Come risulta dai documenti d’archivio della Toscana Maria Buttolo e Giovanni Grubissa sono segnati nell’Elenco alfabetico profughi giuliani, custodito dal Comune di Laterina Pergine Valdarno (AR). Il loro fascicolo reca il numero 832. Risultano usciti dal Campo il 26 giugno 1952 per Udine.
“Avendo sentito da degli ex detenuti italiani, oggi rientrati in Patria, con quanto amore Lei si sia occupato della loro sorte – inizia così la lettera di Maria Buttolo al Console italiano a Zagabria – e con ottimo esito, mi rivolgo a Lei onde pregarla di interessarsi del mio caso che qui le esporrò. Io mi chiamo Buttolo Maria, fu Quirino, nata a Pisino il 22.5.1907. Io e mio marito abbiamo optato nel 1948 nell’attesa del decreto mio marito venne arrestato e condannato dal tribunale del popolo di Pola con l’imputazione di avere favorito espatri. Quando è arrivata la risposta del ministero, cioè che la mia domanda d’opzione era stata accolta mentre quella di mio marito Ezio Grubissa era respinta ormai lui si trovava detenuto a Lepoglava. Per tale motivo egli non poteva ricorrere come previsto dal trattato italo-jugoslavo del 23.12.1950”.
A Lepoglava c’era un vecchio carcere asburgico. Si trova nella regione croata di Varasdino, vicino all’Ungheria. Durante il totalitarismo titino in Jugoslavia è stata una delle principali prigioni politiche per i deviazionisti, per gli anti-titini e per le minoranze etniche perseguitate. ”Mio papà Antonio Cattalini, del cantiere di Zara – ha detto Silvio Cattalini, presidente dell’ANVGD di Udine dal 1972 al 2017 – fu imprigionato in cella a Lepoglava per tre anni, accusato di collaborazionismo”. Vi era rinchiuso pure il beato cardinale Alojzije Viktor Stepinac, ai lavori forzati per la durata di 16 anni, ma deceduto nel 1960, per avvelenamento dei titini.
“Pertanto pregherei Vossignoria – prosegue la lettera di Maria Buttolo, pur con qualche svista – se si vorrebbe interessare se mio marito ha ricorso e nel caso non sia stato in grado di farlo trovare una via per giungere a una soluzione adatta. Mio marito si chiama Ezio Grubissa, nato a Pisino il 22.10.1906 dimorante a Pisino (Istria) sino alla data dell’arresto 11.10.1948 di madrelingua italiana fece il servizio militare in Italia. Ora si trova in un campo di lavoro Visčegradska n. 27 Nazelje n. 1. È ammalato e bisognoso di alimenti che io non posso mandargli essendo in condizioni disagiate e con un bimbo ammalato. Se Lei potrebbe inviargli qualche aiuto e visitarlo io le sarei perennemente riconoscente. Certa che Lei sarà così buono d’interessarsi ben distintamente la ringrazio. Grubissa Maria”.
Višegradska è un villaggio presso la città di Višegrad, oggi nella Repubblica serba della Bosnia Erzegovina. “Naselje” significa: insediamento. Come risulta da altre lettere scritte da Ezio Grubissa alla moglie Maria, del 1° settembre 1951, venne recluso pure nel gulag di Mitrovica, poi in quello di Belgrado, secondo la lettera del giorno 8 maggio 1951 (Collezione Grubissa).
La prigione di Sremska Mitrovica, fondata dall’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo nel 1895, è la più grande della Serbia. Dopo il 1944 passò sotto l’amministrazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Si sa che “fino al febbraio 1962 c’erano ancora 36 italiani reclusi nel carcere di Sremska Mitrovica. Forse erano cominformisti del 1948, forse fascisti del 1945, forse solo italiani e basta. Avevano fame e vivevano, sempre stando al nostro diplomatico, in grave stato di prostrazione” (Ballarini A, Sobolevski M 2002 : 92).
Nella lettera dal carcere di Belgrado, Ezio Grubissa chiede alla moglie di mandargli: “cartine per sigarette, ma non vidi arrivare nulla”. Lui, da dentro il gulag di Tito, si informa sulla salute del figlio “Ninetto” e della “Zia Fani”. Altra richiesta di “2 matite, una in tinta e lucido per scarpe, 2 nero e 1 marron”. La missiva dalla galera di Mitrovica è del 1° settembre 1951. Pure in detto frangente è lui, imprigionato certo in non buone condizioni, a preoccuparsi del figlio, della nonna “la parona”, di un nipote e parenti vari. Siccome sa che la posta è controllata dai servizi segreti jugoslavi, scrive genericamente di “star bene”. Poi chiede “cartine ed altro di nuovo”. In sostanza, i pacchi spediti dall’Italia con cibo e generi vari non arrivano a lui. Pare di capire che, invece, riceva qualcosa da una famiglia intermediaria esule a Trieste (che era nel Territorio Libero di Trieste). Si tratta dei signori Olga e Fedele Bolanaz, della Famiglia Pisinota, un cognome menzionato pure su L’Arena di Pola, del 1965.
Ezio Grubissa fu liberato dai gulag jugoslavi nel 1952 e raggiunse la famiglia esule a Udine, dove morì nel 1982. Sua moglie, Maria Buttolo, dopo aver passato dei brutti momenti nelle baracche del Crp di Laterina, si trasferì nel capoluogo friulano, dove mancò ai vivi nel 1993.
A Pisino, in conclusione, c’era una brutta aria per gli italiani. Si ricorda che il 13 settembre 1943, a cinque giorni dall’armistizio italiano, il Comitato popolare croato di liberazione proclama proprio a Pisino la volontà dell’Istria di “essere annessa alla madrepatria”, ossia alla Jugoslavia (Stelli G 2010 : 8). Quel foglio, firmato da pochi individui, venne utilizzato dalle alte diplomazie nel Trattato di pace del 1947, per togliere l’Istria all’Italia.
Il testimone della presente vicenda ricorda, infine, di essere stato nei collegi per i ragazzi dell’esodo giuliano dalmata, mentre i genitori cercavano di sistemarsi a Udine. Così fu allievo della scuola “Vittorio Locchi” di Gorizia. Quando era al Collegio “Fabio Filzi” di Gorizia Giovanni Nino Grubissa interpretò il “Piccolo Haydn” per lo spettacolo teatrale dal titolo omonimo, opera di Alfredo Soffredini. Era il 20 giugno 1958, c’erano pure il coro e l’orchestra, ma “dopo 20 minuti di rappresentazione all’aperto, è arrivato un gran temporale e tutto il pubblico fuggì, così restai molto deluso per la mia carriera di… attore in erba”. Giovanni Grubissa studiò anche a Trieste all’Istituto Tecnico Industriale “A. Volta”.
Il lettore si chiederà come mai vengono a galla solo ora questi ricordi. La risposta viene da una figlia di esuli. “Mio papà, che era di Fiume – ha detto Elisabetta F. – solo da quando è in pensione mi ha parlato della sua città e di tutto il resto”. Come a dire che la cortina del silenzio è difficile da superare.
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