"Vivevamo in pace fieri di essere italiani, perché tale mi sono sempre considerata anche se il dialetto fiumano, che somiglia tanto al veneto, era di fatto la nostra seconda lingua".
"E abbiamo continuato a vivere in pace anche durante il fascismo fino a quando, durante l'occupazione degli alleati, diventammo terra di nessuno. Ci sentivamo italiani a tutti gli effetti ma non sapevamo nulla sulla nostra sorte".
Poi gli slavi entrarono a Fiume.
"Ci portarono via tutto, casa e beni. Eppoi assistevamo alle ritorsioni da parte di quegli stessi slavi che, fino al giorno prima, attraversavano il confine per venderci i prodotti delle campagne. A pagare il prezzo più alto furono gli ex funzionari dello Stato. Ma il massacro delle foibe messo in atto dai partigiani titini colpiva indistintamente anche solo come rivalsa verso l'italianità".
"Un nostro cugino, l'ex carabiniere Corrado Smaila, tornato in Istria dalla guerra fu un giorno convocato dalle autorità e sparì. Fu gettato in una foiba".
Poi l'inevitabile esilio, ed il viaggio su uno dei treni che trasportavano migliaia di profughi istriani nel campo di raccolta di Lucca.
"La cosa più amara fu vedere l'atteggiamento di disprezzo da parte di quei comunisti italiani che consideravano i profughi fascisti per il solo fatto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito. Alla stazione di Bologna impedirono che venissero dati acqua e viveri ai nostri bambini".
— Giuseppina (Mary) Nacinovich (Fiume, 17.3.1926 - Verona, 25.11.2021), madre di Umberto Smaila.
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