di Carlo Schiffrer
L'autore esamina l'evoluzione dell'insediamento degli slavi sull'altopiano carsico di Trieste e si sofferma sul contributo dato dall'amministrazione italiana negli anni tra il 1920 e il 1945 allo sviluppo di molti centri della regione modificandone l'assetto preesistente, la condizione statica esistente e determinante la nascita di centri comunali più consolidati e più razionali. Continuarono a migliorare senza sacrificare gli interessi della popolazione locale, ma da questo miglioramento vennero solo vantaggi. Vengono inoltre esaminate le condizioni economiche, la formazione di nuclei di popolazione italiana nei centri geograficamente più posizionati, il miglioramento demografico e costruttivo, soprattutto a Postumia, a Villa del Nevoso, a Castelnuovo, ecc.
Un contributo che riteniamo positivo alla soluzione del problema dei rapporti italo-jugoslavi può essere cercato, oltre tutto, nella revisione critica di quelli che appaiono obiettivamente i risultati più salienti della nostra amministrazione nella zona contestata. Aspetto questo che ha anche un interesse geografico, in quanto serve a spiegare l’evoluzione avvenuta nel popolamento slavo delle regioni rimaste sotto amministrazione italiana per oltre un quarto di secolo; evoluzione che non si potrebbe altrimenti comprendere, e che pone all’osservatore tutta una serie di interessanti conclusioni.
Mi sono trovato in una posizione particolarmente felice per poter abbozzare un lavoro del genere, avendo potuto disporre di abbondantissimi materiali di prima mano conservati nell’Archivio della Prefettura di Trieste. In più ho potuto raccogliere molte altre notizie precise, mediante un questionario sottoposto alle persone che meglio erano in grado di conoscere le varie situazioni locali, come segretari comunali, medici condotti, ecc. (1). Questo materiale, o almeno quanto di esso può interessare gli studi geografici, cerco ora di sintetizzarlo qui.
Il quesito al quale mi propongo di rispondere ed il filo conduttore più propriamente geografico, al quale mi propongo di attenermi in questa sede, è il seguente: i paesi a tipico popolamento rurale slavo nella Venezia Giulia, e cioè il bacino montano dell’Isonzo e gli altopiani carsici, prima del 1918 avevano una loro fisionomia geografica, derivante da quel tanto di caratteristico che ciascun popolo imprime alla terra; avevano una loro economia, un sistema amministrativo; la popolazione aveva il suo «genere di vita» caratteristico e tradizionale. Tutto ciò ha subito mutamenti per effetto dell’unione allo Stato italiano? E quali mutamenti ci sono, stati nel sistema amministrativo, nella situazione demografica, nella vita economica? Che cosa ne ha ricavato la popolazione locale? E le modificazioni hanno determinato fatti spaziali suscettibili di rappresentazione cartografica?
La zona che è oggetto del mio studio, pur essendo situata nel versante interno delle Alpi ad immediato contatto con quello che possiamo chiamare il mondo italiano, come s’è detto presenta i caratteri tipici del popolamento rurale slavo. Ancora quaranta o cinquant’anni fa chi, lasciandosi alle spalle i centri italiani di Trieste o di Gorizia, si affacciava agli altopiani carsici, oppure si addentrava nella valle dell’Isonzo o in quella del Vipacco, per decine e decine di chilometri si imbatteva in null’altro che in una monotona serie di villaggi, tutti più o meno simili tra loro: piccoli e poveri villaggi, i quali davano l'impressione di essere sorti dall’accostamento fortuito, e spesso disordinato, di case rurali. In poche plaghe dal suolo marnoso arenaceo ap parivano pure le case sparse nei campi intorno al villaggio.
Negli edifizi in genere è evidente l’infiusso della vicina area culturale italico-veneta, Il tipo della casa rurale — pur con qualche parti colarità locale nella struttura dei muri perimetrali e del tetto — non si presenta sostanzialmente diverso dai vicini tipi italici della pianura. Soltanto quando si giungeva nei distretti che amministrativamente appartenevano alla Carniola si trovavano le prime case rurali di tipo al pino-orientale, per lo più col tetto di paglia, di tipo e di struttura del tutto diverse dalle precedenti (2).
Pure la chiesa di ogni villaggio ricorda quasi dovunque le forme costruttive di tipo italico, e forme venete — seppure impoverite e per così dire imbarbarite — presentano soprattutto i campanili. Altri edifizi che in qualche modo si distinguessero dall’aggregato delle case rurali erano un’eccezione: qualche povera scuola e la sede degli uffici nei pochi centri amministrativi.
Ma, mentre i vari edifizi, e soprattutto quelli costruiti con intenti architettonici, ci fanno pensare alle vicine regioni italiane, la struttura topografica di questi villaggi e delle loro terre se ne scosta del tutto. Nei terreni coltivati nulla che ricordi la sapiente spartizione geometrica del suolo, caratteristica del mondo rurale italiano. Sul terreno carsico vero e proprio, ovviamente, si possono coltivare solo fondi di doline o tratti di terreno che hanno una forma determinata dalla natura; però anche dove il terreno si sarebbe prestato a una spartizione geometrica, come sulle sommità spianate delle zone marnoso arenacce, si notano per lo più tratti coltivati di forma irregolare, spesso allungatissima e, - sì direbbe, non delimitata da chiari confini di proprietà.
Anche l’esame attento di una carta topografica di scala conveniente ci colpisce per una serie di considerazioni caratteristiche. Il villaggio carsico, ad esempio, pur nell’aggregato confuso delle case rustiche, presenta all’ingrosso una pianta circolare od elittica, dalla quale si diparte una raggera di strade a fondo naturale, dall'andamento incerto. Le grandi strade moderne, dal tracciato artificiale e rettilineo, evitano il villaggio, o passano nei pressi. Nei paesaggi collinari delle zone marnosoarenacee il villaggio si allunga sui pendii o più spesso sulle spianate delle zone culminanti, le quali sono percorse pure dalla vecchia viabilità locale ed evitate dalle grandi arterie moderne. Dovunque, insomma, il villaggio slavo ci appare come un piccolo organismo appartato e chiuso in sè stesso; ci appare, per così dire, come un relitto topografico di epoche passate e di economie passate, rimasto ai margini della vita moderna.
Un’impressione non molto diversa la ricaviamo dai vecchi censimenti. Scorrendo le pagine degli Ortsrepertoriums austriaci, ci accorgiamo che quei villaggi oscillano per lo più tra poche diecine e qualche centinaio di abitanti, e che solo eccezionalmente raggiungono i 500. I centri maggiori, mercati locali o sedi di fiere, oppure anche centri amministrativi di «distretto» (sottoprefetture) o di mandamento, stanno tutti fra i 700 ed i 1000 abitanti; essi non si distinguono dagli altri come aspetto complessivo e come edilizia e, quel che più conta, non denotano mai, col trascorrere degli anni, uno sviluppo demografico che accenni alla loro trasformazione in un embrione di città.
Sul Carso, per esempio, nei quattro decenni che corrono tra il censimento del 1869 e quello del 1910, Sesana, capoluogo di «distretto» e sede di una fiera periodica di bestiame, aumenta di un centinaio di abitanti fino ad avvicinarsi — comprendendo la guarnigione — ai 1200; Còmeno, capoluogo di mandamento, passa da 780 a 860 abitanti. Nella zona prealpina ed alpina, dove la popolazione si raccoglie in centri un po’ più consistenti, Tolmino passa da 950 a 1000 abitanti, Circhina da 990 a 1060; Plezzo nello stesso periodo presenta addirittura una diminuzione.
L'unica eccezione degna di nota è quella di Aurisina, nodo ferroviario e centro di industria della pietra, la quale passa da 879 abitanti a oltre 2200; ma al suo incremento, connesso con l’attività industriale, contribuiscono in misura notevole elementi estranei al mondo dei villaggi slavi, e soprattutto gli italiani, che troviamo presenti nel censimento del 1910 in misura di quasi un quinto della popolazione totale.
E non molto diverse sono le conclusioni che siamo obbligati a trarre se, nelle pagine degli Ortsrepertoriums, consideriamo le varie circoscrizioni territoriali, anziché l'individualità dei centri abitati. Tranne alcune plaghe geograficamente più favorite, come la vallata del Vipacco, il resto del territorio carsico o montano non denota variazioni sensibili di popolazione, Nelle zone più povere di risorse, anzi, come, ad esempio, sul Carso di Còmeno o nella zona propriamente alpina dell’alto Isonzo, la curva della popolazione denota già al principio del secolo la tendenza alla discesa.
Quello dei villaggi slavi, insomma, ci appare come un mondo statico, il quale nel suo interno ha scarse o punte possibilità di evoluzione o di sviluppo proprio.
E prima di abbandonare gli Ortsrepertoriums ancora un'osservazione. La stessa impressione di staticità la ricaviamo pure dall’esame delle minori circoscrizioni amministrative dei comuni. Di decennio in decennio si ripetono sempre gli stessi nomi degli stessi comuni, suddivisi nelle stesse frazioni. Mai un cambiamento che appaia dettato o da un mutamento della situazione di fatto o da ragioni di opportunità. E ciò sebbene le circoscrizioni comunali appaiano quanto mai varie ed eterogenee. Ci sono infatti dei comuni relativamente ampi, comprendenti vari villaggi e con una popolazione complessiva di qualche migliaio di abitanti, e ci sono, all’opposto, comuni minimi, limitati magari ad un solo villaggio, e che raggiungono appena i 200 o 300 abitanti. Un organismo amministrativo, insomma, che non può trovare nel suo interno i mezzi finanziari per essere vitale ed esercitare una funzione utile.
A quanto ammontava la popolazione complessiva di questi villaggi ? Alla vigilia della prima guerra mondiale in tutto il versante al di qua delle Alpi, tra la Dragogna in Istria, il Castelnovano, il bacino montano dell’Isonzo e il Postumiese troviamo — all’infuori beninteso delle città italiane — una popolazione di quasi 250 mila abitanti, distribuita per più di tre quarti in quella circoscrizione amministrativa che ufficialmente era denominata Litorale Austriaco, per il rimanente nei «distretti» di Idria e Postumia, che appartenevano alla Carniola. La popolazionie relativa si manteneva a livelli piuttosto bassi, ma nonostante ciò male proporzionati alle risorse effettive del suolo. Nella zona alpina troviamo 15 abitani per Kmq; in quella prealpina tra i 45 ed i 50; in qualche plaga carsica più favorita si arrivava ai 75; eccezionalmente, nella fertile vallata del Vipacco, si toccavano i 100 per Kmq.
L'origine storica di questo mondo — la quale del resto spiega pure il suo aspetto e le sue caratteristiche geografiche — va cercata in epoche ormai lontane. I caratteri principali di questo popolamento si delineano nell’epoca feudale.
Nei patrimoni feudali il villaggio era un’unità economica elementare, era la sede di un gruppo di famiglie contadine che davano valore a un certo complesso di terre. Il signore vi esercitava i poteri di governo. Al di sotto dei poteri del signore non esisteva altra organizzazione sociale che un embrione di comune rustico, o piuttosto di comunità di villaggio, già descritta mirabilmente dal nostro Kandler (3).
L’organo deliberante collettivo del villaggio era rappresentato dall'assemblea dei capi famiglia, che si raccoglievano sotto il tiglio davanti alla chiesa. Costoro prendevano le decisioni di massima ed eleggevano il capo della minuscola comunità, lo Zupan, ed i suoi due assistenti. La carica di zupan però tendeva a perpetuarsi in una famiglia del villaggio, e ciò spiega il costituirsi di clientele personali o familiari, le quali hanno rappresentato una caratteristica della vita politica di queste regioni, pervenuta fino a noi. L’amministrazione della comunità si riduceva a risolvere piccole liti tra i contadini, a mantenere la cisterna e il forno. Non scuole, non assistenza, non stato civile od altro, che, entro i limiti angusti resi possibili da un'economia e da una vita sociale rudimentale, fino al sec. XVIII, rimasero, come altrove, attribuzioni della chiesa.
A questa vita locale conservatasi per secoli, il governo austriaco, nel secolo scorso, aveva sovrapposto un’amministrazione comunale moderna, però senza rifondere ex-novo i vari organismi territoriali, anzi spesso lasciando sussistere le vecchie circoscrizioni di villaggio. Per di più, nel sistema amministrativo austriaco la Chiesa mantenne alcune delle funzioni che la legislazione italiana attribuisce a organi civili.
Insomma, nessun rivolgimento profondo venne a mettere in movimento questo mondo rurale. La stessa rivoluzione capitalistica moderna vi portò riflessi indiretti, in quanto si fece sentire principalmente in pochi centri urbani, marginali rispetto al territorio che è oggetto del nostro studio, e che non erano slavi. Infatti, non solo i centri urbani del versante interno erano italiani, ma, nel cuore stesso della Carniola, Lubiana, cent'anni fa, era più tedesca che slava. Sul finire del secolo scorso nei villaggi cominciò a penetrare qualche elemento sociale nuovo, rappresentato dal maestro, o più raramente dal medico e dal farmacista, ma in nessun centro riuscì a svilupparsi una classe bonghese produttiva e intraprendente. La massa della popolazione locale continuò ad essere rappresentata da contadini, da pastori, da boscaioli.
Alla fine della prima guerra mondiale questo mondo fondamentalmente pigro e statico si trovò incorporato nello Stato Italiano.
In sede geografica non è il caso di prendere in esame le reazioni d'ordine politico che si determinarono, come sempre in simili casi, per effetto del nuovo ordine di cose. All’annessione non poteva non tener dietro un più o meno lungo periodo di assestamento, che trovava ostacolo nella reciproca incomprensione, ma che andrebbe caso mai esaminato in sede storica o politica, e che ad ogni modo si chiuse senza nessuna crisi di eccezionale portata.
Quanto agli effetti che l’amministrazione italiana ebbe nella vita dei villaggi slavi, è necessario cominciare col rivolgere la nostra attenzione all'opera degli amministratori. I funzionari italiani che sì trovarono a contatto più immediato con gli organi locali — i sottoprefetti, ì commissari civili presso i comuni, ecc. — dopo aver preso conoscenza di questo mondo così diverso da quello cui erano assuefatti nella loro esperienza amministrativa, si accorgono che molte cose son da rifare, soprattutto per allineare le amministrazioni comunali con le esigenze della legislazione italiana. I loro rapporti ai prefetti ed alle autorità centrali sono interessanti e rivelatori sotto questo riguardo.
La legge comunale italiana impone ai comuni compiti nuovi e più vasti di quelli della cessata amministrazione austro ungarica; ad esempio, lo stato civile in Austria era ancora attribuzione delle parrocchie. E più complessi erano gli obblighi in fatto di assistenza e di istruzione. I comuni carsici ed alpini sono spesso troppo piccoli e troppo poveri per potersi attrezzare a sostenere questi nuovi oneri. Da ciò la necessità di procedere a una rifusione delle circoscrizioni comunali e ad aggregazioni, anche coattive, intorno ai comuni maggiori.
Nel 1921 c'erano nella Venezia Giulia 251 comuni, alcuni piccolissimi, al di sotto dei 200 abitanti, ed una trentina al di sotto dei 500; una buona metà (180) stavano tra i 500 e i 2000 abitanti. Dieci anni più tardi, entro lo stesso territorio ce n’erano 184, con una riduzione di 117! Però se pensiamo che le regioni a popolamento italiano della Venezia Giulia, come ad esempio l’Istria, poterono mantenere intatta la loro struttura amministrativa più armonica, ci accorgiamo che la riduzione del numero dei comuni riguarda esclusivamente le zone di popolamento slavo. In queste i comuni passarono da 170 a 683!
Questo riordinamento si rivelò utile sotto molti riguardi. Le nuove circoscrizioni ebbero maggiore uniformità, maggiore organicità e pure più ampie possibilità finanziarie. Così, man mano che ebbero pratica attuazione le disposizioni della legge comunale italiana, e soprattutto quando incominciarono ad arrivare nuovi segretari comunali scelti per concorso e più capaci, si ottenne pure un'efficienza complessiva maggiore. La popolazione locale cominciò a godere di un complesso di servizi più moderno, più completo e migliore del precedente.
Ogni comune provvide all'impianto dell'anagrafe e dello stato civile della popolazione. Il servizio sanitario ebbe un impulso fortissimo; ad esempio, per i 20 mila abitanti dei due mandamenti di Senosecchia e Postumia, sotto l’amministrazione austriaca, il servizio sanitario veniva esplicato da un unico medico statale e da un libero professionista. L’amministrazione italiana vi creò tre condotte mediche consortili per i nove comuni, mentre poterono esplicare l’attività di liberi professionisti altri due medici e due odontoiatri. Ciascun comune ebbe la propria condotta ostetrica, ed il comune di Postumia ne ebbe due. Nei sette comuni carsici della Provincia di Fiume (29.000 abitanti) le condotte mediche passarono da 8 a 7 e le condotte ostetriche da 5 a 16. L'ospedale di Postumia fu ingrandito e migliorato notevolmente. I consorzi antitubercolari provinciali e l'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia istituirono i loro servizi assistenziali, prima del tutto sconosciuti.
Altro aspetto notevolissimo è quello delle opere pubbliche eseguite con fondi statali, oppure con contributi statali. Per quanto concerne i il rifomimento idrico, molti comuni ebbero migliorati o rinnovati acquedotti rudimentali esistenti, oppure ne ebbero di nuovi. Le zone più povere d’acqua, come il Carso di Castelnuovo, furono allacciate all’acquedotto istriano. E lo stesso si può ripetere per le fognature.
Pure l’edilizia scolastica ebbe un aumento notevolissimo; ad esempio, nel comune di Castelnuovo gli edifizi scolastici passarono da 5 a 15; quattro nuovi edifizi per ie scuole elementari furono costruiti nelle frazioni del comune di Postumia; e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Se qualcuno volesse osservare che queste opere erano in parte determinate da necessità proprie dello Stato italiano e che alcune di esse potevano anche obbedire ad elementari esigenze d’ordine militare, non si potrebbe comunque, pur con una simile riserva, che resta da provare caso per caso, sopprimere la realtà di un fatto, che cioè le opere furono costruite, che la popolazione locale se ne avvantaggiò, prima fornendo la mano d’opera, e in definitiva giovandosi di quanto era stato fatto.
Né va dimenticato che questo miglioramento generale dei servizi
lo si ottenne senza imporre sacrifizi di rilievo alla popolazione locale. Dopo il 1930, quando il nuovo sistema cominciò a funzionare in pieno, benché si fosse in periodo di crisi economica su scala mondiale, i bilanci dei comuni carsici e montani erano sani senza sforzo; la principale voce di entrata era rappresentata dalla imposta sui consumi, la quale per la sua natura cadeva in proporzione maggiore sui nuclei borghesi italiani di recente immigrazione, mentre la sovrimposta sui terreni e sui fabbricati era al primo limite.
Ma con ciò si entra in un altro argomento fondamentale del nostro studio: l’economia dei villaggi. In questo campo non è necessario nemmeno riportarsi ai rapporti d’ufficio esaminati — pur interessanti sotto molti riguardi — per dare un’idea di quella che era l'economia locale di gran parte del territorio carsico ed alpino all'indomani della prima guerra mondiale. Coloro che hanno conosciuto le desolate lande carsiche, oppure le pareti rocciose dei colossi alpini e il fondovalle stretto e ghiaioso dell’Isonzo, si sono resi conto agevolmente che, nel complesso, si tratta di zone poverissime per natura e che sono destinate a rimanere tali.
Il più delle volte i prodotti agricoli locali non bastano ai bisogni degli abitanti; la popolazione è in eccesso rispetto alle risorse del paese e può mantenere le densità relativamente elevate, che conosciamo, solo in grazia dell’esistenza dei grossi centri urbani italiani della costa o della pianura. Questi, infatti, consumano ì prodotti del magro allevamento, la legna dei boschi, spesso alimentano un piccolo turismo domenicale o stagionale, ma soprattutto rappresentano, per gli abitanti dei villaggi, i grandi mercati di lavoro dove si va a prestare la propria opera — poco qualificata — in forma permanente, o semipermanente, o anche stagionale ed occasionale.
Tutta la zona carsica e montana della Venezia Giulia a partire dal sec. XIX aveva alimentato un’emigrazione molto intensa. La consuetudine locale voleva che il minuscolo capitale rappresentato dal patrimonio familiare non fosse suddiviso fra i figli, ma passasse indiviso al primogenito, e che i cadetti abbandonassero il luogo natio in cerca di lavoro. L’urbanesimo moderno, sempre più intenso, permise che questi rivoletti migratori si riversassero principalmente verso le città periferiche, sia verso quelle italiane ad occidente, sia verso i centri della Carniola e della Croazia, ad oriente. Sul finire del sec. XIX e nei primi anni del nostro si ha pure un’emigrazione transoceanica abbastanza intensa verso il Nord America.
Questi fatti spiegano perché già al principio del secolo — generalmente fra il censimento del 1900 e quello del 1910 -in alcune plaghe la curva della popolazione accenni ad una discesa. Il fenomeno, noi lo sappiamo per gli esempi di molti altri paesi consimili, era destinato ad intensificarsi in ogni caso; per di più esso fu aggravato dalla crisi della prima guerra mondiale.
Dopo la guerra lo spopolamento si accentuò. Dapprima l’emigrazione si diresse ancora verso le città periferiche e verso gli Stati Uniti; dopo le leggi restrittive in questo paese ci fu una corrente migratoria verso gli stati sud-americani; dalle zone boscose molti taglialegna si diressero verso l'Australia; quando il nuovo stato jugoslavo incominciò a valorizzare le riechezze minerarie e forestali della Bosnia, da alcune plaghe un filone migratorio di una certa importanza si diresse pure verso quella regione.
Nel quarto di secolo che corre tra il censimento del 1910 e quello del 1936 in gran parte dei comuni carsici e montani la popolazione è diminuita considerevolmente. Le diminuzioni più forti — tra un quarto e un quinto della popolazione — le troviamo generalmente proprio nelle parti più desolate degli altopiani carsici (Carso di Comeno e Carso di Castelnuovo); il comune di Senosecchia registra addirittura una diminuzione pari a quasi due quinti della popolazione originaria.
Giova sottolineare che questo è un fenomeno esclusivamente economico, il quale non sta in nessun rapporto di causalità con fatti d’altro genere, neppure d'ordine politico. Gli slavi giuliani che preferirono abbandonare la Venezia Giulia per ragioni politiche furono pochi intellettuali e pochi dirigenti politici o sindacali, mentre la massa della popolazione agricola non si lasciò smuovere. Tanto è vero che, mentre le parti più povere di risorse — come s'è detto — andavano spopolandosi, altre zone a popolamento slavo vedevano invece aumentare considerevolmente il numero degli abitanti.
Sono queste ultime, in genere, le parti più ricche di risorse e che, nel complesso del territorio carsico e montano, si possono considerare come privilegiate: la vallata del Vipacco, la conca di Postumia, la conca dell'alto Timavo, ai piedi del Monte Nevoso. La vallata del Vipacco è una delle zone più fertili e meglio coltivate di tutta la regione; a settentrione di essa si estendono le ricchissime «selve» di Tarnova e del Piro. Il Postumiese è una conca di terreni fertili, suscettibili di una agricoltura sempre più ricca e più intensiva, circondata da montagne A coperte da un magnifico ammanto forestale. E le stesse parole si possono ripetere per l'alto Timavo, ossia per la conca di Villa del Nevoso.
Ora proprio queste zone, già privilegiate per natura, nella nuova sistemazione politica vennero a trovarsi avvantaggiate per una duplice serie di circostanze. Anzitutto esse si trovarono ad essere incluse nei confini politici e doganali di un mercato estremamente povero di risorse forestali. Perciò la loro principale risorsa economica poté essere sfruttata con un’intensità del tutto ignota nell’epoca precedente, quando esse si trovavano, all’opposto, in uno stato ricco di zone forestali concorrenti e per di più meglio situate e meglio attrezzate per i trasporti e per lo sfruttamento. Il vantaggio che ne ricavò la popolazione locale fu notevolissimo.
«Prima dell'annessione della Venezia Giulia all’Italia, nella zona di Postumia non c'erano che due piccole segherie nella stessa Postumia, una a S. Pietro del Carso ed una a Baccia; alcune altre segherie erano situate presso corsi d’acqua, ma erano del tutto insignificanti ; soddisfacevano esclusivamente i piccoli bisogni edili della popolazione locale. Scarso era l’impiego di manodopera. Per quanto riguarda i tronchi, di solito il legno veniva squadrato con l’ascia e trasformato in travature.
Dopo l’unione all’Italia l'amministrazione forestale dei Principi di WindischGraetz (più tardi Società Sicla-Sclabsa) che possedeva circa 10.000 ettari di bosco nel Postumiese, tratta dalla richiesta del mercato italiano, stabilì un piano di sfruttamento razionale dei suoi boschi, creando una nuova segheria ed una rete stradale nei suoi boschi. Al principio del 1919 detta amministrazione non possedeva che una segheria con seghe multilame presso Villa Caccia. Nel 1920 fu costruita una grande segheria a S. Canziano presso il Rio dei Gamberi; nel 1922 un'altra grande segheria a Postumia presso la stazione ferroviaria; nello stesso anno una identica a Oblisca di Postumia.
Nel 1934 fu costruita una modernissima segheria a S. Pietro del Carso con 3 seghe multilame ed una modernissima fabbrica per il legno compensato. Si comprende da sé quanto vantaggio ne ebbero le popolazioni di Postumia, di S. Pietro del Carso e dei comuni vicini.
Per rifornire razionalmente coi tronchi tali impianti industriali, che lavoravano ininterrottamente, la predetta amministrazione ha costruito più di cento chilometri di strade camionabili larghe cinque metri e sempre tenute in ottime condizioni. Con tali strade era facilitato l'accesso ai boschi ed il trasporto dei tronchi con camion e carri.
Le nuove strade nelle diverse zone boschive della Selva di Piro e fino alle falde del Monte Nevoso furono di grande utilità anche all'intera popolazione, perché esse attraversavano frazioni abitate e si collegavano colle poche arterie di viabilità di una certa importanza.
Così trovarono costante occupazione 350 operai nelle segherie, 180 boscaioli, 160 carrettieri con una coppia di cavalli da traino ciascuno. Ciò voleva dire che era assicurato il pane ad una popolazione di circa 5.000 persone (ossia tutto il Comune di Bucuie, buona parte dei Comuni di Postumia, Cernovizza, S. Pietro del Carso). Tutti questi lavori venivano eseguiti totalmente dalla popolazione slovena che ha potuto in tale maniera migliorare il proprio tenore di vita e godere i benefici delle varie leggi sociali di previdenza ed assistenza sanitaria (I. N. P. S. ed I. N. A. M.) per sé e per i congiunti.
Altrettanto fu fatto all’incirca nella zona di Villa del Nevoso dall’amministrazione forestale dei Principi di Schoenburg-Waldenburg e ad Aidussina. Attorno a questi grandi e razionali impianti industriali, crebbero minori aziende: due segherie a Rodocovas, una segheria e fabbrica di parchetti a S. Pietro del Carso, una grande fabbrica di tranciati a Prestane, un’altra segheria e fabbrica di parchetti a Prestane, una grande segheria a Coritenza presso S. lietro del Carso, una segheria a Landolo.
Il patrimonio forestale non veniva impoverito dall'enorme fabbisogno di tronchi per tali impianti, ma anzi si migliorava con accorte coltivazioni nelle sezioni dove erano eseguiti gli abbattimenti d'alberi. Con tali procedimenti si arrivò ad aumentare l'accrescimento annuale del legno». (4).
Il secondo grande vantaggio di cui vennero a beneficiare per l’appunto le medesime zone della Venezia Giulia derivava dalla stessa situazione geografica. Aidussina, Postumia e Villa del Nevoso, come pure Tolmino, Circhina, Prestane, S. Pietro del Carso, Castelnuovo e Clana, vennero a trovarsi proprio a ridosso del nuovo confine, dove per forza di cose dovette cercare la propria sede tutto l’apparato di sorveglianza militare, politica e doganale della nuova frontiera, nonché l’organizzazione amministrativa, giudiziaria e ferroviaria del paese.
Tutte queste zone, come le altre parti montane della Venezia Giulia, avevano alimentato sempre una notevole emigrazione. Dopo il 1920, invece, lavori pubblici ed attività private vi aumentarono fino al punto che non solo tutta la popolazione locale ebbe larga possibilità di trovare occupazione, ma ci fu una notevole immigrazione sia dalle plaghe viciniori sia dalle altre regioni d’Italia. I censimenti dal 1921 al 1936 dimostrano che quasi tutti i comuni a ridosso della frontiera aumentano più o meno di popolazione e che quella che aumenta è soprattutto la popolazione dei centri. Tra i principali centri, Tolmino, sull’Isonzo, si accresce di un buon 15%, Circhina di quasi un quarto, Aidussina di un buon terzo, Villa del Nevoso e San Pietro del Carso di due terzi; Postumia raddoppia la popolazione e la vicina Prestane la vede quintuplicare addirittura!
I dati dei censimenti rendono evidente il fatto che, in seguito alla unione con l’Italia, ci fu un intenso urbanesimo, ma non ci permettono di analizzare che molto limitatamente le caratteristiche delle migrazioni e le loro provenienze. Nel 1910 i distretti montani del «Litorale» contavano pochissimi italiani e nei distretti della Carniola non se ne trova nemmeno uno. Nel 1921 invece, dalle tabelle relative alla «lingua d’uso», in ogni comune, si può dire, appare il minuscolo nucleo italiano rappresentato dai primi immigrati (carabinieri, ecc.), mentre nei centri più importanti ne troviamo già varie centinaia: a Tolmino 605, a Circhina 177, ad Aidussina 176, a Idria 284, a S. Pietro del Carso 57, a Postumia 775, a Villa Slavina 162, a Castelnuovo 177, a Clana 284.
Il censimento del 1931 non contiene più alcuna indicazione sulla lingua o sulla nazionalità. Una tabella della popolazione residente distinta per provenienza esiste per il solo comune di Postumia (5).
Però anche questa tabella nulla ci dice relativamente al centro vero e proprio, e per di più, agli effetti del nostro studio, i suoi dati appaiono inficiati pure dal computo di un elemento fluttuante qual è la guarnigione. Da essa possiamo ricavare tuttavia che la popolazione italiana, militari compresi, è passata dal 17%, della popolazione del comune, al 30-40%, almeno.
Quali categorie sociali concorsero a formare questi raggruppamenti italiani in mezzo alla popolazione slava? Dapprima furono i militari, le famiglie degli ufficiali, dei sottufficiali, dei funzionari statali, dei ferrovieri; poi, vennero pure i maestri e — via via a seguito di nuovi concorsi — i nuovi medici condotti, i farmacisti, i segretari comunali. E fin qui possiamo dire che era semplicemente l’apparato statale ed amministrativo italiano che si sostituiva con elementi nuovi a quello austriaco. Però tutta questa gente creò dei nuovi bisogni; si dovettero costruire nuove caserme, nuove sedi per i vari uffici, nuove case d’abitazione adatte alle esigenze ed al tenore di vita dei nuovi immigrati. L’amministrazione ferroviaria dovette ampliare molto alcune stazioni per renderle idonee alle nuove esigenze del movimento di frontiera — sia del traffico passeggeri, sia del traffico merci.
Così, sulla scia dei primi gruppi, cominciarono ad arrivare anche gli uomini d'affari, gli appaltatori ed i dirigenti dei lavori pubblici, i commercianti, gli spedizionieri, e pure i professionisti, gli artigiani, gli operai specializzati, insomma tutta la vastissima gamma sociale che compone i minori centri di provincia italiani. In qualche tenuta arrivarono perfino delle famiglie coloniche italiane, ma si trattò di casi sporadici ed isolati.
Molti di costoro, conosciuto il paese e le sue risorse, si rendono conto di poter operare con vantaggio. Sorgono per opera loro nuove iniziative, ma contemporaneamente l'esempio che danno e l’imitazione che suscitano cominciano a smuovere pure gli elementi locali, inducendoli ad estendere e ad ammodernare le loro attività, ad intraprenderne di nuove, ecc.
Il risultato di tutte queste circostanze — risultato che a tutta prima potrebbe apparire paradossale — fu che proprio l’unione politica con l’Italia favorì in questi centri il sorgere di una borghesia slava più intraprendente, di mercanti di legname, di appaltatori, di albergatori, ecc., borghesia che, prima, o mancava o era ridottissima di numero e limitata nelle iniziative.
Così in alcuni centri comincia a raccogliersi ed a circolare una ricchezza fino ad allora sconosciuta. Sorgono nuovi bisogni, si sviluppa l’edilizia privata accanto a quella pubblica, si tracciano i primi piani regolatori con le nuove arterie provviste di servizi idrici, degli impianti di fognatura, ecc. Insomma in brevissimo volgere d’anni quei centri, da villaggi slavi, quali erano e quali sarebbero stati destinati a rimanere, senza l’impulso esterno, acquistarono il carattere esteriore, ma anche quello intrinseco geografico economico, di agiate cittadine.
E questo è forse il fatto geografico più notevole e più caratteristico connesso con l’amministrazione italiana nelle terre carsiche e montane: gli italiani, la nazione cittadina per eccellenza, col fermento nuovo che portarono nella regione provocarono lo sviluppo di nuove città.
Tratteggiata così una situazione generale, è di notevole interesse analizzare pure l’individualità di alcuni di questi centri. Postumia, ad esempio, ai tempi della dominazione austriaca aveva il titolo araldico di «città», elargito dall’imperatore. Come capoluogo di «distretto» (sottoprefettura) e di mandamento era sede di vari uffici. Le vicine grotte avevano favorito un certo movimento turistico e con ciò il sorgere di una ventina di trattorie e di sei alberghi. Esistevano pure due piccole segherie ed una tipografia, destinate tutte a soddisfare ai bisogni locali. Postumia, dunque, denotava una certa attività che differenziava questo centro dai villaggi circostanti, ed anche il tenor di vita vi era un po’ più elevato. Però l'aspetto complessivo dell’abitato era ugualmente povero e la pianta era quella rudimentale del centro allungato sorto lungo una strada. Pure l’importanza demografica molto ridotta: il censimento del 1910 vi aveva registrato meno di 2.000 abitanti. Nell'ambiente geografico tipico del nostro paese, insomma, questo centro sarebbe stato un piccolo e povero borgo, non una città, tanto più perché molti degli abitanti si dedicavano all'agricoltura o all'allevamento.
Sotto l’amministrazione italiana Postumia — oltre a quanto s’è detto per l’industria del legname — acquistò importanza molto maggiore come centro militare ed amministrativo e soprattutto come stazione internazionale di confine. Il turismo ebbe un impulso straordinario, non solo per l’aumentato numero dei visitatori delle grotte, ma pure per l’afflusso di villeggianti durante la stagione estiva e di sciatori nella stagione degli sport invernali.
L’amministrazione comunale creò ex novo un'azienda di soggiorno e turismo la quale, mercé un’intensa opera di propaganda, apportò anzitutto i benefizi generici di un aumento del movimento turistico. Per di più l’azienda contribuì in misura notevolissima all’abbellimento della cittadina essa stimolò la popolazione locale slava a rimodernare case, negozi, trattorie ed alberghi, dispose aiole fiorite e sedili lungo i passeggi, un'illuminazione artistica, ecc.
In base ad il piano regolatore furono aperte sei nuove strade, alberate ed asfaltate, fra il vecchio centro e la stazione ferroviaria. Qui sorsero case e ville private, quattro grandi edifizi per le famiglie dei ferrovieri e un altro per sede dei loro circoli ricreativi, tre case popolari per impiegati ed operai, altre tre per gli impiegati dello Stato, un edi fizio dell’INAM con ambulatori ed uffici, un palazzo massiccio, in pietra, della Banca d’Italia, e che più tardi divenne la sede del municipio. Un altro palazzetto fu costruito dalla Cassa di Risparmio della Provincia di Trieste. La casa dell’O.N.B. fu provvista di una sala capace di 800 persone, adibita sia a palestra, sia a trattenimenti, concerti, conferenze, ecc. Un’altra costruzione apposita fu creata per un teatro cinematografo di un migliaio di posti. L’amministrazione provinciale costruì un magnifico asilo infantile moderno, forse il più bello della provincia.
Nella parte nord-orientale furono costruite le caserme ed intorno ad esse sorsero vari altri edifici dove furono alloggiati gruppi operai, principalmente friulani e cadorini, addetti ai vari lavori. L’amministrazione ferroviaria dovette ampliare moltissimo l’edifizio della stazione per dare posto ai vari uffici e servizi. Grossi lavori di sbancamento permisero di disporre una dozzina di nuovi binari, i piani caricatori, il deposito locomotori, ecc.
La popolazione del comune, prima dell'unione con l’Italia, era composta prevalentemente di contadini, proprietari di una casetta, dì poca terra, di qualche capo di bestiame. I boscaioli vivevano di mercede. Nel capoluogo c’erano in più degli artigiani, dei carrettieri, gli addetti agli uffici e alle trattorie, qualche commerciante. Dopo l’unione con l’Italia molti trovarono lavoro nelle nuove industrie, nelle costruzioni, ecc., che tenevano occupati un migliaio di lavoratori nel semestre invernale ed il doppio nel semestre estivo.
Notevole fonte di occupazione per mano d’opera offrivano pure le agenzie di spedizioni, per le operazioni di sdoganamento, soprattutto per quelle del bestiame proveniente dalla Jugoslavia e dall'Ungheria. Un grande stabilimento di lavanderia, creato da uno sloveno, fece ottimi affari sia con le truppe, sia con la popolazione civile. Così molti contadini divennero operai e le donne li sostituirono nei lavori dei campi e nelle stalle. In genere la popolazione locale slovena trovò occupazioni stabili, si arricchì e migliorò notevolmente il proprio tenore di vita. Ed infine va aggiunto che altra fonte di guadagno fu il contrabbando, reso agevole dalla vicinanza di un confine di difficile sorveglianza!
Si può concludere affermando che dal piccolo borgo, sede di sottoprefettura e centro di un modesto movimento turistico, in breve volgere di anni si passò ad un’agiata cittadina, sede di uffici civili e militari, stazione internazionale di confine, varco stradale importantissimo con movimento turistico molto intenso. Nel 1940 essa contava già 6.000 abitanti, due terzi italiani ed un terzo sloveni. In tutto il comune, allora, gli abitanti avevano raggiunto la cifra di 10.000, metà dei quali italiani.
Villa del Nevoso sorse dalla riunione di due centri preesistenti, cioè Bisterza e Torrenova di Bisterza era capoluogo di mandamento, ma, a parte l’esistenza degli uffici giudiziari mandamentali, era uno dei tanti villaggi carsici senza particolare importanza e senza altre caratteristiche che gli potessero dare una individualità diversa. Torrenova di Bisterza era pure un villaggio carsico come gli altri, a qualche centinaio di metri di distanza dal primo; ciascuno dei due centri contava poco più di 800 abitanti.
La posizione geografica di Villa del Nevoso è quanto mai favorevole, nella conca dell’alto Timavo, al punto d’incontro delle strade provenienti dalla Liburnia, da Postumia, dal Timavo ed infine dai valichi che, per la valle della Kulpa, conducono direttamente verso la Croazia. Ciò non ostante, in tutto il periodo austriaco vi notiamo la solita stasi demografica ed economica, comune a quasi tutti i centri slavi della regione.
Appena dopo l’unione all'Italia il nodo stradale vide aumentare il suo traffico; le strade furono rettificate ed asfaltate. Il movimento automobilistico favorì il sorgere di officine automeccaniche importanti e ben attrezzate. Anche qui una segheria rudimentale, proprietà di uno sloveno e destinata a coprire la richiesta locale, fu trasformata in un complesso industriale moderno di importanza nazionale, che teneva occupati più di 200 operai. Altre segherie minori, ma modernamente attrezzate, sorsero nel comune e furono favorite dall'apertura dell’apposita rete delle strade forestali e dal potenziamento della rete ferroviaria.
Fu pure scoperta e — in periodo d’autarchia — sfruttata una miniera di lignite, che occupava in permanenza 200 operai. Infine assunsero pure notevole sviluppo le industrie alimentari, con la modernizzazione della centrale del latte e l'attrezzatura per la produzione di burro e formaggio.
L'aumentato giro di denaro arricchì quella che prima era una popolazione agricola povera, di piccoli proprietari, abituata alla sua vita tradizionale.
L'edilizia pubblica e privata ebbe anche qui un impulso straordinario; furono costruite caserme, palazzine destinate a vari usì, case e.ville d’abitazione. L’acquedotto dovette essere potenziato, la rete elettrica fu impiantata ex-novo, come la centrale telefonica. Anche in questo caso insomma, i due villaggi preesistenti si trasformarono in una cittadina agiata e ridente, la quale nel 1940 raggiungeva circa i 3000 abitanti (con un aumento di più del 75%). Il numero degli italiani, in tutto il comune, si aggirava sugli 800 (14 % circa del totale), raccolti quasi tutti nel capoluogo, dove essi costituivano quasi un quarto della popolazione.
Tra i centri minori, Castelnuovo, da semplice villaggio montano slavo si trasformò in borgata dotata di varie comodità moderne, con un sesto di popolazione borghese italiana.
Clana migliorò il proprio tenor di vita e divenne piccolo centro commerciale e turistico, con qualche industria; gli abitanti aumentarono fino a 1400, di cui un centinaio italiani.
A Prestane, nel comune di Villa Slavina, l’amministrazione ferroviaria creò una stazione sussidiaria di quella di Postumia, destinata allo smistamento ed al traffico internazionale delle merci, e principalmente del legname e del bestiame. In dipendenza di ciò alcune ditte private vi impiantarono i proprì uffici e vastissime stalle moderne per le operazioni inerenti al traffico del bestiame. Sorse pure qualche segheria. In relazione a questo sviluppo economico urbanistico pure il comune costruì a Prestane un edifizio per la sede dei propri uffici e per la scuola. Il vecchio villaggio carsico di 98 abitanti scomparve, si può dire, demograficamente, nel centro moderno di carattere così diverso; la popolazione era in gran parte italiana (6).
Ed esempi simili, di trasformazione sia dell’aspetto esteriore sia della natura di tali centri, si potrebbero moltiplicare. Col tempo questi effetti connessi con la unione dei paesi carsici e montani all’Italia si sarebbero consolidati in modo definitivo. Invece gli avvenimenti del 194- 45 i gruppi italiani della zona erano d’altra parte costituiti esclusivamente da elementi borghesi cittadini poco legati al suolo, i quali non poterono resistere alla pressione della popolazione dei villaggi slavi, abilmente sollevata contro di loro.
Gran parte dell’elemento italiano abbandonò il paese già nell’autunno del 1948; rimasero soprattutto i ferrovieri, ma anche questi furono costretti ad andarsene nell’estate del 1945. Oggi non si ha notizia di italiani che siano rimasti nei paesi carsici e montani. Diranno i prossimi anni se la loro opera ha rappresentato un fermento duraturo per quei centri che si sono trasformati in embrioni di città, oppure se tali centri sono destinati ad involversi di nuovo verso la loro precedente condizione di poveri e statici villaggi.
(1) Le domande del questionario (in numero di 17) erano formulate in modo da raccogliere, per comuni, dati il più possibile precisi sui seguenti argomenti: numero degli abitanti e composizione della popolazione dal punto di vista nazionale e sociale; economia tradizionale, sviluppo di attività economiche nuove, occupazioni, condizioni di lavoro, tenore di vita della popolazione, movimenti migratori; condizioni igienico-sanitarie, assistenza, ecc.; opere pubbliche e sviluppo edilizio.
(2) Nice B., La casa rurale nella Venezia Giulia. Bologna, 1940.
(3) Istria, anno XI, N.° 6 (8 febbraio 1851).
(4) Traggo queste pagine interessantissime da una relazione che il dott. D. Carninici, già ufficiale sanitario a Postumia, ha avuto la cortesia di aggiungere al questionario da me propostogli. Della sua collaborazione lo ringrazio vivamente.
(5) Comune di Postumia — popolazione distinta per luogo di nascita.
(6) Le notizie sono ricavate dai questionari citati e da qualche documento della Prefettura di Trieste.
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