiormente esercitate nelle singole città, alcune delle quali erano costituite in maestranze, con propri maestri.Un fattore principale di autonomia dei comuni, d'importanza pari all'esercizio indipendente dalla giurisdizione, si fu la legislazione statutaria. Allorquando al comune riuscì di riunire in un fascio i vari ordini sociali sino allora rimasti divisi, si raccolsero pure i diversi diritti personali in un solo e comune diritto statutario, valevole per tutti gli abitanti del comune e del territorio. Questo diritto, consuetudinario sino allora, ed usato particolarmente nei giudizi dagli assessori, venne ora codificato in forma precisa, ed ebbe forza di legge statutaria.
Di un diritto codificato, di uno statuto nel vero senso della parola, si fa menzione per la prima volta a Capodistria in due documenti del 1238 e 1239, ed a Pola in altro documento del 1264. Epperciò appare evidente che anche nell'Istria la compilazione degli altri statuti coincidesse colla surrogazione del podestà ai consoli, cioè quando emerse il bisogno di affermare meglio le proprie antiche consuetudini giudiziarie di confronto al podestà forastiero, succeduto nella giudicatura ai consoli, giudici concittadini.
Se noi aggruppiamo ora tutti questi fatti e li completiamo secondo che l'uno serve di prova o di corollario all'altro, dobbiamo concludere che le nostre città raggiunsero il massimo grado di autonomia negli ultimi decenni del sec. XII, nel tempo in cui la provincia fu retta dagli ultimi margravi degli Andechs-Merania: indifferente poi se tale autonomia sia derivata dalle concessioni ottenute, o dalle usurpazioni commesse. E tanto forte era nelle nostre città il sentimento della propria autonomia, e tanto alta la coscienza della propria dignità, che esse trattavano col patriarca di Aquileia, quando divenne loro signore temporale, non già come sudditi inverso il principe, ma da pari a pari, da potenza a potenza.
Coll'infeudazione del patriarca Volchero, avvenuta nel 1209, comincia per l'Istria un nuovo periodo di storia, il quale rappresenta per i nostri comuni quasi un periodo di traviamento, [45] in cui continue si fanno le lotte tra i comuni stessi ed i patriarchi, i primi per difendere od ampliare l'autonomia già acquistate, i secondi per limitarla al più possibile. Erano le vicende di tutti i comuni italiani, ne i nostri cessarono di esser tali, neppure quando, caduta la Repubblica dopo cinque secoli di dominazione, fummo aggregati ad un impero che non era più nazionale.
L'assoggettamento dei nostri comuni a Venezia, compiutosi interamente nel 1420, pose fine al su detto periodo di transizione.
M. Tamaro.
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