mercoledì 26 giugno 2024

L'italianità di Boscovich

[i]Scritto da [url=http://www.avvenire.it/Lettere/Pagine/italia-di-boscovich.aspx]Antonio Ballarin[/url][/i]

[quote][size=150][b]L'italianità di Boscovich (La verità cura le ferite)[/b][/size]

Caro direttore,

l’agenzia Ansa ha pubblicato una notizia dal titolo: «A Milano statua dedicata a scienziato croato Boscovich». E nonostante le segnalazioni non l’ha voluta correggere. Eppure attribuire la “cittadinanza croata” a Ruggero Boscovich suona come un’offesa, persino feroce, all’identità del popolo di lingua italiana della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume, del Quarnaro e della Dalmazia. Boscovich nacque nel 1711 nell’allora Repubblica di Ragusa, ritenuta la quinta repubblica marinara italiana. Ragusa di Dalmazia rientrava in pieno in quella nazione dalmata che nel corso dell’Ottocento Niccolò Tommaseo, autore del primo dizionario dei sinonimi e dei contrari della lingua italiana e corrispondente epistolare di Alessandro Manzoni sulle questioni della lingua italiana, tratteggiò come capace di uniformare i vari gruppi etnici presenti sul litorale orientale dell’Adriatico aventi peraltro l’italiano come lingua franca. Essendo l’illustre letterato nato a Sebenico, ancora in Dalmazia, vogliamo considerare anch’egli croato? In realtà l’odioso “esproprio culturale” è un’abitudine che è stata teorizzata da Andre Jutrovic insigne storico della letteratura croata che nel 1969 esprimeva come «gli scrittori della Dalmazia che nel passato scrissero le loro opere in lingua italiana devono essere inseriti nella nostra letteratura e nella nostra storia nazionale» poiché essi sono «scrittori croati di lingua italiana». E con tale metodo si è dato luogo a questo “esproprio” in maniera tale che nomi quali: Marco Polo, Giorgio Orsini, Andrea Meldola, Francesco Patrizi e tanti altri, si sono trasformati in: Marko Polo, Juraj Dalmatinac, Andrija Medulic, Frane Petric, e cosi via. Ma se questo è il criterio, allora sarebbe giusto dire che Italo Calvino, nato a l’Avana, è un insigne scrittore cubano di lingua italiana! Il concetto di Memoria per la quale le Istituzioni repubblicane riservano particolare attenzione nella nostra società civile al fine di evitare catastrofi già avvenute in passato, è qualcosa di concreto, non vago ed etereo. Talmente concreto che è possibile farne esperienza nelle opere della scienza e dell’arte realizzate da centinaia di personaggi di lingua italiana della cultura istriana e dalmata. Proprio per “questo” concetto di Memoria chiediamo di non far morire una seconda volta la storia e l’identità di una parte di Nazione rappresentata dagli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia e suscita sgomento doverlo gridare ancora una volta, a settant’anni di distanza, ad una Nazione così incurante nel riaprire ferite, indifferente circa il valore dell’identità e così (volutamente) distratta.

Antonio Ballarin

Per l'italianità in Dalmazia

Per l'italianità in Dalmazia


Appunti polemici — di pseudonimo Dalmaticus. — Serie di articoli, pubblicati dal giornale Il Dalmata di Zara, N. 20-82, dal 12 marzo al 23 aprile 1910 raccolti nello stesso anno dalla tipografia S. Artale in un opuscolo di un centinaio di pagine. Le ultime copie dell'opuscolo sono state distrutte allo scoppio della guerra.


Conclusione — La geografia, la storia, l'etnografia hanno insegnato all'on. Bianchini* che la Dalmazia è croata. lo invece da un eguale studio mi sono sentito rianimare, perché vi ho appreso la superiorità e la resistenza indomabile della razza latina. La storia poi mi ha fatto ricordare, che la distruzione dell'impero di Roma in Dalmazia non fu vendicata.

Il nesso politico della Dalmazia coll'impero austriaco, come è stabilito oggi, non può, per unanime consenso anche di chi comanda le feste, durare a lungo... Che cosa succederà della Dalmazia nei sussulti etnografici della penisola balcanica? lo non voglio fare l'astrologo, ma per amore della conservazione dell'elemento italiano m'auguro ch'essa rimanga incastonata nella turbolenta e polietnica penisola come una gemma distinta, capace di irradiare ancora la luce che le venne inviata dalla stella di Roma.


Dall'Adriatico Studio geografico, storico, politico pubblicato dai Fratelli Traves di Milano col contrassegno, luglio 1914.


Non l'Austria-Ungheria, ma l'Italia riprenderà la missione di naturale superiorità, geografica e storica, sull'Adriatico. La civiltà incominciò ad albeggiare sui Balcani, ma splende gia alta sull'orizzonte d'Italia. Ed è bene che Italiani e non Italiani rammentino, che per legge naturale, geografica e storica, anche il prossimo risorgimento dell'Adriatico sarà prodotto e segnato dal genio della terza Italia.


Dalla Jugoslavia Pubblicazione dell'Istituto per l'Europa orientale in Roma; editore Riccardo Ricciardi, Napoli, 1992.


Checchè vadano dicendo e scrivendo i Jugoslavi, è certo che l'Italia non provocherà lo sfacelo dello Stato dei Serbi, Croati e Sloveni, per una serie di ragioni, semplici fino al punto da apparire banali, ma assolutamente persuasive... Però gl'Italiani, che conoscono le brutte sorprese dei vulcani della terra, non devono dimenticare che i Balcani sono stati sempre un pericoloso vulcano politico. Anche senza un'iniziativa italiana per scuotere la compagine jugoslava, anzi perfino nostro malgrado, l'urto potrebbe avvenire nei Balcani stessi o nel bacino danubiano; e l'opinione pubblica italiana non deve trovarsi impreparata a questa eventualità ed ai problemi che ne potrebbero derivare, come è avvenuto purtroppo il giorno del crollo e della scomparsa della Turchia europea e dell'Austria-Ungheria.


OSCAR RANDI


*Giorgio Bianchini (Juraj Biankini) nato il 30 agosto 1847 a Cittavecchia, isola di Lesina, in Dalmazia, morto a Spalato il 27 marzo 1928, è noto per la sua italofobia clamorosa, nonostante le sue origini italiane.

martedì 25 giugno 2024

La manifestazione allo scoprimento del busto di Antonio Baiamonti

La commemorazione del primo centenario del podestà mirabile di Spalato, organizzata dalla locale Società Dalmatica, che volle offrire a Trieste in questo incontro un busto del grande patriotta, busto scoperto nel giardino del Museo del Risorgimento, riuscì imponente.

Tutti i partiti e tutte le associazioni nazionali triestine, con a capo il sindaco e la maggioranza del Consiglio comunale, vollero partecipare alla festa dei dalmati per rinnovare — con l'onore reso ad Antonio Baiamonti — il patto di solidarietà con i fratelli, che ingiustizia di trattati e difficoltà diplomatiche non possono spezzare, ma anzi sempre più rinsaldano nella fede. È questa solidarietà con gli irredenti è tanto più appassionata, quanto più i jugoslavi mostrano di volerli cancellati nella loro terra, che ha i segni millenari della romanità e una tradizione di resistenza italiana che nessuna forza varrà a sradicare. Questo intesero dire gli italiani di Trieste partecipando in folla imponente con moltissime bandiere e con moltissimi gagliardetti, alla celebrazione di Antonio Baiamonti.

Il corteo

L'adunata era stabilita per le 9, ma a quell'ora pochissime società erano al punto di convegno, ai piedi del monumento Rossetti. Pure man mano la piazza si va riempiendo di bandiere e di rappresentanze e il corteo lentamente si forma e, alle 9.45, si incammina. Apre la marcia una compagnia di volontari dalmati con i gagliardetti: seguivano i sempre pronti con i gagliardetti e le fiamme di combattimento; i volontari della "Sursum Corda"; una numerosa rappresentanza, con la bandiera della Giovane Italia; la banda e una rappresentanza del Ricreatorio della Lega Nazionale; la bandiera dei mutilati e invalidi di guerra; l'Associazione ex combattenti; i volontari giuliani; l'Associazione bersaglieri in congedo, Enrico Toti; l'Associazione reduci di guerra; la Società Dante Alighieri" una rappresentanza del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane; numerosissime rappresentanze con le bandiere abbrunate della Società Dalmatica di Trieste; di Gorizia e di Pola; la Società "Dalmazia irredenta"; la Società Ginnastica; la Società Operaia; la Lega Navale; la Lega Nazionale; i direttori e alcuni studenti del Ginnasio-Liceo Petrarca, del Ginnasio-Liceo Alighieri, dell'Istituto nautico, del Liceo femminile R. Pitteri e del Liceo Carducci; l'Associazione studenti cattolici e una rappresentanza del partito popolare. Nel corteo notammo, tra le moltissime personalità, gli on. Dudan e Giunta, vari rappresentanti delle società dalmate, il sig. D'Osmo in rappresentanza di G. D'Annunzio, che inviò anche un messaggio alla Società Dalmatica, il consigliere Smerchinich e una lunga colonna di dalmati residenti a Trieste.

Nei pressi dei portici di Chiozza attendevano il corteo numerose squadre fasciste con i gagliardetti e con la musica. Scambiati i saluti tra le squadre, i fascisti si incolonnano con i gagliardetti: erano le squadre di S. Giacomo, di Roiano, della Nazario Sauro", "Giovinezza", "Carnaro", "Quis contra nos" e varie altre. Precede le squadre una decina di giovani ciclisti e le segue una squadra dell' "Avanguardia giovanile". Attraversata via Carducci, il corteo, con la banda del Fascio in testa, passa per il Ponte della Fabra, Piazza Goldoni, Corso V. E. III, Piazza Unità, via Sanità, via F. Venezian, via S. Michele, via Navali e via Pasquale Besenghi dove ha sede il Museo del Risorgimento.

Durante il percorso le musiche suonavano la Canzone del Piave e Giovinezza. Numerosi cittadini assistevano al passaggio del corteo, specialmente nelle vie centrali. Da molte finestre sventolano tricolori e bandiere dalmate abbrunate.

Lo scoprimento del busto

Al giardino del Museo del Risorgimento affiluiscono alla spicciolata i primi visitatori fin dalle 9 E s'intrattengono a parlottare intorno al busto di Baiamonti, ricoperto ancora da una tela cerata e del quale non si vede che il piedestallo in pietra carsica, con questa semplice epigrafe: 

"Al Podestà mirabile 
Antonio Baiamonti 
i dalmati irredenti 
MCMXXII". 

Nulla altro. Null'altro, ma tutto.


Sul balcone prospiciente garriscono libere, al vento, una rossa bandiera con l'alabarda triestina ed una nazionale. Sotto, dal poggiuoio fin quasi a terra, un immenso drappo azzurro tenuto a tutte le estremità, stride anch'esso ai rabbuffi del vento.

Giunge, fra i primi, l'on, Pitacco, ossequiato dai presenti con i quali si intrattenne con quella gioviale famigliarità che è sua caratteristica particolare; vediamo poi il sen. Valerio e, con le prime note dell'inno fascista, suonato dalla fanfara del Ricreatorio della Lega Nazionale, tutta una marea di bandiere e di pubblico che non è possibile elencare.

Tutti i gagliardetti si dispongono ai lati del busto di Baiamonti e, dietro essi, le squadre relative ed il pubblico. Il piccolo giardino è stipato. Gli oratori non hanno che pochi metri quadrati di spazio disponibile ed un nereggiare umano attorno a sé.

Alle 10 il giardino detta Villa Basevi, dove ha sede il Museo del Risorgimento, era già gremito di ospiti. I dalmati erano al completo con la presidenza della Società Dalmatica, alla quale dobbiamo l'offerta del busto al Comune. Erane rappresentati vari partiti politici cittadini: il democratico, il nazionalista, il fascista, il popolare. Le associazioni cittadine erano tutte intervenute; molte di esse con i gagliardetti. Della Società Dalmatica erano rappresentanti ufficiali il consigliere di Direzione Nicolo Radman e il segretario Remo Pappucia; altre notabilità dalmate, il patriota Achille De Micheli con la signora, il cons, avv. Stefano Smerchinich, il cons. avv. Edmondo de Hoeberth, incaricato di rappresentare il Comune di Zara, il prof. Dino de Rossignoli, il signor Burich, nipote del Baiamonti, la vedova Rismondo. V'era il senatore Alfonso Valerio; v'erano larghe rappresentanze delle Associazioni dalmatiche di Gorizia e di Pola coi loro vessilli. I vigili urbani facevano il servizio d'onore al comando del capitano Rossetti.

Il Direttore della Società Dalmatica cav. Radman sale sul podio e pronuncia queste brevi ma vibranti parole:

"Onorevole Signor Sindaco, Signori!

Mi sento altamente onorato dall'ufficio datomi di inaugurare in questa nobilissima città l'immagine eterna del Grande Baiamonti della cui magnifica figura oggi nella mia mente si rinnovano tutte le più grate rimembranze. A me, Suo concittadino, ch'ebbi la fortuna di udire tante volte la sua parola profetica; a me che accolsi con suprema devozione i suoi estremi sospiri, sia concesso di glorificare il Suo nome immortale augurando ch'Egli venga conservato ed adorato da quanti in questa terra italiana, italianamente pensano, operano e sperano.

Svelatelo dunque e lasciate che Antonio Baiamonti rifulga di tutto il Suo splendore come la luce dell'avvenire d' Italia, come l'aurora del Destino dalmatico".

Vivissimi applausi accolgono il discorso del sig. Radman e si procede allo scoprimento del busto fra un religioso silenzio, che si tramuta poi, quando la figura dolce ed austera dello spalatino parla al pubblico dal bronzo vivificato, in un triplice, possente inno alla Dalmazia, all'Italia, a Savoia. Le musiche intuonano tutti gli inni patriottici, mentre fasci di fiori ed una grande corona d'alloro dalle bacche dorate s'accumulano in breve ai piedi del monumento.

La voce dei dalmati

Tornato il silenzio, Remo Pappucia, segretario della Società Dalmatica, pronunciò il seguente discorso:

"Onorevole Signor Sindaco, Signori, fratelli nostri!

Il fremito della commozione toglie alla mia parola la forza atta a manifestare l'intima voce dei nostri cuori che in questo solenne istante racchiudono la somma effervescenza dell'amore, della devozione e della gratitudine.

Noi oggi a Trieste viviamo una di quelle giornate che sembrano mandate da una volontà divina perché noi ne tramandiamo il ricordo da generazione in generazione e ne facciamo testimonianza perenne attraverso i secoli.

Tale a noi appare questo magnifico evento per cui a Trieste vediamo sorgere il simbolo di quella sublime virtù ch'è ingenita in tutte le coscienze umane, d'una virtù che sopravvive al mutar dei tempi e dei programmi, che sopravvive ben anche nei cuori di chi
a dispetto vorrebbe negarla: l'Amor Patrio. E chi più di noi, esuli d'una patria tradita, aveva maggior bisogno d'un simbolo che ritempri gli animi nostri delusi e scuota le altrui coscienze?

Noi Dalmati che nel passato vedemmo sopprimere ogui nostro diritto nazionale; che fummo offesi in affetti sacri e minacciati nella cosa più cara: la lingua e il pensiero; noi che mai cedemmo al sopruso dello straniero e con la più illibata fedeltà aspettammo che spunti l'aurora di Vittorio Veneto; noi dapprima redenti e poi abbandonati alle vendette nemiche, mal conosciuti e negletti dai connazionali, scherniti dai più e commiserati dai meno, affranti dal veder ammainare il tricolore in terre ove esso attestava un diritto e il ritorno della civiltà; straziati dalla vista orrenda dello sgombero dei nostri territori avvenuto a squillo di tromba; angosciati dal pianto delle nostre genti che nella fuga vollero salvare dall'onta straniera persino i leoni freddi di S. Marco; noi che all'indomani devremo udir scoccare l'ora dellestrema condanna di Zara, qual meraviglia, se noi pochi, se noi miseri profughi provammo spasimo, angoscia e scoramento?

Ma la virtù che vuole vinse l'ambascia; la coscienza del nostro diritto e le sante memorie et confortarono a operare anche fuori della terra nostra. Ed allora sentimmo il bisogno di dichiarar forte agli amici e nemici la nostra inesorabile fede con un atto nobile e solenne, come il soldato inesausto e prode che in faccia al nemico leva alto il vessilio della Patria e l'amata vista ravviva il coraggio.

Cercammo adunque il simbolo della nostra fede, cercammo l'emblema della nostra dottrina, staccamumo lo sguardo dall'infausto presente e voltolo alle future fortune della Gran Madre, ecco a Trieste Antonio Batamonti! O fratelli, questa mole di bronzo e di pietra carsica che il soffio dell'arte di Seratino Santero cosi fortemente ravviva, fu composta dal sacrificio di pochi fedeli, fra cui pochissimi i ricchi e molti i poveri che maggiormente sentirono il dovere di eternare a Trieste la memoria del Grande Spalatino.

Tale fu inteso e veduto qui Antonio Baiamonti! Egli è a Trieste redenta un'affermazione solenne dell'italianità dalmatica e del sacrificio da cui essa trae i migliori auspici per l'avvenire. Dalla ardimentosa figura di Antonio Baiamonti traspare il dolore e le gioie, gli spasimi e le speranze, le prodezze e il futuro destino dei Dalmati ch'Egli attraverso le più aspre lotte e i più dolorosi cimenti limpido discerneva nella visione del Suo Apostolato che cimentava la passione del nostro popolo ch'è nato italiano in terra Italiana e questo fatto gli dà diritti che forza di trattati o viltà diplomatiche non possono cancellare.

O fratelli, questo è il frutto della nostra ferrea costanza; ma quanto dolore desta in noi la realtà per cui oggi viene scoperta l'immagine di Antonio Baiamonti a Trieste, mentre essa in virtù dei sudori e dei patimenti, delle sofferenze e delle pene, del sangue e della morte dei migliori combattenti d'Italia, doveva sorgere più grande e più maestosa a Spalato nostra! Ma intanto Baiamonti aspetterà fidente a Trieste.

Piacciano le anime forti a Lui fortissimo. Bene ricominciamo e non volgiamoci indietro. Nessuna ricchezza pareggia per noi l'amore per la Madre Patria. La serberemo illibata e forte.

L'Italia dei falsari arriverà forse ad eseguire l'iniquo trattato della più crudele condanna nazionale dei Dalmati cui oggi nulla rimane se non il ricordo del breve periodo di Redenzione che si frappose illusoria alla vecchia e nuova schiavitù; ma non ancor esausti dalla lunga ed aspra lotta combatteranno ad oltranza; e questa battaglia che gli irredenti adriatici si accingono a combattere per salvaguardare il diritto delle loro terre, è lotta per la libertà di genti civili, è la difesa della dignità nazionale d'Italia, è la conquista di quella unità nazionale della Gran Patria che non è concepibile senza Fiume e la Dalmazia tutta.

Non vi sarà pace nell' Adriatico finché la tracotanza vendicativa degli invasori non soggiacerà per lo meno alla influenza morale e spirituale della civiltà latina; non vi sarà concordia fra i due popoli finché l'uno indigeno e civile dovrà assoggettarsi all'altro immigrato e barbaro.

Questo è il linguaggio del buon diritto umano che sopravvive ad ogni ingiustizia.

Il nostro amore non è la passione volgare che esclude l'affetto per gli altri popoli vicini. Tutti gli uomini sono fratelli, tutti devono cooperare al bene dell'umanità, ma questo bene è conseguibile soltanto col rispetto reciproco del proprio diritto nazionale. 

Tale era il pensiero di Antonio Baiamonti.

L'Italia non è ancora integrata nella sua unità geografica, ma sulla fronte bella le irradia con vivissimo raggio l'auspicio di un migliore e glorioso avvenire. Intanto il primo germe nacque, si comprende bene, dall'opera di tanti eroi, dal sangue di tanti martiri.

Questa cerimonia che oggi si compie a Trieste nobilissima non è soltanto l'esaltazione di quanto di più forte, di più grande e di più italianamente bello possa oggi significare la figura bronzea di Antonio Batamonti; non è solamente la sublimazione d'un culto sacro ai fedeli di nulla bramosi se non del trionfo del proprio diritto; ma essa è sopratutto l'affermazione inviolabile di quei principi di cui l'Italia ne fu sempre legittima sostenitrice e che segnano la via verso i suoi migliori destini.

"Patria ai Veneti tutto l'Adriatico" è il linguaggio del Poeta Soldato, è la profezia del Sommo Italiano fra gii italiani, è l'avvenire infallibile d' Italia, che, ricostituita in Patria forte e unita, non siederà più compianta ma ammirata fra le nazioni e le sarà assegnato l'onore di una grande missione da compiere nella storia della civiltà moderna; grande missione di rapida espansione di uomini e di idee, di predominio intellettuale e morale di sostenitrice e di centro di coordinamento in Europa e della giustizia mondiale. O Illustre Capo dell'Eroica città di Trieste, Voi che della passione adriatica eravate una volta il simbolo ed oggi siete il premio; Voi che nell'autunno di nove anni or sono portaste a Zara lo spirito ardente del Vostro irredentismo, Voi che sulla nostra sponda baciaste i fiori della nostra devozione per i fratelli giuliani, accogliete questo nuovo pegno della volontà dalmatica, ch' o suprema volontà d'Italia!"

La parola del Sindaco di Trieste

Applausi calorosissimi coronano il discorso detto con passione vivissima. Gli inni alla Dalmazia riempiono la breve parentesi, dopo di che il sindaco on. Pitacco, in un silenzio religioso, pronuncia il seguente discorso:

Antonio Baiamonti, il podestà mirabile, che per quasi un quarto di secolo dedicò le sue eminenti doti amministrative al Comune della sua Spalato natia, che alla Dieta di Zara ed al parlamento di Vienna difese con l'ardore più vigoroso dei suoi giovani anni la causa della giustizia e della civiltà di Dalmazia, che fu tra i primi ad opporsi con tine intuito politico ad ogni unione della sua terra che contrastasse col diritto e con la storia, che per questa sua indomita attività feconda soffrì le più tristi persecuzioni, si da averne logorata anzitempo la fibra robusta ed amareggiato l'animo fiducioso, Antonio Baiamonti che tutto incarna nella sua alta e pura figura di patriotta il lungo martirio della Dalmazia italiana, è dopo un secolo dalla nascita, più che mai vivo nella gratitudine Vostra, più che mai il simbolo delle speranze comuni.

Il grido di dolore che egli urlò in pieno parlamento contro ai tanti nemici: A noi italiani di Dalmazia non rimane che un solo diritto, il diritto di soffrire, divenne purtroppo per molti di voi amara profezia, per voi che intranto il sogno della redenzione siete tuttora profughi in patria.

All'uomo che nella stima degli onesti trovò il più grande conforto della travagliata esistenza, voi tributate oggi con immutabile animo il meritato onore ed inaugurate in commozione concorde di cuori questo artistico busto che ne ricorda l'immagine buona, e ne rispecchia la veneta fedeltà. Il vostro affetto lo affida al Comune di Trieste che per il sentimento di amore sempre nutrito verso i fratelli di Dalmazia è degno di custodirlo qui presso al Museo del Risorgimento che aduna tanti ignorati e preziosi cimeli delle lotte sostenute in comune per la liberazione comune..

Ch'esso sarà conservato con ogni cura gelosa, mi rendo mallevadore io stesso che divido la vostra passione che già mi portò ramingo con Ercolano Salvi, con Luigi Ziliotto e con Roberto Ghiglianovich, al quale vada anche in quest'ora il mio fervido augurio, a mendicare presso le varie consulte politiche l'osservanza dei patti che per quanto solennemente firmati non conseguirono la contrastata sanzione.

La forza degli avvenimenti soverchia troppo spesso la volontà degli uomini.

L'uomo che oggi si onora fu grande per forza di volontà e fervore di fede che mai disperò e che anche nei più difficili eventi della Patria, così incuorava i timidi e i dubbiosi: A quanti ripetono tutto è finito, rispondete col tono più alto della vostra voce: No.

Sia questo No così vibrante di sentimento il palpito più espressivo della cerimonia odierna".

Parla I'on. Dudan

Dopo il discorso del sindaco di Trieste si rinnova più vivo l'applauso, finché ristabilitosi il silenzio ha la parola l'on. Dudan.

L'oratore esordisce dicendo:

È un rito, quello che si compie oggi nel nome di Baiamonti, un rito di gentilezza e di amore quale la latinità, la romanità dalmata sanno compiere. Ed è la continuazione dello stesso rito religioso che si compieva, quando io ero bambino, quotidianamente, per le vie di Spalato nostra italianissima allora, come ora, come sempre dove ogni vetrina, ogni finestra, ogni angolo di via — quasi — aveva esposta l'immagine di Baiamonti posta fra due ceri. Cuito che ha il suo riscontro sol nelle celebrazioni della cristianità primitiva quando si compieva il rito nascosti agli occhi del mondo, quando la persecuzione stessa alimentava continuamente la inesausta fede delle folle. Ed ancor oggi i religiosi dell'italianità della Dalmazia erigono i monumenti agli assertori sommi della sua fede non entro le mura delle sue città, non nelle sue terre, ma nelle più ospitali città sorelle, in quelle che seppero anch'esse il dolore del servaggio, in quelle che più sanno comprendere ed apprezzare il dolore e la fede degli italianissimi sacrificati.

A questo punto l'oratore tratta a grandi tocchi e precisi, quelle che sono le linee fondamentali, le caratteristiche principali dell'attività di Antonio Baiamonii; amministratore studioso, storico insigne, ma sopratutto e sempre italianissimo, di una italianità sgorgante come una polla inesauribile dell'animo suo, istintivamente quasi, e permeante di sè ogni pensiero, ogni azione, ogni opera stesso si fosse accinto. E rammenta, l'oratore, tutta l'opera del Baiamonti per il miglioramento e lo sviluppo di Spalato, che fino al 1850 poteva essere considerata una piccola rocca feudale e che solo attraverso l'amministrazione tenuta dal Baiamonti s'ebbe quell' impulso, quella trasformazione profonda che fanno di essa, ancora, una delle più interessanti città della Dalmazia.

Ma così sagace opera di sviluppo e di italianità non poteva sfuggire agli Absburgo, ed abbiamo così, l'inizio di quelle lotte feroci per la conquista del comune fatte qualche volta con le torpediniere austriache nella rada di Spalato con i cannoni volti verso la città italiana, e che costarono la vita a non pochi elettissimi, il martirio di nobilissimi altri, l'ansia, la trepidazione ed il dolore a tutti al dominio dell'amministrazione locale fu perduto — dice l'oratore — ma l'italianità si rafforzò nell'animo di tutti, si temprò, divenne disperazione alla vista quotidiana dello scempio che il dominatore fece o volle fare di quanto il Baiamonti aveva creato.

Un giorno, un triste giorno, tutti gli abitanti di Spalato sono raccolti silenziosi intorno a quella che fu la casa del Baiamonti: hanno saputo di una sua grave malattia e son lì in attesa trepida di notizie. È un mareggiare umano grave e solenne. È tutta l'italianità che si raccoglie intorno al suo simbolo più fulgido e quando la triste notizia fu data, quando fu annunciato da uno degli intimissimi che il grande patriotta era morto e ch'era morto infinitamente povero, tutta quella folla s'inginocchiò, si scoprì silenziosa, racchiuse il dolore grande nel cuore per scaldare con esso l'italianità dei suoi figli, per farne arma contro l'oppressore. E l'italianità rifulse più tèrsa pur dopo tanta sventura.

E proseguendo, l'oratore rammenta del teatro che il Baiamonti volle creare a Spalato, perché le muse italiane in esso potessero avere ricetto; di tutte le altre opere monumentali per le quali chiamò, sempre l'arte ed il genio italiani; della fontana meravigliosa che il popolo volle subito chiamare: "Fontana Baiamonti".

Ora — conclude l'oratore — i servi del nemico s'illudono che tutto ciò non sia più; pensano che tutto ciò non è più che un ricordo perché alla fontana Baiamonti essi imposero il nome di "fontana Francesco Giuseppe". L'illusione è assoluta ed è destinata a crollare in pieno come un castello di carta. Nella nuova Italia c'è un fremito di rivendicazione e di dignità che rincuora; dal Brennero all'Etna è un nereggiare di gagliardetti, un ansimare di giovinezza fremente, che non lascia dubbi al riguardo. Per poco ancora e i destini d'Italia saranno in mano della nuova coscienza e della nuova volontà foggiatasi nel turbine della guerra ed allora il destino della Patria sarà compiuto inesorabilmente; tanto più che a ciò non necessiterà che la coscienza della propria dignità e del proprio diritto, che l'abiura di ogni politica di dedizione vergognosa: l'assorbimento, il ricongiungimento dell'estremo e più italiano lembo della Patria avverrà senza bisogno di azioni violente di sorta. Per questa nuova Italia del prossimo domani, per questa rivendicazione della Dalmazia italiana, io vi invito, o cittadini, o fratelli tutti, ad emettere un triplice alalà".

L'orazione, ascoltata religiosamente, è alla fine coronata da un uragano di applausi che il vento trascina lontani, unitamente agli inni della Patria. Gli evviva alla Dalmazia si fondono con gli evviva all'Italia.

Dopo la cerimonia il corteo si ricompone con le squadre fasciste in testa, e passando per via Paolo Veronese, via S. Giacomo in Monte, piazza G. B. Vico, via Galleria, piazza Goldoni e il Corso, giunge in piazza Unità dove si scioglie.

Le diverse squadre si radunano quindi in via Gabriele D'Annunzio, dove si svolge la cerimonia del saluto delle bandiere.

Il passaggio delle bandiere dalmate, viene salutato da un triplice alalà da tutti gli squadristi, mentre la musica suona l'inno degli arditi. Alle 12 la cerimonia è finita.

I telegrammi di plauso

Dal Municipio di Cittanova, Istria:

Impedito intervenire inaugurazione busto podestà ammirabile Antonio Balamonti municipio Cittanova invia fervente saluto associandosi manifestazione grande patriotta — Gianelli.

Dal comandante Roncagli, Roma.

Dolente non poter intervenire patriottica cerimonia onore Antonio Baiamonti offro mio fervente omaggio in memoria grande dalmata cui esempio deve Ispirarsi opera nostra per improrogabile rivendicazione diritto italiano. — Roncagli.

Dalla prof. Maria Elena Casella, Roma:

Associomi concorde tributo onore podestà mirabile auspicando prossima redenzione completa terra diletta. — Maria Elena Casella

Dal generale Valsecchi, Roma

Assente nostro delegato on. Dodan preghiamo rappresentarci onoranze podesta mirabile nel cui nome rinnovasi perennemente fede per redenzione italianissima Dalmazia. — Per l'Associazione nazionale Dalmazia generale Valsecchi, presidente.

Dai profughi dalmati residenti a Idria:

Dalmati residenti Idria si associano festa commemorativa podestà mirabile campione immacolata stirpe nostra che, con con la mente eletia con le opere imperiture ha elevato la cara dalmata terra oggi vinta ma non doma.

Dai profughi dalmati residenti a Lussino:

Profughi dalmati residenti Lussinpiccolo plaudendo patriottica commemorazione Baiamonti traggono lieti auspici redenzione Dalmazia tutta. — Matcovich.

Dol dott. Bucevich, Roma:

Ringrazio invito, e, come dalmata e combattente, mi associo riverente onoranze che per felice iniziativa vostra son tributate oggi in Trieste italiana alla memoria di Antonio Baiamonti, mirabile esempio patriottismo italiano nostra terra. — Bucevich.

Dalla Società Ginnastica, Zara:

Società Ginnastica associasi odierna glorificazione magnifico podestà di Spalato cui culto nostro rimarrà Imperituro. Alala. Valery.

Dalla signora Ofelia Colautti, Roma:

Inchinomi riverente innanzi mirabile Podestà, cui fraterne amorevoli cure salvarono la vita al poeta Colautti aggredito dalla sbirraglia croata, gloria a onore sempiterni ai gloriosi dalmati. — Ofelia Colautti 

Dal cav. Vittorio Verban, Zara:

Odierna cerimonia raccoglie ancora sempre dalmati tutti nel nome Baiamonti per la redenzione di terra nostra. Egli ci spronava alla creazione del fascio per la lotta e per la grandezza d'Italia. Uniamoci. Evviva. — Cav. Verban.

Dal partito repubblicano sezione di Zara:

Spiacenti non poter inviare propria rappresentanza, ci uniamo in ispirito solenni onoranze grande italiano Spalato. — Sezione repubblicana, Zara.

Dall'Associazione nazionalista di Zara:

Molteplici circostanze c'impediscono partecipare solenne cerimonia celebrazione podestà magnanimo. Nostro pensiero fidente vi accompagna al grido di Evviva Spalato italiana. — Per Associazione nazionalista: cap. dott. Mandel.

Dall'Associazione combattenti di Zara:

Combattenti Zara pregano collega on. Dudan rappresentarli onoranze podestà Baiamonti. — Il Cosiglio direttivo.

Dalla Federazione Legionari fiumani, Legione dalmata:

Ordine superiore non permetteci ailontanarci Zara. Spiritualmente presenti celebrazione podestà mirabile compagni Vucassovich rinnovano giuramento fedeltà causa Adriatica e promettono rimanere sentinelle incorrutibili (illegibile) patria sacrificata nel nome mallevadore di Gabriele D'Annunzio. — Legione Dalmatica.

Una lettera di plauso del Prof. Comm. Arturo Linacher di Firenze

Spettabile Direttorio,

Fino all'ultimo momento ho sperato di poter recarmi a Trieste per la solenne inaugurazione del busto al podestà mirabile Antonio Baiamonti, ma non mi è stato possibile.

Ero col pensiero in mezzo a voi mesto pensiero nel presente così triste per la sacrificata Dalmazia. È destino che l'unità l'Italia si debba compiere attraverso grandi sacrifici e a tappe successive; ma si compirà, deve compiersi nonostante gli sforzi dei nemici interni più temibili agli esterni. Diciamo col poeta:

"converrà vincere la prova". La generazione che verrà, avrà la soddisfazione di vedere quello che noi forse non vedremo. Dico forse! Pensiamo che dopo Mentana venne il XX settembre. Trieste, Trento erano fantasie da menti esaltate e abbiamo avuto Vittorio Veneto!

Noi della Dante pochi e compatiti vedemmo assotigliate le nostre file quando nel '15 vedemmo la guerra.

Non abbandoniamo la Dalmazia: parliamone, parliamone; manteniamo li con ogni sacrificio l'Italianità: pensiamo a Zara che non sia completamente sacrificata, e stiano uniti quei pochi che hanno fede che l'unità della patria non è ancora compiuta, ma che deve compiersi.

Abbiatemi vostro

Arturo Linacher.

Verbale della consegna del busto di Antonio Baiamonti al Municipio di Trieste

Nella città di Trieste all'esterno del Museo del Risorgimento il giorno XV del mese di Ottobre MCMXXII La Società Dalmatica di Trieste a nome di tutti i Dalmati italiani per sangue, per linguaggio, per tradizione e per inesorabile volontà, sentì per forza della propria fede nei destini infallibili della Madrepatria il bisogno di affermare l'italianità dalla terra irredenta con un segno aperto e solenne Ond'e che in virtù dell'idea proposta nel Congresso Generale Ordinario della Società Dalmatica del II febbraio MCMXXI ed accolta con plauso da tutta l'Assemblea, la Direzione della detta Società determinava di oftrire in omaggio al Municipio di Trieste un busto bronzro di ANTONIO BAIAMONTI per onorare il primo centenario della nascita di questo Mirabile Podestà di Spalato che  tutta l'Italia riconosce e venera come Apostolo della nuova fede adriatica.

I migliori figli di Dalmazia residenti in questa città parteciparono con entusiasmo ineffabile alla nobile iniziativa. L'opera d'arte fu eseguita dalla scultore siciliano SERAFINO SANTERO che in brevissimo tempo condusse a termine l'ottimo lavoro.

Il busto di bronzo di cannone austriaco è sorretto da un nobile piedestallo di pietra carsica sulla cui facciata spicca in lettere di bronzo l'epigrafe: 

AL

PODESTÀ MIRABILE

ANTONIO BAIAMONTI

I

DALMATI IRREDENTI

Il busto è stato solennemente scoperto oggi alle ore 10.30 presenti il Signor Dott. Giorgio Pitacco, Sindaco di Trieste, il Direttorio della Società Dalmatica, il Consiglio Municipale di Trieste, la Direzione del Museo del Risorgimento, l'Artista Serafino Santero e molte altre personalità invitate. Assistevano quasi tutte le Associazione patriottiche, i partiti nazionali ed infinito popole plaudente.

Il Direttore della Società Dalmatica, signor Nicolò Radman, inaugurò con calda parola in cerimonia. Scoperto il busto, il Segretario della Società Dalmatica, signor Remo Pappucia, rivolgeva al Signor Sindaco la preghiera che Egli si compiacesse di riceverlo in consegna quale pegno della volontà dalmatica.

Il Signor Sindaco rinnovava in nome della Città di Trieste la solenne promessa di conservare con devozione il busto e di ciò si rendeva Egli stesso mallevadore.

Si estenie quest'atto di consegna che viene toscritto dal Signor Sindaco e dai membri del Consiglio Direttivo della Società Dalmatica.

Di questo documento si fanno tre originali conformi, ciascuno dei quali viene firmato di proprio pugno dalle persone summentovate.

Il primo verrà consegnato al Sindaco di Trieste, il secondo al Direttorio della Societa Dalmatica, il terzo verrà deposto negli Archivi del Museo di Storia Patria di Trieste. 

Firmati:

Il Sindaco: Dott. Giorgio Pitacco

il Direttorio della Società Dalmatica

Il Cons-Segretario Reme Pappucia. I Consiglieri: Nicolò Radman, Ello Benevenia, Luigi Paladino. Luchino Verban, Matteo Pavazza, Melchiorre Rubcich, prof. Alessandro Coschina, Mario Sisgoreo.

I contributori 

La Società Dalmatica: Francesco Boghich-Perasti, Elio Benevenia, Nicolò Radman, Remo Pappucia, Pietro Savo, Matteo Pavazza, Melchiorre Bubcich, Mario Sisgoreo, Luigi Paladino, Marino Marini, Giorgio Giovanizio, Bartolomeo Granich, Maria e Achille Demicheli, cav. Pietro Gelineo Bervaldi, avv. Ljubimiro e Fedele Savo, de Zamagna Conte Savino, Brainovich Stefano, Simeone Brasevich, Spiridione Benevoli, Camillo Mistura, Ruggero Pappucia, Mattarelli Eugenio, prof. Giovanni Botteri, avv. dott. Giorgio Gefter-Wondrich, Pietro Slade, Luigi Slade, Leandro Nachich, Eugenio Celeghin, Giovanni Sasso, Marino Delich, Stipinovich Giovanni, Tverde Lorenzo, Dallavia Antonio, Pavazza Pietro fu Crancesco, Sala Umberto, Pontizza Simeone, Nicolich Alfredo, Doimo Caliterna, Tolentino Davide, Devich Cirillo, prof. de Beden, prof. Dino de Rossignoli, Prof. Ubaldo Salvi, Addobbati Marino, Erzeg Simeone, Eugenio Pieno, Simeone Pavazza. Carlo Bertuzzi, Francesco Covacich, Covacevich Martino, dott. Ernesto Illiich, Giuseppe Bercovich, Shlehan Gustavo, Francesco Foretich, Jaman Giovanni, Bonacich Giovanni fu Nicolò, Cescovich Antonio, Scotton Giovanni, Traini Dante, Siavina Andrea, Camillo Fosco, Stenta Maria, Lorenzo Polli, Buttara Rodolfo, Verdolja Maria, Jesurum Mario, Goidanich Giovanni, Vragnizan Francesco, Giacomo Loss, Ing. Stock, Wrubl Enrico, Brainovich Pietro, Rosa Ved. Wolyanzsky, Tolpei Camillo, Gino Brunelli, (Firma illeggibile). Luigi Tomicich, ing. Andrea Rados, Vincenza ved. Bosich, L. Bakos, Dott. Gioacchino Boghlich, Adolfo Namer. Lydia Pagan, Ruggero Nicolich, Enrico Braievich, Nilo Jancovich, comm. Diodato Tripcovich, dott. M. Tripcovich, avv. dott. Edm. de Hoeberth, dott. Rod. Radl, dott. prof. Ant. de Micheli, Tina di Verbano, Giovanni Zovetti, dott. Emilio Orlandini, dott. Nicolò Fertilio, dif. penale Ferdinando Barich, Francesco Todeschini, Marin Antonio, Gherle Deimo, ing. Antonio Matulovich, Fratelli Delich, Oreste Inchiostri, Crassich Vincenzo, Crassich Cesare, Guido Fosco, Pant Matteo, Pietro Sponza, Pasquale Bilussich, dott. Ippolito Nicolich, dott. Bruno Bonetti, Fausto Marincovich, Agostino Benzoni, prof. Luigi Miller, Fantoni Antonio, Filippo Nutrizio, Avv. Vincenzo Botteri, dott. Ugo Storich, Ester Zohar, Anna Brechler, V. Stermicevich, Dott. Giuseppe Müller, Ivanissevich Doimo, dott. Francesco Gutty, Ermenegildo Alborghetti, Rodolfo Nicolich, Vladimiro Raicevich, Jenny Jurcev, dott. Rodolfo Modrich, prof. Spiridione Nachich, Maupas Doimo, dott. Nilo Bittanga, Paolina Simeone, Pavazza Carlo fu Giovanni, Jacasa Antonio, Desiderio Dott. Barich, Spiridione Bellotti. dott. prof. Antonio Cippico, Valentino Wohlmuth, Giuseppe Kesckemety, Dionisio Paladino, Persola Giovanni, Alesani Gerolamo. Ivancich Francesco, dott. Messa, Jellicich-Martinis Ruggero

Dai profughi dalmati Pola: Perat Matteo, Uroda Pietro, Pojani dott. Umberto, Colombo Tomaso, Gelinich Gino, Botteri Pietro, Montanari Carlo, dott. Defranceschi Carlo, Boman Nicolò, A. Traine, dott. De Portada, Alacevich, Pezzi Giacomo, Alborghetti Venturino, Lusich Giorgio, Bogdanovich Girolamo. Descovich Doimo, Ponisch Vincenzo, Foretich Marino, Giuseppe Cappelletti, Descovich ing. Giuseppe, Nicolò Gligo fu Giorgio, ing. Piero Cusmanich, conte Silvio de Vitturi, Antonio Gelich, cap. Stefano Novak, Antonovich, ing. Gustavo Comici, Nicolò Patrich-Lode. dott Snich Antonio, (Firma illegibile), Nicolò Marchi di Simeone, Giorgio Vucetich, G. Benedettich, Radovani Stanislao, Cherstulovich Gianni, Nella Facci, Nicolò Ticina, cav. Antonio Sangoletti, dott. Angiolina Prezzi, Bernich Riccardo. Bernich A., Tomaso Micovilovich, cap. Pasquale Capurso.

lunedì 24 giugno 2024

Bajamonti

BAJAMOΝΤΙ

«Dolce color d'oriental zaffiro..

La musica di questo verso mi fa sempre sorgere dinanzi agli occhi la terra diletta, la Dalmazia azzurra, cerula nel mare, nel cielo, nella santa bandiera dai leopardi, incoronata di martirio, e perciò stesso incoronata di vittoria, poiché, come nel seme nudo sta il fiore, così la vittoria sta nel martirio: non le disse Goffredo Mameli? Nell'essere pronti a morire è la vittoria.

E chi, come i Dalmati, ha saputo morire? Non soltanto sui campi delle nostre battaglie, non soltanto sulla forca d'Asburgo, ma nella vita dura, morendo giornalmente ad ogni gioia, ad ogni speranza, giornalmente risurgendo nell'indomita fede.

Nella terra azzurra nacque, per combattere la santa battaglia, l'uomo che amiamo, celebrandolo con l'affetto di figli orbati del padre, con la devozione di discepoli umili, i quali cercano seguire sulla via aspra la lontana visione luminosa che posa nel giusto, ed a l'alto mira, e s'irradia ne l'ideale.

Egli era piccolo di statura, ed esile, come Mazzini; i suoi penetranti occhi chiari si fissavano sulla meta, attraverso tutti gli ostacoli; la sua voce limpida e calda, che s'udiva lontano, chiamava a raccolta, la grande sua anima sfolgorante infiammava le anime intorno, finché dallo spirito incandescente balzavano la fede, e la volontà vittoriosa.

Infinito è il rimpianto di chi non l'ha potuto conoscere, di chi non ha potuto condividere quella sua magnifica vita dolorosa, lottando e soffrendo con lui nella città che egli curava ed abbelliva con tanta passione: la sua e la nostra Spalato.

Ah, se si avesse potuto incontrarlo, l'uomo il quale nella grandezza del genio sapeva serbare le qualità profonde che sono l'essenza dell'anima: la bontà inesausta, la rettitudine inflessibile!

Incontrarlo, parlargli nel dolce dialetta veneto ch'ei sempre usava, vedere il suo sguardo illuminarsi dietro gli occhiali, suscitare il suo sorriso, e volgersi a guardarlo ancora, mentre si allontanava lungo la Marina, col suo passo nervoso, o si fermava per accarezzare qualche fanciullo accorrente a salutarlo, «el nostro podestà».

Per consolare il rimpianto, si sfoglia con passione ogni libro che dice di lui, ognuna delle lettere, ognuno dei discorsi mirabili; e in mezzo alla polemica, in mezzo al ragionamento serrato, in mezzo alla calzante ironia, simile a un riso d'arcobaleno sopra un cielo tempestoso, si rivela l'anima limpida, fierissima e suave del grande Italiano.

Eccone alcuni, dei suoi pensieri; il rileggerli è un innalzarsi: 

«La sventura in animi forti è scintilla di bene».


«In un momento, in cui la mia povera patria è colpita dalla massima delle sventure, e cade vittima di una lotta impari e altamente immorale, io non credo opera di patria carità sollevare il velo di piaghe e dolori che sanguinano crudamente; io non credo di poter trovare conforto all'amarezza che lacera l'animo mio colla narrazione delle improntitudini e degli errori altrui; io non credo, in poche parole, di dover aggiungere dolore a dolore».

«Se vogliamo combatierci, facciamolo pure da leali avversarii, ma non lediamo la lealtà, non offendiamo la giustizia, e — sopratutto — non calpestiamo l'onore».

«Leale anzi tutto: è alla stima degli onesti ch'io unicamente aspiro».

«La verità, se par dura talvolta, giova a conforto dei buoni, a rimprovero de' malvagi».

«Qualunque individualità, per splendida che fosse, dovrebbe scamparire assolutamente dinanzi al bene della patria».

«La religione, questo raggio di luce, questa stella polare dell'uomo, savestita da ogni materialismo, che insozza lo spirito».

«La sventura purifica l'uomo».

«Nessuna gioia, solo dolore e vanto dà l'appartenere al partito italiano in Dalmazia».

«Gridiamo senza posa di tra i sassi che ci sono scagliati da tutte le parti, poiché altro non possiamo fare. Qualcuno raccoglierà il nostro grido».

«A noi, Italiani della Dalmazia, non rimane che un solo diritto, quello di soffrire».

«Ovunque si possa si deve agire; il non farlo, più che un errore «sarebbe una colpa».

Sia Egli vicino a noi tutti, spirito tutelare, ma specialmente vicino ai suoi Dalmati esuli — esuli sempre, se in Italia dalla Dalmazia, se in Dalmazia dall'Italia; — ed egli ci ispiri la forza costante, la costantissima fede, l'amore vittorioso del tempo e della morte, l'Amore che ci ricondurrà laggiù dov'è il cuore lacerato d'Italia, nella terra santa bagnata dal sangue di Francesco Rismondo.

MARIA ELENA CASELLA

Agosto, 1922.

I nostri morti

Al pari delle altre provincie sorelle all'annuncio quasi insperato dell'entrata in guerra dell'Italia nostra contro il secolare oppressore, la Dalmazia esultante e fidente volle offrire alla Patria il suo contributo di sangue e di ardente passione italica. Una balda schiera di dalmati, fiore della gioventù anelante di libertà, si unì all'Esercito ed alla Marina d'Italia per portare. sulle martoriate rocce del Carso e sul mare insidiaso e prigioniero, la voce della Dalmazia fedele. 

Oltre un centinaio di giovani, sprezzanti del pericolo, insaziabili di vendetta, anelanti di sacrificare le loro giovinezze, seppero eludere la feroce vigilanza delle truppe imperiali, ed attraverso ostacoli insormontabili, con grave rischio per la propria esistenza corsero fra le braccia dei fratelli lungamente invocati e sospirati. 

Piccolo manipolo di forti, i dalmati eroicamente lottarono e gloriosamente difesero con il loro sangue il sacro tricolore della Patria.

Benevenia Menotti
Codognato Francesco
Croce Egidio
Croce Renato
Fabbrovich Ferruccio
Kraljevic-Orlandini Roberto
Kraljevic-Orlandini Mirando
Linz Orio
Rismondo Francesco 
Zongaro Umberto
Zongaro Giacomo
Zink Eneo
Zink Ezio

segnarono con il loro sangue generoso la via della Redenzione e della Gloria.

Alla testa del glorioso manipolo dei dalmati morti per la Patria cavalca con le chiome al vento il martire di Spalato, Francesco Rismondo. Tinge del suo nobile sangue invendicato le italiche contrade tradite dopo il suo sacrificio e la sublime Vittoria degli Eroi. Lo seguono le ombre accigliate di Gulli e Rossi, i nuovi martiri senza vendetta, l'anima giovinetta di Riccardo Vuccassovich figlio e martire della città di Diocleziano.

Vanno le ombre gloriose verso la patria di Antonio Bajamonti, ed al cospetto del Podestà magnifico, frementi rinnovano il giuramento sacro.

Lo scoprimento del busto in onore di Antonio Baiamonti

LO SCOPRIMENTO DEL BUSTO 

IN ONORE 

DI ΑΝΤΟΝΙΟ ΒΑΙΑΜΟΝΤΙ 

(Dalla cronaca dei giornali locali)


Il 13 ottobre 1922 appariva sugli albi di Trieste il seguente manifesto della Società Dalmatica:


Fratelli di Trieste!

Or è un secolo a Spalato invendicata nasceva

Antonio Baiamonti

il più gagliardo figlio di Dalmazia che, con il sacrificio di tutte le sue forze vitali, mantenne sacro nella coscienza della sua città l'amore per la Madrepatria. 

Podestà mirabile di Spalato, ingegno robustissimo, animo generoso e fiero Antonio Balamonti fu per tutta Dalmazia l'Apostolo d'una dottrina sublime e feconda donde la terra romano-veneta seppe trarre maggior vigore alla lotta combattuta arduamente sul campo arido della tirannia perversa intenta a sopprimere nel cuore del popolo dalmata il sentimento ingenito delle supreme idealità che avevano un solo nome: Italia. Invocato come un profeta in tutte le circostanze della vita nazionale delia Dalmazia, oggi all'Immortale Baiamonti volto il pensiero delle genti irredente costrette a subire l'oppressione d'una nuova schiavitù.


Fratelli d'Italia!

In questo infausto periodo della storia nazionale di Dalmazia ridestate nelle vostre coscienze il dovere d'Italiani, il sacro dovere di difendere gli estremi baluardi della Patria e della civilta vostra.

Onorate e commemorate nei vostri cuori il nome di Antonio Balamonti, il padre della nuovissima fede adriatica, la cui immagine di bronzo, opera viva della grande arte, oggi sorge superba a Trieste redenta ed è ferma in quest'ora di passione come la visione del nostro mare, di quel mare ch'è segno più puro e più assoluto del riscatto del popolo italiano, dell'unità nazionale e del trionfo della nuova civiltà mondiale, 

Viva l'Italia! 

Viva la Dalmazia italiana!

Per la Dalmazia

PER LA DALMAZIA
ai Mani di Antonio Baiamonti

Non la libertà del Mare Nostro, sitibondo 
di perenne sangue, quasi fosse in vano quello
che per l'Urbe, contro a Uscocchi, venne sparto da Metello, 
contro a Slavi, per San Marco, da Orseolo Secondo;

non quell'Arce d'Apennino, ch'ultima ti chiude
col Dinara, Italia, d'onde nasce a te il mattino;
non quel lito portuoso, ch'è tuo spalto e tuo confino, 
irto di seicento navi, di rostrate isole ignude;

non le mura e non i templi, di Roma e Venezia, 
con l'eloquio nostro, impronta fausta di quei porti; 
non le tombe nove sperse tra 'I mar d'Affrica e la Rezia,
olocausto a la Gran Madre, de' seicentomila Morti:

e non anco la vittoria maggiore di Roma,
maraviglia mai sognata, che su i tempi spazia, 
a l'Italia hanno ridata, prona sotto a l'aspra soma 
de l'ignavia secolare, la mia terra di Dalmazia.

Campoformido l'aombra, e l'inulta Lissa,
la dimane di Vittorio Veneto e Premuda,
questa Madre nostra Italia, da' suoi figli irrisa e scissa,
che, pur fisa al suo Destino, tace ed opra e sangue suda.

Terra de' miei Padri, attendi. Tempo è di silenzio.
Soffri senza grido, e imita la Madre immortale.
Santo è il sangue del martirio, pur quando Adria sa d'assenzio, 
s'esso innovi i cittadini de la Patria imperiale.

Chè se il secolo rammenti de la servitù,
o Dalmazia, e se l'incombe lonta di Rapallo, 
pensa e venera chi ha tolto il vessillo nero e gialio 
dal tuo suol, quando rifulser tutte l'itale virtù.

Fu prodigio di breve ora, nel gerontocomio
de l'Italia, anzi che fosse ogni viltà morta.
Ma fu tal che questa Patria ne perman tuttora assorta
in sua luce, indifferente a l'insulto et a l'encomio.

Luce è d'alba, che l'avvolge, nuncia del suo giorno,
che pur te nel tuo patire, o Dalmazia, ischiara
Veglia e spera. Chè l'Italia fatto ha ormai a te ritorno.
Salda è l'ancora a la fonda nel tuo cuore istesso, in Zara.

Luglio MCMXII.

Antonio Cippico

Un discorso non pronunziato

Richiesto dai Dalmati esuli a Trieste di un contributo alla pubblicazione commemorativa del grande Bajamonti, ho creduto opportuno ricercare fra i miei vecchi appunti un discorso che doveva essere tenuto sullo scorcio di quel tristissimo ottobre del 1920 a Milano, quando l'infamia non era ancora consumata ma si maturava ne l'ombra e che la polizia di Giovanni Giolitti mi impedì a tutti i costi di pronunciare.

Ho voluto lasciare queste pagine così come mi scaturirono dall'anima piagata in quella sera, quando stanca di violenza e di vergogna ne dettai allo stesso nel silenzio della mia stanza; la Bandiera di Pastro era stata invano spiegata e anche le mie povere mani di legno che uniche insorgeveno nella suprema viltà dell'ora vennero strappate e calpestate nel fango insieme alla speranza Dalmata e alla vittoria Italiana.

Quei giorni sono remoti e le mie parole soffrono il peso dei tempi mutati e della distanza ma io ho voluto lasciarle così, sconnesse, con gestionate sincere; non sono un saggio di dottrina ma il documento di un'anima, sono la confessione di un pellegrino, reduce dal Santuario che voleva dire la sua fede ritrovata al popolo miscredente, hanno la vivezza e la crudità di una piaga che non è ancora richiusa e non sarà mai che altri, leggendo, si accorga che l'oblio non è una medicina e sotto la polvere e le bende la ferita è sempre tutta rossa e aperta.

Da quando ritornammo a fare brancolando i primi passi nel mondo per portare un messaggio di luce attraverso le tenebre a tutta la patria chiamata a raccolta dall'urlo angoscioso della sconfitta, da quando lasciammo le corsie nere dell'ospedale dei ciechi nella solitudine taciturna della rinunzia sempiterna per riapparire pallidi ed esangui sulla scena del mondo a rinnovare l'olocausto e l'offerta agli occhi della moltitudine, dalle gelide albe di allora che davano i primi pallori sul nostro viso bianco, che davano i primi rossori sulle nostre cicatrici vermiglie a questo desolante crepuscolo senza fine nella tremenda incertezza della luce sospesa fra la notte e il giorno, in questi tre anni di freddi sudori e di febbri sorde che hanno bruciata in un'ora tutta la nostra giovinezza, noi non avevamo più avuta una settimana di sole e di sogno come quella che abbiamo trascorsa sull'altra riva così vicini alla realtà da piangere e tanto lontani da sorridere.

Come dimenticare? L'anima del popolo palpitante nell'aria come un immensa bandiera issata alle cime della speranza, un canto possente come la voce del mare, un silenzio più vasto della quiete della montagna e nella moltitudine invisibile pareva di parlare all'infinito in nome del morti... l'orizzonte bruciava al tramonto come una camicia rossa incerata dagli ultimi raggi come da una selva di sciabole d'oro ed il sangue colava nel mare a torrenti.

Come dimenticare? Sulla riva una pioggia di fiori; un'improvvisa primavera sbocciava dal solco della nostra sventura e dopo un inverno di molti anni potevamo sull'ultimo lembo della patria ricogliere le rose della nostra giovinezza sepolta; ridevano di nascoto le nostre ferite, ridevano le sorgenti del sangue per sempre richiuse nella voglia di riscaturire ridevano davanti alla messe florita contonte d'aver seminato senza speranza nella fatica dell'uomo, ma fiduciose nel vento e nel sole di Dio.

Come dimenticare? Le labbra delle fanciulle schiudevano fiori di melograno sull'avorio candido dei denti alla luce di un dolce sorriso, e gli occhi brillavano sotto un velo di pianto come stelle nello specchio del mare; la gioia confinava con la sofferenza e la tristezza con l'entusiasmo. C'era nell'aria una soave poesia d'amore bagnata di pianto, un tepore ideale che riscaldava lo spirito, una freschezza di sentimento che lo dissetava; c'era un odore consolante di umanità, una luce di divina passione, un'intima armonia tra la terra e il ciclo tra l' uomo e Dio, tra la vita e l'eternità.

Il coro della moltitudine faceva tremare le volte del firmamento come un'immensa preghiera, cresceva oscurandosi come in una tremenda minaccia, si apriva nel largo respiro di un canto spezzandosi poi in un singhiozzo fino a soffocare in un silenzio senza fiato.

Che cosa non abbiamo sentita nella voce del popolo su quella riva? C'era la rampogna ai vivi e il ringraziamento al morti, c'era l'umiltà della preghiera e la ribellione della minaccia, c'erano l'odio e l'amore, la disperazione e la fede, la maledizione e il bacio, lo schiaffo e la carezza. E noi ci siamo accorti come dalla Dalmazia lontana e dimenticata battesse per tutta l'Italia assente ed immemore il cuore di tutta la patria. 

Noi che eravamo andati al santuario per adorare l'immagine ci siamo trovati davanti al miracolo del sangue e abbiamo provato un rimorso vicino alla consolazione e una gioia profonda come un pentimento. Noi non avevamo mai sentito come la nostra sventura fosse un privilegio e una benedizione; non avevamo mai sentito come allora che la nostra mano perduta ritornava nella carezza del vento e nello schiaffo della bufera, che la nostra cecità era una visione più lontana, che il nostro dolore era un'insegna e la nostra vita una missione: allora noi sentimmo come non mai che la nostra rovina era un piedestallo, il nostro sacrificio una bandiera e ci parve che fra le nostre braccia diventasse uno scettro anche la croce.

Da quel giorno facemmo un giuramento e gli terremo fede fino in fondo: giurammo che dovunque, nel cerchio chiuso dell'amicizia e della casa, nel campo aperto del teatro e della piazza sempre avremmo gittata la nostra parola a costo di parlare al deserto e di seminare sulla sabbia e la nostra parola sarebbe stata quella di tutta la Dalmazia. Giurammo e oggi in questa città delle sante barricate gittiamo il grido della Dalmazia lontana sperando che la vedetta del risorgimento suonerà per la terza volta la diana della riscossa.

Rispondiamo a questa voce della Patria in esilio che ci porta il sale di quell'Adriatico che noi cercammo di addolcire con tutto il nostro sangue e che i nostri fratelli rifecero amaro con tutto il loro pianto: raccogliamo l'allarme che le ultime sentinelle della Patria urlano all'Italia addormentata ed assente. Sono pochi superstiti nella fortezza assediata da secoli ma hanno combattuto senza bandiera, hanno aspettato senza speranza e non meritano l'ingratitudine dell'abbandono e l'abbominio del tradimento.

Sono i fedeli che hanno pregato fuori del tempio, le scolte che vegliarono da sole fuori nella trincee e non vollero arrendersi anche quando la battaglia sembrava perduta per sempre e continuarono a pronunziare in italiano le loro preghiere, a squillare in italiano le loro canzoni.

Sono pochi ma ognuno di loro ha avuto il cuore di un popolo e la fede di una generazione; sono pochi ma ognuno di loro è l'Italia nella sua povertà e nella sua gloria; sono pochi ma sono i vincitori della più lunga guerra combattuta alle porte della casa, nel tempio e nella scuola, nel cuore della famiglia, sono i campioni della razza che hanno domato il tempo e la distanza, l'oblio e la morte.

Noi che una sera approdammo sfiduciati e stanchi sulla riva dalmata sentimmo come quella terra e quella gente fossero le più italiane del mondo: la Dalmazia che vive, che soffre, che ama, che spera, la Dalmazia che sente, che crede, che pensa, è italiana; il resto è umanità greggia e potrà fondersi nel crogiuolo della nostra civiltà per essere riplasmata dal genio della nostra stirpe.

Basta avventurarsi nell'interno per accorgersi che le genti del contado arretrate di molti secoli non hanno idea nazionale né coscienza di popolo; le tradizioni e i costumi sono quelli di una popolazione uscita ieri dalle tenebre delle barbarie che lungi dall'avere trovata l'unità della Patria fatica ancora attorno al nucleo della famiglia e domani dovrà accostarsi al focolare della nostra civiltà per riscaldarsi e alla luce del nostro pensiero per leggere i segni del suo destino.

Parlare di irredentismo entro i nostri confini sarebbe falso ed assurdo. Quale irredentismo? Quello dei mestatori croati pagati dall'oro internazionale che piangono ancora il trialismo dell'impero e la servitù perduta, quello dei preti inconsolabili che volentieri ritornerebbero ai bei tempi passati quando la maestà cattolica andava in processione del clero e la forca sovrana faceva parte della croce? Essi hanno la patria di chi li paga; lacché disoccupati in cerca di un padrone, servirauno domani come servirono ieri alla corte del vincitore. Soltanto i fratelli dalmati, avanguardia della Patria al di là del mare, se domani fossero abbandonati riaccenderebbero la fiaccola della rivolta per dare alla luce del martirio i loro cavalieri e i loro profeti finché un'Italia meno ingrata non sentirà la voce del sangue e la potenza dell'amore.

Ma gli inqualificabili piagnoni della rinunzia, gli apologisti del suicidio nazionale non sanno che nella terra dalmata tutto è italiano dal cielo che si respira al pane che si mangia, dalla faccia delle città e dei villaggi alla parola che ci fa riconoscere di lontano, non sanno che dalle guglie delle cattedrali ai merli dei palazzi, dalle voci delle campane ai canti di popolo, è tutta una musica italiana che inneggia alla Patria immortale, non sanno che laggiù ogni pietra e ogni solco, ogni linea, ogni colore, ogni pensiero e ogni accento sono sempre italiani.

Nell'isola di Curzola un nostro soldato poteva incidere sullo scoglio queste parole decisive come una sentenza: «Se trovi una pietra che non sia veneziana, scagliamela.»

Non hanno udito i rétori del cinismo e dell'indifferenza, le anime dannate dell'alta banca, i parricidi e i mercanti nazionalisti delle patrie altrui, non hanno uditi i canti del popolo quando salgono ardenti come una preghiera, quando scendono gravi come un giuramento, quando sforzano come una ironia e quando baciano come una carezza, quando si accendono come l'entusiasmo, quando si spengono nella tristezza: non li hanno uditi i canti del popolo che parlano della Patria e della madre, che parlano della morte e della gloria e sperano e soffrono e sorridono e piangono, i canti del popolo che nella Dalmazia risuonano come diane della libertà alla vigilia della riscossa.

C'è in questo rifiorire di canti come un ritorno improvviso del '48 quando i volontari partivano accompagnati dalle canzoni i poeti della musica e del verso interpretavano l'anima della Patria negli inni della redenzione.

E non è dire che l'italianità sia un capriccio intellettuale degli aristocratici, un bisogno ideale di arricchiti disoccupati e di nobili distratti: purtroppo certi alti papaveri sapevano vivacchiare anche all'ombra delle feluche austriache raccattando prebende e decorazioni e riducendo la passione della Patria ad un piacevole giuoco di parte: ma il popolo vero quello delle officine e dei fondachi, quello delle casupole lontane dai palagi e vicine al mare, assetate d'aria libera, non ha mai portata la livrea e piegata la schiena e sono gli scaricatori del porto e i braccianti della campagna che vogliono la miseria italiana piuttosto che l'agiatezza straniera e chiedono un grande tricolore sulla torre e un pane scuro nella casa.

Vorremmo abbandonare alla vendetta dello straniero le donne che accolsero in ginocchio sulla riva i primi marinai e i primi fanti d'Italia, le donne che abbracciarono i liberatori baciandoli sulle ferite e sulle decorazioni, i fanciulli che nel segreto della casa impararono a pregare Iddio nella nostra lingua, i giovani che sotto le odiate bandiere dovettero ribadire le catene del servaggio, i vecchi che già un'altra volta seppero l'ingiustizia dell'oblio nell'ora della sconfitta e non ammainarono il segno di fortuna, vorremmo lasciarli in balia di una gente che forse non può perdonare all'Italia una libertà mai aspettata e voluta?

Domandate al fratelli di Spalato perseguitati dalla marmaglia croata se la nuova tirannia non sia peggiore dell'antica; domandate ai fratelli di Spalato se hanno potuto ospitare per l'ultimo sonno in grembo alla terra natia i marinai d'Italia assassinati dai vecchi carcerieri dell'impero; domandate al fratelli di Spalato quante percosse e quante ingiurie costarono loro i fiori di riconoscenza e di amore deposti sulle bare degli ultimi eroi. Domandate agli slavi della zona occupata che cosa hanno portato i nostri fanti in mezzo a loro, i nostri semplici fanti che in ogni donna straniera hanno veduta una sorella ed una mamma che diceva con altre parole lo stesso grande amore, i nostri semplici fanti che in ogni casa straniera hanno rispettata la loro casa lontana e vi sono entrati a capo scoperto con il cuore in mano con quella santa umanità italiana che accomuna, affratella, ama, compatisce e perdona. Domandate! — E poi vedremo quale sarà l'ingiustizia peggiore, se abbandonare gl'italiani al croati o i croati agli italiani.

Abramo Lincoln un altro presidente che non tenne cattedra di filosofia mondiale ne fece il Salomone nelle contese del mondo, ma oprò per la giustizia e per l'amore, scrivendo a Giuseppe Mazzini, rammentava che i Serbi popolo selvaggio appena uscito dalla barbaria avrebbe dovuto vivere, imparare e migliorarsi prima di assidersi accanto ai popoli civili.

L'Austria moribonda, quando lasciava in eredità ai suol sgherri fedeli l'armata sconfitta senza la poesia di una battaglia sapeva che essi, i prediletti nipoti avrebbero continuata l'opera sua contro l'Italia. Questa Austria rediviva che i nostri soldati avevano demolita per sempre e alleati e nemici vollero risuscitare al nostro fianco, questo mosaico di razze diverse di religione, di storia, di lingua, questo simulacro di Nazione, aborto della diplomazia piuttosto che creatura del popolo, come potrebbe accusare l'Italia?

Come potrebbe accusarla se non ancora nata dimostrò l'anima sua rapace di ogni libertà vicina e lontana, se gli atti del suo governo furono di prepotenza e di sopraffazione, carnefice del Montenegro, carceriere di Dalmazia, invasore nell'Albania e nella Carinzia? Come potrebbero accusare l'Italia, gli altri alleati nel bisogno e nemici nella vittoria che già si spartiscono i tre quarti del mondo per invidiare l'unità della Patria a questa proletaria di tutte le genti che non ha altra ricchezza se non il sangue dei suoi soldati, il sudore dei suoi lavoratori e il genio dei suoi poeti? Perché dietro questa Jugoslavia malaticcia, prepotente e cenciosa c'è lo straniero che soffia e che paga, c'è il ricatto internazionale del carbone e del pane, c'è la coalizione usuraia del ferro e dell'oro che congiurano contro l'Italia che nella povertà generosa rappresenta l'onestà del lavoro: dietro l'arroganza dei sicari c'è la paura dei padroni e l'interesse dei potenti che non vorrebbero vedere l'Italia signora dell'Adriatico accamparsi nel Mediterraneo. In questa sacra battaglia più che l'avvenire della Patria noi difendiamo la libertà umana che volemmo salvare dalla spada prussiana non perché fosse venduta sulle bilancie dei mercanti: a questo invisibile giogo dell'oro avremmo preferita la prepotenza del ferro; soggiaceremmo piuttosto alla violenza che al ricatto, vorremmo essere piuttosto schiavi che servi. Se ancora una volta la nostra bandiera sull'altra riva vuol dire libertà e giustizia perché dovrebbe essere ammainata davanti al mercanti di fuori e ai venduti di dentro? Ma lasciamo che i governanti riprendano le vie traverse e i vicoli oscuri e guardiamo piuttosto i nostri soldati che non fanno discorsi e non imbrattano carte ma scrivono sulla roccia viva del Dinara dei versi che possono mancare di piedi ma hanno tutte le ali:

Il fante se ne andrà 
quando il Dinara con lui ne verrà

parole anonime come le croci del Carso che vogliono dire la volontà dei morti per tutta la Patria.

Noi non abbiamo che da imparare quello che il fante ha scritto cercando di renderci degni di tanto amore e di tanta costanza; non abbiamo che da eseguire il comandamento del morti con obbedienza devota.

I marinai e i soldati d'Italia che hanno ritrovata in Dalmazia l'anima della Patria non torneranno indietro anche se i governanti che già premiarono i disertori daranno l'ordine del tradimento.

Giuriamo anche noi come hanno giurato i soldati dal mezzo all'ammiraglio, dal generale al fante, rinnoviamo quel giuramento che per tutte le vittime del sogno pronunziammo una sera in Sebenico d'Italia in un incendio di entusiasmo che bruciava anche sotto la pioggia del pianto.

Purtroppo il giuramento non venne mantenuto ma non per tradimento dei fanti e quella sera istessa ricevendo dalle mani delle fanciulle dalmate un mazzo di rose sanguigne, mi parve che esse si posassero sull'anima mia con un odore di morte... agonizzava in quei giorni la libertà dalmata invano dal nostro sangue rivendicata.

CARLO DELCROIX

Leopoldo Metlicovitz

Leopoldo Metlicovitz (il cognome della famiglia era in origine Metlicovich) (Trieste, 17 luglio 1868 – Ponte Lambro, 19 ottobre 1944) è stato un pittore, illustratore e cartellonista italiano.

È considerato uno dei padri del moderno cartellonismo italiano, assieme a Leonetto Cappiello, Adolf Hohenstein, Giovanni Maria Mataloni e Marcello Dudovich.

Figlio di Leopoldo, commerciante di origini dalmate e di Angela Sbisà, giovanissimo inizia a lavorare nell'attività familiare e a quattordici anni entra come apprendista in una tipografia di Udine, dove impara la tecnica della litografia. Trasferitosi a Milano nel 1888 per lavorare presso la ditta Tensi, azienda di prodotti fotografici, viene qualche anno dopo notato da Giulio Ricordi, titolare della omonima casa musicale e delle Officine Grafiche, che gli propone una collaborazione.

Nel 1892 entra in Ricordi come direttore tecnico. All'inizio fa pratica trasponendo i lavori di altri celebri cartellonisti come Hohenstein e Mataloni sulla pietra litografica, poi, grazie al suo talento pittorico sempre più apprezzato, inizia l'attività come disegnatore autonomo creando manifesti e illustrazioni per Ricordi. Verso la fine del secolo, il suo lavoro si lega sempre più all'attività teatrale e musicale milanese: molte delle opere dei più famosi compositori dell'epoca sono reclamizzate dai cartelloni firmati da Metlicovitz, da quelle di Giacomo Puccini come Tosca (1900), Madama Butterfly (1904) e Turandot (1926) a Iris di Pietro Mascagni (1898), a Conchita di Riccardo Zandonai (1911). Oltre che cartellonista, è scenografo e costumista per il Teatro alla Scala, illustratore di libretti, spartiti, calendari e riviste.

Grazie a Giulio Ricordi conosce personalmente Verdi e Puccini e può usufruire del palco riservato alla famiglia Ricordi alla Scala. In questo periodo di intense frequentazioni artistiche, Metlicoviz conosce Elvira Lazzaroni (1887-1941), attrice di teatro di quasi vent'anni più giovane di lui, che più tardi diverrà sua moglie.

A fine Ottocento i Grandi Magazzini Mele di Napoli cominciano ad affidare alle Officine Ricordi la campagna pubblicitaria per i propri capi di abbigliamento, una delle prime su larga scala. La collaborazione durerà dal 1898 al 1915 e gli artefici del successo sono i manifesti creati da Metlicovitz insieme ad Aleardo Terzi, Dudovich, Cappiello ed altri.

Nel 1906, in occasione della grande Esposizione Universale a Milano, Metlicovitz vince il concorso per il manifesto simbolo della fiera, dedicata al Traforo del Sempione, affermandosi sempre più come cartellonista. Sono decine le copertine di riviste, spartiti e libretti d'opera pubblicati da Ricordi, che recano la sua firma fra cui le riviste Musica e musicisti (1902-1905) e Ars et Labor (1906-1912); suoi lavori come illustratore appaiono anche su La Lettura (1906-1907,1909) mensile del Corriere della Sera.

A partire soprattutto dagli inizi del Novecento dalle Officine Grafiche Ricordi escono in vendita diversi prodotti frutto di un merchandising ante-litteram, grazie allo spirito imprenditoriale di Giulio Ricordi, e molti recano la firma di Leopoldo Metlicovitz come L'Almanacco Verdiano del 1902 o le serie di cartoline illustrate di tema musicale come quelle per le opere La Bohème, Tosca, Madama Butterfly, o Germania di Alberto Franchetti.

Con Elvira Lazzaroni, Metlicoviz gira l'Europa visitando le città e le capitali più ricche di fermenti culturali e di vita mondana. Nel 1907, su incarico di Ricordi, si reca a Buenos Aires per valutare la gestione di un'azienda grafica locale; arriva il primo figlio, Roberto (Milano, 1908-?) e i due decidono di unirsi in matrimonio. Nel 1910 i coniugi compiono un secondo viaggio in Argentina (vissuto dai due anche come viaggio di nozze) sempre per conto di Ricordi, che vorrebbe affidare a lui la direzione dell'azienda locale, incarico che l'artista tuttavia non ricoprirà. Molti cartelloni realizzati per il mercato argentino verranno poi riprodotti in Italia negli anni '20.

Il 1912 è un anno cruciale: nasce la seconda figlia, Leopolda (1912-2008) e muore Giulio Ricordi; Metlicoviz si sposterà gradualmente nella villa di Ponte Lambro, che prima veniva utilizzata solo nei periodi di villeggiatura e nel 1915, sfollato dal capoluogo lombardo, diventerà la sua dimora fissa, pur continuando ad utilizzare lo studio presso la Ricordi. In quegli anni il matrimonio entra in crisi e la moglie abbandonerà lui e i figli tanto che la sorella di Leopoldo verrà chiamata a vivere con loro per sostituire la figura materna.

Nel 1914 Metlicovitz è anche uno dei disegnatori, insieme ad Armando Vassallo, Luigi Caldanzano e Adolfo De Carolis, coinvolti nel lancio del film Cabiria, un kolossal del muto sceneggiato da Gabriele D'Annunzio, per cui realizzerà ben quattro manifesti. Sue anche alcune serie di Figurine Liebig e il marchio di fabbrica che ancora oggi viene utilizzato dalle Fratelli Branca Distillerie, produttrici del Fernet Branca, raffigurante un'aquila che ghermisce con le ali spiegate una bottiglia del liquore al di sopra di un globo terracqueo.

Terminata nel 1938 la collaborazione con Casa Ricordi, si concentra sempre più sulla pittura, prediligendo il paesaggio e il ritratto e partecipando alle prime edizioni del Premio Cremona (1939-1940). Il 19 ottobre 1943 muore nella sua casa a Ponte Lambro.

Marcello Dudovich

Marcello Dudovich (Trieste, 21 marzo 1878 – Milano, 31 marzo 1962) è stato un pubblicitario, pittore e illustratore italiano.

Assieme a Leonetto Cappiello, Adolf Hohenstein, Giovanni Maria Mataloni e Leopoldo Metlicovitz è stato uno dei padri del moderno cartellonismo pubblicitario italiano.

Marcello Dudovich nasce a Trieste nel 1878 da famiglia dalmata. Il padre Antonio lavorò come impiegato delle Assicurazioni Generali e indossò la camicia rossa garibaldina. La madre triestina, Elisabetta Cadorini, fu una pianista. È il terzo di quattro fratelli: Maria, Itala e Manlio. La formazione di Marcello avviene presso le scuole "reali" (corrispondenti agli istituti tecnici dell'attuale ordinamento) della sua città, istituto d'arte professionale, ragazzo svogliato e indisciplinato ma molto curioso e portato per il disegno. Inserito dal cugino, il pittore Guido Grimani, nell'ambiente del “Circolo Artistico Triestino”, frequenta gli atelier dei pittori triestini, entrando in contatto con i grandi artisti conterranei, quali Eugenio Scomparini e Arturo Rietti.

Da Trieste si trasferisce a Milano nel 1897. Grazie all'amicizia del padre con Leopoldo Metlicovitz, all'epoca già affermato pittore e cartellonista, Marcello viene assunto come litografo alle Officine Grafiche Ricordi. In questo ambiente, l'artista ha modo di confrontarsi con i lavori di alcuni dei più apprezzati cartellonisti dell'epoca, come Adolf Hohenstein, Aleardo Villa, Leonetto Cappiello, Giovanni Maria Mataloni e viene incaricato di realizzare bozzetti per la pubblicità. Amplia la sua formazione frequentando nel 1898 corsi di disegno accademico e di studio del nudo presso la Società Artistica Patriottica di Milano e apre uno studio di pittura assieme a Metlicovitz e al pittore greco Arvanitaki. Inizia a produrre autonomamente le prime opere di grafica pubblicitaria per la Ricordi ma anche per altri stabilimenti litografici quali Gualapini, Cantarella e Modiano.

Nel 1899, anno saliente nella sua vicenda artistica, viene chiamato a Bologna per lavorare presso lo Stabilimento Grafico di Edmondo Chappuis. L'artista, pur lasciando Milano, continua il suo rapporto di lavoro con le Officine Grafiche Ricordi. È nel capoluogo emiliano che inizia a produrre cartelloni pubblicitari, copertine, illustrazioni e schizzi per varie riviste; corrispondono proprio a questi anni le prime opere autonome e complete, firmate da Marcello. In questo periodo è anche illustratore di ruolo della rivista Fantasio nel 1902, edita a Roma e specializzata in letteratura, critica e varietà. Nel 1900 realizza manifesti che lo portano a vincere per tre anni consecutivi, dal 1900 al 1902, il concorso Feste di primavera bandito dalla Società per il Risveglio della Vita cittadina: diventa indiscusso caposcuola del cartellonismo italiano, arrivando a vincere anche la Medaglia d'Oro all'Esposizione Universale di Parigi del 1900.

Partecipa nel 1902 all'Esposizione Internazionale d'Arte Decorativa Moderna a Torino, esponendo il manifesto Fisso l'idea sotto la sigla societaria della cooperativa artistica Æmilia Ars, famosa per lo studio di antichi modelli del rinascimento, della lavorazione del gioiello, del cuoio, dei mobili e della ceramica. Collabora nel 1904 con la rivista d'arti e lettere Novissima, diretta da Edoardo De Fonseca. La rivista, divulgata per dieci anni, fu considerata il Manifesto della Grafica Moderna, una raffinata pubblicazione italiana dedicata all'arte della decorazione del libro e di ruolo fondamentale nei riguardi dello stile Liberty, in cui collaborarono i maggiori artisti dell'epoca: oltre a Dudovich vi furono Ferruccio Baruffi, Luigi Bompard, Felice Casorati, Giacomo Balla, Gaetano Previati.

L'artista rimarrà a Bologna per sei anni produttivi e qui conoscerà la futura moglie, Elisa Bucchi, giornalista di moda originaria di Faenza che rappresenterà la musa ispiratrice dei bei tratti femminili raffigurati nelle sue campagne pubblicitarie. La donna ha già un figlio, Ernesto, al quale Dudovich darà poi il proprio cognome. L'unica figlia di Elisa e Marcello è Adriana, che sposerà nel 1935 Walter Resentera, un giovane pittore veneto. Insieme al giovane, suo grande ammiratore trasferitosi a Milano col fermo proposito di diventare suo allievo, Dudovich inizierà una lunga cooperazione, sia nel campo del manifesto sia in quello della decorazione murale. Instaura in questo periodo rapporti artistici e storici con la città di Firenze, nella quale da molti anni opera Alfonso Rubbiani e la sua scuola di giovani artisti.

Lavora per il periodico umoristico bolognese Italia Ride, per il quale realizzerà numerose illustrazioni, vignette satiriche e decorative, una rivista proiettata verso una visione moderna dell'arte contemporanea che sfocia pian piano nella nuova e stimolante Art Nouveau. Questa collaborazione lo porta a stretto contatto con i più importanti personaggi di spicco dell'avanguardia italiana quali Augusto Majani, in arte Nasìca, direttore artistico, Augusto Sezanne, Luigi Bompard, Ugo Valeri, Ardengo Soffici, Galileo Chini e altri rinnovatori, dalla cui frequentazione l'artista trae ulteriore motivo di crescita. Rimane a Bologna fino al 1905, anno in cui termina la cooperazione con lo stabilimento Chappuis di Bologna, a causa di una indiscutibile tendenza del triestino alla libertà professionale, nella ricerca di sempre nuove esperienze che certo poteva concretizzare in città molto più industrializzate come Milano.

Nell'ottobre del 1905 giunge a Dudovich un invito dall'editore Armanino a recarsi a Genova e, nonostante l'entusiasmo iniziale, il capoluogo ligure non riesce ad offrirgli l'ideale ambiente lavorativo. Torna nuovamente a Milano nel 1906, dove prepara un avvenimento d'importanza europea: l'Esposizione Internazionale, collegata all'inaugurazione del Traforo del Sempione. Ristabiliti i rapporti con le Officine Grafiche Ricordi, l'artista partecipa con gli altri cartellonisti della scuderia al concorso indetto per scegliere il manifesto pubblicitario che rappresenterà l'Esposizione. Dopo i riconoscimenti ricevuti per l'inaugurazione del Traforo del Sempione, viene affidato a Dudovich l'incarico di decorare le pareti esterne del padiglione italiano di arte decorativa all'Esposizione Internazionale di Milano, devastato da un incendio. Dudovich, ormai maestro emergente nel panorama della grafica dell'inizio secolo, guarda con attento interesse le nuove avanguardie dell'Espressionismo, movimenti europei quali il Fauves, innescato da Henri Matisse ed il gruppo di Die Brücke di Dresda, che influenzeranno le sue opere. Il 1907 e il 1913 sono gli anni dei manifesti, realizzati per le campagne pubblicitarie promosse dai Grandi Magazzini napoletani dei Fratelli Mele, occupandosi della promozione di immagine della ditta. Essi rappresentano in assoluto le sue invenzioni più originali e felici: la “donna in abito rosso”, la “donna in abito azzurro”, la donna scrutata con contrastanti sentimenti da una coppia di passanti. Ma sono anche gli anni in cui Dudovich disegna uno dei suoi più famosi manifesti per la ditta alessandrina Borsalino, vincendo il concorso indetto dalla Casa per realizzare la pubblicità del cappello Zenit. Tale manifesto, pur essendo presentato da Dudovich fuori concorso, vincerà l'assegnazione del premio e rappresenterà per lui il maggior tributo e riconoscimento. L'artista frequenta con assiduità i pubblici ritrovi milanesi, entrando in contatto con i più grandi personaggi che animano la vita culturale metropolitana. Egli descrive gli ambienti dove si muovono i signori, i borghesi, dove si esibisce la mondanità, riuscendo però quasi ad idealizzare un mondo del quale diviene interprete, una nuova società fiorente e in continua crescita: la Belle Époque. In questi ambienti intrattiene rapporti di amicizia con Camillo Boito e con tutta la serie dei grandi artisti e letterati dei circoli milanesi, quali Filippo Carcano, Antonio Ambrogio Alciati, Umberto Boccioni e Federico Andreotti. Frequentando regolarmente il Caffè Biffi, il Savini e l'Orologio, entra in contatto con gli ambienti della moda, facilitato anche dalla moglie Elisa Bucchi che lavora come capo corrispondente per alcune riviste rinomate dell'abbigliamento. Dudovich, assistendo alla trasformazione dell'abbigliamento, soprattutto nella linea dell'abito femminile, approfitta del momento emancipando la figura della donna e dotandola di tutti gli accessori della seduzione: guanti, fiocchi, colletti e calze, il tutto accompagnato dalla sigaretta con bocchino da fumo, divenuta simbolo della verve femminile di quell'epoca. La donna evade dal contesto casalingo non più relegata alle sole mansioni domestiche di fine Ottocento, vedendosi finalmente elevata ad un ruolo determinato nella società.

Conosciuto oltre i confini nazionali, nel 1911 l'artista è chiamato a Monaco di Baviera dalla Casa Editrice Albert Langen, dove gli viene offerta una collaborazione di reporter come inviato speciale del famoso periodico di satira politica e sociale Simplicissimus. Accetta l'incarico e sostituisce Reznicek come disegnatore nella redazione: illustrerà per circa quattro anni, dal 1911 al 1915, la pagina mondana del giornale tedesco con un'estesa produzione di acquarelli, chine e disegni, entrando in contatto con gli esponenti di spicco della grafica tedesca quali Wilhelm Schulz, Theodor Heine e Eduard Thöny. In questi anni di attività molto produttivi a Monaco di Baviera, il triestino collabora con il direttore Albert Langen e con altre riviste tedesche quali la Meggendorfer Blatter, precisamente nel 1912, pubblicando un album composto da 32 tavole ed intitolato Corso. Come inviato speciale Dudovich viaggia molto in tutta Europa, offrendo con la propria grafica una viva testimonianza delle abitudini mondane dell'alta società. Nel 1956, con una punta di nostalgia per gli anni andati, l'artista ormai anziano racconta la sua vita, riporta il senso di quelle esperienze professionali di viaggio con le seguenti parole:

«Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti su campi di battaglia, ma su campi di corse e di golf per ritrarvi le belle donne, la mondanità elegante, le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all'altra senza passaporto e senza carta d'identità: una cosa meravigliosa. Esisteva poi una specie di internazionale dell'intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un'epoca in cui non si poteva che avere fiducia nell'avvenire […] La guerra cancellò tutto questo. Tornammo subito in Italia, mia moglie ed io. Boccioni, Sironi, Martinetti e Carrà partirono per il fronte cantando: «A morte Franz, viva Oberdan!. Io, figlio di garibaldino, non potei partire. Una lettera era giunta alle autorità in cui mi si accusava di germanofilia. La mia collaborazione al Simplicissimus contribuiva a rendermi sospetto. Mi salvai dal confino per l'intervento del vecchio Ricordi. Rimasi però un vigilato speciale e per tutta la durata della guerra dovetti presentarmi ogni settimana in Questura. Con la guerra era finito il periodo più bello e spensierato della mia vita!»

(Marcello Dudovich, ora in Maurizio di Puolo (a cura di) Marcello Dudovich 1878-1962. I 100 bozzetti e manifesti per La Rinascente, Milano, Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1985, p. 15).

Nonostante il suo impegno nel ruolo di inviato speciale, non interrompe la sua collaborazione come cartellonista con lo Stabilimento Grafico Ricordi per la creazione di importanti manifesti pubblicitari. Dudovich rimarrà al Simplicissimus fino allo scoppio della prima guerra mondiale quando, essendo egli figlio di un garibaldino, non può sopportare che i suoi disegni escano accanto alle vignette umoristiche che screditano l'Italia. Nella città bavarese, l'artista rimane fino al 1914 e qui sposa Elisa Bucchi, conosciuta durante il soggiorno a Bologna e dalla quale avrà la figlia Adriana.

Allo scoppio della I Guerra Mondiale nel 1915 Marcello Dudovich rientra in Italia. A differenza di molti suoi colleghi artisti come Umberto Boccioni, Mario Sironi, Carlo Carrà e Filippo Tommaso Marinetti, che partiranno volontari o verranno arruolati per combattere nelle trincee nelle Alpi, egli non potrà partire per il fronte. La decisione viene presa dalle autorità italiane che, nonostante figlio di un garibaldino, lo accusano di essere germanofilo sulla base della sua lunga collaborazione con Simplicissimus. Mandato su decisione del Tribunale militare in un luogo di internamento, la salvezza del triestino è voluta dall'intervento e dall'influenza politica del suo vecchio datore di retribuzione, Giulio Ricordi, con il quale non aveva mai interrotto la collaborazione. Nonostante tutto, è tenuto sotto sorveglianza speciale per l'intera durata della guerra, costretto ad andare ogni settimana alla questura e a sottoporsi a ripetuti controlli riguardanti le sue opinioni politiche. L'artista dimostra il proprio patriottismo lavorando, negli anni della guerra, ad alcuni manifesti di soggetto bellico, realizza infatti un bozzetto a tempera che rappresenta un soldato italiano avvinto alla bandiera italiana.

Per i suoi lavori, egli trae spunto dalla realtà, ritraendo modelli in carne e ossa o lavorando su fotografie da lui stesso scattate. Nell'occasione è Marcello stesso a fare da modello per i propri lavori, facendosi fotografare in uniforme e utilizzando quindi quell'immagine come riferimento preciso per la stesura dell'opera. Negli ultimi anni della guerra, 1917-1920, l'artista si sposta nella capitale del Piemonte, Torino, dove lavora sia in campo cinematografico, realizzando un numero imprecisabile di manifesti per film, sia alle dipendenze del giovane editore Polenghi. Dudovich rimane a Torino fino al 1920, anno in cui si riaccende l'amicizia con il grande artista grafico Achille Luciano Mauzan, italiano, che crea locandine di film. Sia Mauzan che Dudovich lavorano per la Ricordi Officine e la loro amicizia li porterà ad una collaborazione per l'industria cinematografica di Torino, più precisamente per la Cleo Films e la Felsina Films. A Torino collabora ai fascicoli antiaustriaci Gli Uni…e gli altri! (1915) di G. Antona Traversi, a Il Pasquino e a Satana Beffa (1919) ed infine a Illustrazione italiana (1922). Oltre a collaborare con più riviste, crea anche disegni per i modelli delle bambole di produzione Lenci. Gli anni della Grande Guerra segnarono, per molteplici, evidenti ragioni, una drammatica cesura: Dudovich si rese conto che il suo mondo, la Belle Époque, era morto per sempre e si rinnovò, aderendo al Novecento plastico di Pietro Marussig e Achille Funi.

Tornato a Milano nel 1920, fonda con l'avvocato Arnaldo Steffenini la società editrice Star, ditta che produce manifesti per conto dell'I.G.A.P. (Impresa Generale Affissioni Pubblicità), della quale fu direttore artistico dal 1922 al 1936 insieme a Marcello Nizzoli e Luigi Martinati. Dudovich crea manifesti per le campagne pubblicitarie delle maggiori industrie italiane e inizia in quegli anni la lunga collaborazione che lo legherà ai grandi magazzini La Rinascente, per la quale, dal 1921 al 1956, realizzerà oltre 100 manifesti. La produzione dei manifesti per La Rinascente conta di circa 5-6 lavori annuali realizzati, destinati a pubblicizzare molte collezioni. Le immagini si concentrano essenzialmente sul modello di sartoria, sull'accessorio da promuovere.

I grandi magazzini che rappresentano il mercato della media borghesia, offrono un buon prodotto ad un prezzo contenuto così da uniformare la popolazione. Attraverso i cartelloni per essi realizzati Dudovich viene riconosciuto come un'importante figura non solo dal punto di vista grafico, ma anche per la capacità che hanno le sue immagini di comunicare un messaggio che interesserà e influenzerà milioni di persone. Nella produzione in serie per La Rinascente, Dudovich mette in forte risalto soprattutto la figura della donna: illustrazioni rappresentanti un'unica presenza femminile si concentrano a evidenziare l'abbigliamento e gli accessori da lei indossati. Si basa proprio su questo l'illustrazione di moda di Dudovich, mettere in risalto la forte carica seduttiva del capo d'abbigliamento che raffigura, idonea al primario obiettivo della divulgazione commerciale della sua vendita. Noti sono anche la sua partecipazione con numerosi altri artisti al catalogo Veni vd vici (1924) per l'imprenditore Giuseppe Verzocchi, i suoi cartelloni per il Concorso ippico internazionale di Milano del 1926, il Concorso ippico di Stresa e tutta la serie dei manifesti per le automobili Alfa Romeo. Riconosciuto a livello nazionale nel mondo del cartellonismo, nel 1930 disegna il celebre manifesto per i copertoni Pirelli e realizza manifesti per le più importanti società industriali italiane e straniere, (Shell, Agfa Film, Bugatti, Fiat, Martini, Campari, Assicurazioni Generali, Magazzini Mele).

L'operato del triestino viene ricordato soprattutto per aver messo in scena gli agi della borghesia italiana nel periodo della Belle Époque: l'eleganza, la mondanità, le corse dei cavalli, gli abiti eleganti e soprattutto la femminilità delle donne altolocate.

Dudovich inizia una collaborazione come disegnatore alla rivista La Donna, illustrandola come esempio di raffinatezza ed eleganza. L'artista immortala le donne sdraiate su morbidi divani o in alcove con i loro grandi cappelli, ombrelli, ventagli e gioielli. Celebri protagoniste dei suoi racconti in cartellone sono le bagnanti. Durante il ventennio fascista l'emancipazione femminile vive una regressione: il regime impone alle donne lavoratrici un abbigliamento maschile, con scopo di garantire maggiore libertà di movimento, ma soprattutto uniformare l'estetica e i comportamenti allo stile militare. Di conseguenza spopolano vesti e abiti che non facciano più risaltare le linee del corpo ma, al contrario, che si adattino ad esse con naturalezza. Fissando i parametri che dovranno comporre i nuovi cartelloni il regime porterà Dudovich, contro la sua volontà, ad un forte cambiamento dei suoi modelli femminili. La nuova produzione di cartelloni perderà il raffinato soggetto femminile per lasciare spazio alla virilità della figura maschile, con corpi muscolosi e pose in tensione che saranno le nuove immagini propagandistiche dell'epoca fascista. Partecipa alla Esposizione internazionale d'arte di Venezia del 1920 e del 1922 con il dipinto ad olio La signora Dalla Veletta: il titolo dell'opera deriva dal cappellino che la donna porta in testa e dal quale scende una veletta.

Nei primi anni trenta con lo sviluppo dell'aviazione, l'artista viene chiamato a Roma per realizzare una serie di affreschi a parete, con tecnica a tempera, per i locali del Ministero dell'aeronautica, compiuti poi in collaborazione con il genero Walter Resentera. È questa, tuttavia, l'unica commissione pubblica; per il resto Dudovich lavora soltanto per i più cari amici, decorando ambienti delle residenze di città o di campagna delle famiglie Borsalino-Savazzi e Brustio-Borletti. È un divertimento che gli consente di rifugiarsi in un suo mondo ideale, popolato di contadini al lavoro o in festa, di animali e alberi. In molte occasioni egli ritrae gli stessi committenti o gli animali a loro cari. Succede a Villa Piccoli di Gardone, dove all'insegna dell'Ospitalità vengono raffigurati, amichevolmente riuniti, un pastore tedesco, un gatto e perfino un topo; oppure a Villa Makallé di Guello, proprietà dei Brustio, dove i padroni di casa e i loro ospiti sono raffigurati intenti al gioco del golf. Con particolare evidenza, nel vasto ciclo dipinto nel 1946 in un salotto della Tenuta Amalia, a Villa Verucchio (Rimini), residenza di campagna della famiglia Borsalino, in ringraziamento dell'ospitalità e dell'amicizia di Alessandra Druidi, vedova Borsalino, realizzerà alcuni affreschi a tempera sulle tre pareti del salone della villa. L'effetto generale è di quattro padiglioni aperti sull'esterno, dotati di drappi e tendaggi e bandiere poste sui lati, introducendo lo spettatore nel paesaggio che vi si apre oltre.

Nel 1937 Marcello si reca in Libia chiamato da Italo Balbo, per un lungo soggiorno e vi ritornerà nel 1951 ospite della nipote Nives Comas Casati, già sua allieva e modella. La Casati fu anche cartellonista, come dimostra ad esempio il cartellone per il Palio di Ferrara, eseguito nel 1933 in collaborazione con Amerigo Ferrari. Il lungo soggiorno libico lo influenzerà fermamente: il suggestivo ambiente esotico offre a Dudovich una quantità di soggetti e di spunti e ravviva la sua appannata freschezza ideativa. Egli scatta molte fotografie di scene e figure indigene, realizza numerosi disegni e schizzi: questo materiale si traduce a livello pittorico in una serie di opere a tempera, tra cui, per solenne imponenza, primeggia il ritratto – oggi in America – raffigurante la nipote Nives in abito africano. Da ora, quasi in ogni mostra personale che Dudovich allestirà, sarà presente una sezione dedicata alla Libia e alle “scene libiche”: paesaggi, castelli, mura, moschee ed ancora scene di vita vissuta, tipi umani, con particolare attenzione alle grazie delle belle e giovani indigene. Rientrato in Italia, l'artista continuerà a riflettere su quel mondo colorito e al rapporto tra le “due civiltà”, al punto da organizzare nel proprio studio, sedute di posa per evocare fittizie situazioni “libiche”, obbligando amici e modelle a indossare improvvisati burnus e a posare per qualche serie di scatti fotografici. In Libia, egli tornerà ancora nel 1951 e vi terrà anche un paio di mostre personali.

La Seconda guerra mondiale e la morte della moglie Elisa Bucchi rappresentano la cesura definitiva, il taglio netto con l'attività cartellonistica commerciale, determinato anche dalla difficoltà di confrontarsi con i nuovi cartellonisti, ormai denominati designers. In questo periodo l'artista si dedica intensamente alla pittura, al ritratto ed alla decorazione. Al manifesto tuttavia egli non rinuncerà mai, creando nell'immediato dopoguerra e nell'arco degli anni cinquanta, una quarantina di manifesti noti e riprendendo un'intensa collaborazione con La Rinascente, alla quale sarà capace di dedicare ancora lavori di sorprendente freschezza.

Marcello Dudovich muore a causa di un'emorragia cerebrale il 1º aprile 1962 a Milano: riposa nel Cimitero Monumentale di Milano, tumulato in un colombario.

Gli sono state intitolate una via e una scuola secondaria di secondo grado a Milano e una via anche a Trieste e Rimini.

Principali manifesti

  • 1899: Fisso L'Idea, Chappuis Bologna
  • 1901: Esposizione di Lodi, Chappuis Bologna
  • 1901: Coppia al tabarin, Ricordi Milano
  • 1901-1902: Terme di Porretta, Chappuis Bologna
  • 1906: Liquore Strega, G. Ricordi Milano
  • 1906: Fonotipia, G. Ricordi Milano
  • 1907: Corse di Brescia, G. Ricordi Milano
  • 1908: Bianco & Nero, Ricordi Milano
  • 1908: Mele Confezioni, Mele & C. Napoli
  • 1908: Mele Novità Estive, G. Ricordi Milano
  • 1911: Marca Zenit, G. Ricordi Milano
  • 1912: Il Bacio di Margherita da Cortona, G. Ricordi Milano
  • 1912: Mele Confezioni, G. Ricordi Milano
  • 1913-1914: Mele Confezioni mode - stoffe, G. Ricordi Milano
  • 1914: Mele Calzature, G. Ricordi Milano
  • 1918: Vermouth Martini, G. Ricordi Milano
  • 1924: Borsalino Antica Casa.