“Mio padre era una persona perbene. Non lo dico perché ne ho idealizzato la figura. Lo dico perché quando torno nella mia terra e pronuncio il suo nome la gente ancor oggi inchina la testa con deferenza. Si chiamava Giuseppe, era un ragazzo del ’99, aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Faceva l’impiegato nel municipio di Gimino d’Istria, dove io sono nata nel ’36. Era un patriota, ma non aveva incarichi nel Partito nazionale fascista. Ricordo che la domenica mattina la cucina di casa nostra era zeppa di contadini analfabeti. Portavano a mio padre le lettere dal fronte dei loro figlioli. Lui gliele leggeva e poi scriveva le risposte.
Caro, caro il mio papà Giuseppe! Lo vidi l’ultima volta che avevo quasi sette anni, e ricordo sempre, come fosse ieri, il suo ultimo bacio affettuoso, e le mie mani piccole dentro ai suoi folti capelli.
Venne catturato il 2 ottobre 1943, il giorno dopo fu fatto sfilare in paese con una catena legata al collo e una bisaccia piena di pietre sulla schiena. Con quelle fu lapidato, al limitare del bosco, sotto un ciliegio. Aveva 44 anni. I suoi capelli, nerissimi, erano diventati improvvisamente tutti bianchi.
Nel 1992, caduto il Comunismo, ho voluto indagare di persona tornando in Istria per scoprire chi lo aveva ucciso. Un testimone oculare, un pastore, mi ha condotta fino a quel ciliegio. Non poteva sbagliarsi: dopo essere stato costretto a guardare l’esecuzione, incise, sconvolto, la data sulla corteccia, 3 ottobre 1943. Si leggeva ancora, un po’ slabbrata, perché nel frattempo l’albero era cresciuto. Un altro contadino mi ha riferito che la gente veniva incitata a bastonare mio papà, ma si rifiutava di farlo. Venne lapidato da quattro contadini del posto, e ad uno di questi mio padre fece da padrino. Dopo la lapidazione gli aguzzini guardarono nella bocca del cadavere del mio babbo e videro due denti ricoperti d’oro che tentarono di strapparglieli ma non ci riuscirono; lo decapitarono e portarono la testa da un orefice di Canfanaro per il recupero delle capsule. Infine giocarono una partita di calcio usando come pallone la testa mozzata, almeno finché mantenne la forma sferica.
Quello che successe in Istria non fu guerra contro nemici. Né lotta per idealità. Fu delitto determinato da odio implacabile per l’italianità. Ucciso alle spose il marito e ai figli il padre, gli assassini si portavano nell’intimo spazio del dolore di quelli per annunciarne l’uccisione, prelevarne gli averi, intimar loro di non cercarne il cadavere e di levarne via ogni foto, ogni ricordo. Si conducevano le vittime predestinate, legate peggio che bestie l’una all’altra da fili di ferro, sull’orlo della foiba, e non sempre si sparava su tutte, perché bastava colpirne qualcuno, tanto il peso di questo avrebbe tirato giù nel fondo, vivi, gli altri, perché della morte lenta e crudele potessero sino all’ultimo istante avere contezza. Si lapidarono persone, come accadde a mio padre, costringendole a portarsi sulle spalle le pietre che sarebbero servite a finirle. Si cavarono gli occhi alle vittime. Si tagliarono loro i testicoli conficcandoglieli in bocca. Si recinse d’una corona di filo spinato il capo d’un prete. Fu crudeltà pura. Fu dolore infinito. Fu, nella storia dell’uomo, certo un momento soltanto, ma tra i maggiormente infamanti.
Nella nostra famiglia ci furono otto vedove in dieci giorni. Sono cattolica, ma non ho perdonato, il mio è un calvario senza redenzione. Un trauma all’età di 6-7 anni marchia il carattere. Mi è stata fatta un’ingiustizia irreparabile: morirò con quella sul cuore. Senza verità non c’è giustizia. E senza giustizia non c’è pace ed io sono una donna senza pace”.
Nidia Cernecca (1936-2020), esule istriana, Premio Histria Terra 2013.
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