Ben pochi paesi d'Europa hanno subito nell'ultima guerra mondiale tanto enormi perdite in vite umane quante ne ha riportate la Jugoslavia. Questo paese - con le sue popolazioni eterogenee per cultura e religione e che appartengono in parte alla sfera orientale e in parte a quella occidentale - era già noto in Europa come vivaio di lotte intestine e fomentatore di guerra. Nel periodo che va dal 1941 al 1945 vecchi rancori hanno determinato un immane spargimento di sangue e un inaudito numero di vittime umane. Diversi occupatori stranieri cui va aggiunto un numero non irrilevante di partiti politici armati come i cetnici, gli ustascia, la guardia bianca e azzurra ecc., sterminavano implacabilmente le fazioni avversarie, spesso in maniera molto crudele.
Con la conquista del potere da parte del maresciallo Tito nel maggio del 1945 furono commessi nuovi tremendi massacri che sorpassarono di gran lunga i precedenti.
Un'assoluta mancanza di rispetto per la vita umana, le uccisioni di massa, i campi di sterminio, le prigioni dell'OZNA in cui spesso i detenuti vengono soppressi, caratterizzano il regime di "liberazione nazionale" jugoslavo. Misure draconiane colpiscono coloro che hanno osato parlare o agire o financo pensare in modo non permesso dall'odierno regime totalitario.
Abbiamo avuto occasione di avvicinare e parlare direttamente o tramite gli interpreti con centinaia di profughi da quel paese. Abbiamo visto i loro volti sconvolti e intuito nei loro occhi dei ricordi terrificanti. Abbiamo letto dei verbali compilati in presenza di testimoni e sentito da persone che abbiamo avuto la ventura di incontrare racconti raccapriccianti sul terrore di cui furono vittime innocenti.
Ma più di tutto ci hanno colpito le tracce di sevizie sui loro corpi, le cicatrici delle piaghe fatte dal filo di ferro con cui erano legate le loro mani in occasione di liquidazioni collettive, le ferite riportatene. Taluni rimanevano sepolti sotto il mucchio di compagni fucilati, vivi per miracolo, per poter testimoniarci della tirannide comunista al di là del sipario di ferro che divide la Jugoslavia dal resto del mondo civile.
In molti casi non ci è possibile fornire i nomi dei testimoni perché i loro congiunti in patria potrebbero esser fatti segno della vendetta di Tito. Senonché il materiale di documentazione, spesso in forma di verbale giudiziario, è stato possibile conservarlo e sottoporlo alle autorità alleate.
La conquista da parte dei partigiani comunisti della città di Priedor nella Bosnia costò la vita ad alcune centinaia di persone: 229 furono quelli identificati tra la moltitudine di fucilati. La commissaria del popolo, tale Mira Cirkota, che pronunciava le condanne, non risparmiò nemmeno il proprio marito.
Stragi più gravi ebbero luogo a Bihać, l'ex "capitale" di Tito. Vi furono uccisi oltre 400 civili. Il terrore aveva mietuto numerose vittime anche tra i contadini cattolici dei dintorni ed in quell'occasione furono uccisi tutti i soldati feriti degenti nell'ospedale cittadino.
Nelle vicinanze del villaggio di Costrena, vicino a Sussak (Fiume), i titini gettarono in un fosso circa 300 persone. Dopo qualche tempo non era possibile passare di là, nemmeno facendo un largo giro, tale era il fetore che si sprigionava dalla foiba. Ma il fatto più impressionante è che dopo qualche tempo cominciarono a sbucare in densi gruppi migliaia di grossi vermi bianchi, mentre la popolazione assisteva preoccupata alla loro comparsa.
Il comunismo è dottrina inesorabile, essa non sa che cosa sia il sentimento. Per esso il fine giustifica il mezzo. Sicché i comunisti non si arrestano, nemmeno se è in questione la vita di un loro compagno.
È cosa ormai risaputa che i comunisti in Spagna, Grecia e Jugoslavia hanno sempre proceduto all'uccisione dei propri commilitoni feriti o malati quando ciò era dettato da "ragioni superiori". Nell'inverno 1942-1943 al tempo della cosiddetta V offensiva l'ospedale titino di Glamoč in Bosnia non poteva ricevere nuovi feriti essendo completamente occupato. Allora, per far posto ai nuovi feriti considerati guaribili, quasi tutte le notti i feriti gravi venivano portati fuori e uccisi dai propri compagni: il fatto era notorio.
In una recente dichiarazione del maresciallo Tito ai giornalisti americani, questi disse che il giorno più felice della sua vita era stato quello in cui riuscì a salvare i suoi compagni feriti facendoli trasportare nel Montenegro mentre era inseguito dalle truppe tedesche e croate. Non sappiamo, in verità, quanti ne abbia potuto salvare, quando si pensa al fatto che tutti i ponti sul Naranta erano distrutti e i feriti dovevano essere trasportati per ripidi sentieri ad altezza di quasi 2000 metri. Sappiamo solamente che vicino alla stazione di Rama i contadini ancora oggi con raccapriccio indicano un fosso in cui secondo loro trovarono la fine parecchie migliaia di soldati di Tito.
Così avrebbero fatto per tema che fossero uccisi dal nemico, come essi facevano riguardo ai prigionieri feriti".
Foto: esumazioni dopo le stragi partigiane a Bihać.
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