“Lapidato con i sassi delle tue doline, ogni pietra ha una voce, il tuo lamento che chiede perché”.
Mario Varesi, un poeta dell’esilio, dedicò questi versi alla vicenda di Cernecca, lapidato dai titini. La sua colpa? Essere italiano.
La sua storia fu resa nota dalla figlia Nidia, esule da Gimino, donna coraggiosa la quale nel 1992 promosse, con la sua denuncia, che andammo a presentare assieme presso il tribunale di Trieste, l’apertura del processo “Foibe”, svoltosi poi a Roma contro i capi titini responsabili delle stragi nell’Istria e a Fiume. Di quel processo, osteggiato dentro e fuori dai nostri confini, restano le belle pagine scritte da un magistrato che alla giustizia credeva davvero, Giuseppe Pititto, e di un avvocato che è un patriota d’altri tempi, Augusto Sinagra.
Nidia Cernecca si era portata per tutta la vita un ricordo tormentoso: lei aveva sei anni e stava giocando con sua sorella Daria nel giardino di casa; entrò un uomo, vestito con pantaloni alla zuava, stivaloni, pistola, frustino e berretto con la stella rossa, che annunciò con fierezza alla mamma l’assassinio di suo padre, minacciandola di morte se avesse cercato di recuperarne il corpo.
Ma solo da adulta aveva saputo qual era il suo nome e soprattutto che viveva ancora, tra Rovigno e Zagabria. La Jugoslavia era finita, la Croazia era da poco indipendente, ma Ivan Motika, il boia di Pisino, era ancora un uomo influente che faceva paura. Nidia lo andò ad affrontare fuori di casa sua ma quello fuggì. Poi ci riprovò e, davanti ad una telecamera Rai che credeva spenta, egli rispose di essere stato sì un giudice popolare ma di non aver mai fatto male a nessuno. E concluse sprezzante: “Istriani carne venduta”…
Nidia allora andò a cercare quello che gli avevano detto essere l’assassino materiale di suo padre: si chiamava Martin Tomassich e viveva cieco in una casa di riposo. Lo affrontò all’improvviso, mentre questi stava steso a letto: “Lei ha ucciso il mio papà, Bruno Cernecca?”. “Sì” rispose lui, con gli occhi bianchi e senza emozione. “Ma era Motika il giudice...” aggiunse.
Tomassich morì qualche anno dopo e anche Motika andò al Creatore prima che il processo istruito a Roma potesse giudicarlo. Certo non riposa in pace.
Nidia ricorda di suo papà sole le carezze: era un uomo buono, impiegato comunale a Gimino, non credeva potesse bastare questo per finire ammazzato.
Fu arrestato da tre partigiani slavi mentre stava ritornando da un viaggio a Trieste, fu portato al Comando titino, interrogato, bastonato e seviziato. Era moro ma a seguito di quelle percosse, raccontò un testimone, incanutì in una notte. Il “processo popolare” sentenziò per lui la pena di morte.
Racconta Nidia: “Mia madre lo vide passare sotto casa trascinato da una catena per buoi. Aveva sulle spalle la croce del suo calvario: un pesante sacco di pietre col quale lo avrebbero lapidato. Tra calci, insulti e percosse lo hanno fatto camminare per cinque chilometri, fino al bosco di Monte Croce, nell’intrico della foresta della Draga, in quella valle che finisce nel fiordo di Leme. Lì, tra i cespugli, c’è un ciliegio selvatico dove la mano di un pastore ha inciso sulla corteccia la tragica data del 3 ottobre, ancora visibile. Legato a quell’albero lo hanno massacrato e poi decapitato. La sua testa fu portata da un orologiaio di Canfanaro per estrargli due denti d’oro. Preso l’oro la gettarono a calci sulle rotaie della vecchia ferrovia istriana”.
Nidia conservò il suo diario di quei giorni, lo usò per scriverci un suo libro. In esso racconta il calvario dell’Istria e della sua famiglia: “Il papà lapidato. Lo zio Roberto ucciso per un feroce seppur fatale errore dai tedeschi. Lo zio Corrado Smaila gettato in foiba dopo che gli erano stati tolti gli occhi, ci raccontarono che era impazzito. Lo zio Gaetano Cernecca, fratello di papà, gettato nella foiba. L’avevano arrestato assieme al fratello Dante che avevano rimandato a casa, dicendogli che a loro bastava il fratello. Lo zio Mario Ghersi, marito della zia Elvira Cernecca, sorella del papà, gettato nella foiba di Vines. Gli zii Attilio ed Ettore Marzini, cugini della mamma, gettati in foiba, dopo che erano stati tolti loro gli occhi”…
Conobbi anche Leo Marzini, esule a Trieste, figlio di Attilio e nipote di Ettore. Anche lui fece la sua denuncia alla Procura a seguito di quella di Nidia. A casa sua mi fece vedere le fotografie spaventose che conservava di quei corpi riesumati da una cava di bauxite a Villa Bassotti nel Comune di Pisino. Li aveva riconosciuti sua madre: erano nudi, le mani legate con il filo spinato ed erano stati loro tagliati i genitali e levati gli occhi.
Leo aveva vent’anni allora e tanto coraggio. I Marzini erano di Pedena e lui andò dal capo partigiano di quel paese, Giovanni Runco, accusandolo di essere un assassino. Egli negò e rispose che erano stati giudicati e condannati da Motika. “Allora portami da lui!” lo sfidò. E quello così fece.
Raccontò Leo Marzini: “Ci recammo verso sera in un bosco, nelle vicinanze di Villa Lucchesi. Motika spuntò da dietro gli alberi, da solo e prima di parlare pretese che il mio accompagnatore si allontanasse. Aveva un mitra Beretta a tracolla, la pistola alla cintola, la bustina con la stella rossa sul capo. Gli chiesi il motivo per il quale erano stati uccisi mio padre e mio zio. Mi rispose prima in croato, poi in un italiano perfetto. Non fece nulla per negare le sue responsabilità e si limitò a dire, con gentilezza sfacciata, che forse si era trattato di un errore.
Concluse il suo discorso con la frase: “Caro compagno, ti consiglio di andare via di qui e di fare il partigiano in Italia”. Evidentemente considerava che l’Istria non fosse già più Italia.
Ma era solo l’ottobre del 1943…
(dal volume di R. Menia "10 Febbraio. Dalle Foibe all'Esodo", 2020)
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