È noto come negli anni del Rinascimento il versante istriano-dalmata. si sia imposto quale fucina di idee su entrambe le sponde dell'Adriatico, da un lato esportando sul territorio della penisola italiana artisti valenti, dall'altro attraendo, per converso, non pochi ingegni, richiamati dalla nomea del passato. classico-romano. Nell'instancabile dialogo delle due rive il volto di molti territori mutò profondamente, rispecchiando i principi di una cultura incline alla conoscenza onnicomprensiva del reale, in grado di definire una gerarchia coerente fra gli svariati ambiti del sapere e persino tra valori etici ed estetici. Senza queste invidiabili premesse non avremmo il palazzo ducale di Urbino, concepito nei suoi caratteri di fondo dallo zaratino Luciano Laurana, né la cattedrale di Sebenico, sorta di attuazione delle meditazioni di Leon Battista Alberti sul Tempio malatestiano di Rimini; non ammireremmo, poi, le sculture di Francesco Laurana, la cui mano si rintraccia addirittura ad Avignone. Tutte le istanze qui in gioco trovano degna rappresentanza anche nella vicenda di un altro artista di quei luoghi, accostato da alcuni commentatori proprio ai due Laurana, con i quali costituirebbe una "triade" di punta per l'orgoglio dalmata.
E "Dalmata" è appunto l'epiteto col quale è meglio noto lo scultore Giovanni Dalmata (1440 ca-post 1509). Dopo una prima formazione in patria, forse sotto la guida di Giorgio da Sebenico, Giovanni Dalmata passò in Italia, dove entro il 1464 completò il portale del tempietto di San Giacomo a Vicovaro, iniziato dal conterraneo Domenico da Capodistria. Fu quindi attivo a Roma, forse già sotto il pontificato di Pio II (1458-64), ma senz'altro al servizio del successore Paolo II (1471). Nel cuore della cristianità collaborò con gli scultori Andrea Bregno e Mino da Fiesole e, al lavoro sui portali di Palazzo Venezia, subì il fascino dell'Alberti, sviluppando un'inclinazione per l'architettura tale, da meritargli il ricordo di architetto accanto a quello di scultore e medaglista. Nel decennio 1481-91 godette di grande considerazione alla corte ungherese di Mattia Corvino, mentre a cavallo dei due secoli è attestato su entrambi i litorali adriatici: Venezia, Ragusa, Ancona e infine Traù, dove probabilmente morì, non senza avere lasciato traccia della sua arte, ravvisata in alcune sculture della Cappella Orsini nel duomo. Dal 'corpus' di Giovanni non pervenuto nella sua interezza emerge la conoscenza della scultura antica e una singolare fascinazione per le innovazioni introdotte da Donatello (1386-1466). Prova ne è il raffinato altorilievo rappresentante la "Madonna col Bambino" conservato a Padova, che riprende alcuni tratti dal gruppo centrale di medesimo soggetto scolpito dall'artista sul monumento al cardinale Bartolomeo Roverella in San Clemente a Roma (1476-77). La Vergine, posta frontalmente per due terzi della sua altezza, tiene il Figlio sulle ginocchia e volge con lui lo sguardo verso destra, assisa su un trono riccamente ornato. Dell'arredo spicca, in primo piano, il partico- lare della sfinge alata, che cita un dettaglio dell'altare del Santo realizzato da Donatello per la basilica di Sant'Antonio a Padova (1447-50). Anche l'ampio panneggio dalle pieghe spezzate è un indizio che riconduce alla personalità del maestro fiorentino e al classicismo dal carattere espressivo da lui propugnato. La composizione si inscrive in una cornice che, grazie al sovrapporsi del seggio e del capo di Maria, aggiunge una nota di profondità all'esiguo campo scolpito. Il motivo a sfere che la percorre nella parte superiore si trasforma, presso la base leggermente aggettante, in un ritmico ricadere di festoni formati da perline di dimensione decrescente e sorretti da piccoli nastri, secondo uno stilema diffuso nella pittura settentrionale.
Un elemento di questo ornato svela poi qualcosa riguardo alla possibile committenza:
nel piccolo stemma bipartito al centro si scorgono infatti l'emblema di Este (Padova) e una fascia caricata di cinque stelle con una collina a tre cime in punta, che rinvia alla famiglia Franco. L'uso della forma ellittica, frequente in ambito ecclesiastico, stringe ulteriormente il cerchio: con ogni probabilità il rilievo venne elaborato per la devozione privata per conto di Niccolò Franco (1425-1499 ca.), arciprete della cattedrale patavina, nunzio alla corte di Spagna dal 1475, vescovo di Parenzo tra 1476 e 1485 e poi di Treviso. Mecenate di letterati e artisti, ricoprì inoltre mansioni diplomatiche fra Venezia e la Corte pontificia. È quindi verosimile che l'incarico sia giunto al Dalmata nel corso del soggiorno romano, oppure in territorio veneto. Pare a ogni modo lecito (e forse anche più suggestivo) immaginare che il primissimo proponimento del prelato riguardo a un'opera firmata da Giovanni sia emerso, suscitato dalla di lui fama, sull'altra sponda adriatica, dove Franco svolse - almeno nominalmente - una parte significativa del proprio ministero episcopale.
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