Bambini nostri. Belli come il calore di un focolare. Come un'immagine familiare e amica, generatrice e propagatrice di affetto. Un richiamo a cui non si può resistere, e che non si può rifiutare, se si è italiani.
Sono immagini lontane in bianco e nero, di codesti fuggiaschi perseguitati e costretti a lasciar tutto, sepolte dal tempo e dall'oblìo, ma vive e che rivivono, anzi che resuscitano con forza se tuttora fanno infuriare qualcuno. Chi li aveva uccisi e angariati, infatti, pensava d'averli fatti sparire per sempre: ma no, sono rinati. E non solo il 10 febbraio perché il 10 febbraio è il giorno del ricordo fissato da una tardiva legge del 2004, ma sempre: entrati nelle nostre case perché li abbiamo riconosciuti come gente nostra, parte della nostra Storia, della nostra cultura, del nostro desco spirituale. Sono entrati e non da soli ma con le loro terre, le terre irredente: non materia inerte svuotata d'ogni palpito, snaturata e opaca com'è oggi, ripresentata artificiosamente all'esterno con nomi sconosciuti e stranieri che alcuni si sforzano di pronunciare con compunta deferenza, ma le terre originarie e originali, terre gentili avvolte di grazia, bellezza ed erudizione Veneziana, da cui affiorano i preziosi resti delle più antiche memorie Romane. Terre di fiori, di animali, di agricoltura, di commerci, di case, di chiese, di pievi, di strade e straduole profumanti d'Italia, come riferirono tutti coloro che le visitarono.
Ma non si uccide solo il corpo, si uccide anche l'anima: e dunque appropriarsi materialmente di quelle terre, arraffando tutto quel che c'era, non è bastato e non bastava, giacchè hanno dovuto appropriarsi anche dell'anima e quindi della Storia di quelle terre, impadronendosi di letterati, artisti, poeti, filosofi, matematici, cambiando loro il nome e vociando ai 4 venti che son croati, che sono slavi, o comunque omettendo che erano italiani. Pensiamo a quanto sarebbe contento Alessandro Paravia di Zara, dalmata, professore e letterato che, già sorvegliato dall'Austria, brillò per i più alti sentimenti patriottici Risorgimentali tanto da pronunziare a Torino dinanzi al Re Vittorio Emanuele II, il 5 maggio 1849, la solenne orazione funebre per i caduti eroici della battaglia di Novara con cui si chiuse la 1a guerra d'indipendenza, quanto sarebbe contento d'esser stato trasformato in Aleksandar Paravija in una delle vie di quel guscio vuoto che è l'attuale città di Zara. Non per il nome in sé, giacchè il nostro Risorgimento in quelle terre pullula felicemente dei più svariati nomi della più svariata origine etnica vicina o lontana, ma per la spudoratezza d'appropriarsene contando sull'ignoranza, l'ignavia e il disinteresse cronico della nostra classe politica e cosiddetta intellettuale, a cui si potè tranquillamente presentare l'astronomo Ruggero Boscovich nativo di Ragusa di Dalmazia come una gloria “croata”, fissando la sua effigie su di una banconota della Croazia, lui che era di padre bosniaco e madre italiana, e si sentiva italiano, visse sempre in Italia tra un viaggio e l'altro e morì in Italia, fondò l'Osservatorio di Brera a Milano, e fu professore a Pavia, nonché membro dell'Accademia italiana delle Scienze fondata nel 1782 dall'ingegnere e matematico veronese Antonio Maria Lorgna proprio per unire idealmente la penisola prima ancora che fosse unita. Fu così che il busto di Ruggero Boscovich spicca invece davanti alla sede dell'Accademia delle Scienze e delle Arti della Croazia a Zagabria e oggi l'aeroporto della città di Ragusa di Dalmazia porta il suo nome slavizzato. Ragion per cui dobbiamo concludere che in un mondo matto come quello in cui viviamo, l'intelligenza più evidente deve piegarsi ai suoi contrari. Non si sa quant'altri illustri connazionali hanno fatto questa fine: ma tanto noi Italiani, pieni come siamo di geni, artisti, inventori, musicisti, letterati, poeti, scienziati e pittori sommi da perderci il conto, possiamo permetterci di regalarli un po' in giro, no? In tal modo anche il celebre umanista e latinista rinascimentale Elio Lampridio Cerva è diventato Ilija Crijevic, proprio lui che per tutta la vita predicò la Romanità di quelle terre.
Sulla gente nostra d'Istria, Fiume e Dalmazia, di cui non si sapeva nulla e ancor oggi si sa pochissimo, e le deliziose terre rubate divenute tristi conchiglie incolori, svuotate d'identità, io dovrei perciò scrivere non già qualche articolo sparso qua e là, ma volumi interi se ne avessi il tempo, per meglio perorare la causa perduta e narrare le nequizie e sopraffazioni materiali e morali che hanno dovuto subire, di cui quelle che si commemorano il giorno del ricordo sono solo l'anello finale di una lunga catena principiata con il fragore dei cavalli e dell'artiglieria austriaca che occupò quei territori che in tal modo si trovarono stretti insieme nella comune disgrazia con Veneto, Lombardia, Friuli e Trentino.
Da allora, vari esodi si succedettero in Dalmazia, di cui quello che si commemora il 10 febbraio, è solo quello più vicino a noi nel tempo e più concentrato numericamente. Se dunque quest'ultimo fu dovuto alla violenza comunista di Tito e dei suoi, il primo, il più silenzioso e il meno noto, diluito nello spazio di un secolo, avvenne a seguito della violenza austriaca sempre più rabbiosa man mano cresceva l'onda perigliosa del Risorgimento, un'onda che giunse anche in Dalmazia come dimostrano i processi colà svoltisi nel 1820-'22 contro i carbonari, con più di 200 persone alla sbarra e molte altre sospettate di esserlo, schedate o costrette alla fuga.
Un altro esodo, pressochè sconosciuto quanto il primo, avvenne invece dopo la Grande Guerra, quando, disattese le legittime aspirazioni e attese italiane, e abbandonata la nostra delegazione per protesta la conferenza di pace di Parigi che si segnalò per gli sfacciati arraffamenti di Francia e Inghilterra, furono accontentati gli slavi, nonostante sloveni e croati avessero combattuto accanitamente contro di noi durante la Grande Guerra, mentre l'esercito serbo ridotto al lumicino fu da noi salvato con una grandiosa operazione navale. Ma, trattando l'Italia alla stregua di un vassallo cui bisognava chiudere in faccia le porte dei Balcani e vieppiù dell'Africa (furono respinte perfino le innocue richieste di libero commercio con l'Abissinia e l'Africa Orientale), i compensi territoriali, anche quelli più ovvi, si ridussero all'essenziale per non dire che furon ridotti all'osso, e dunque gran parte della Dalmazia e le sue isole fu esclusa. Fu una delle pagine più vergognose della diplomazia internazionale, ma che evidentemente molti in Italia non conoscono, se non mancano mai vacue estrinsecazioni stizzite di oche razzolanti nell'aia e galletti vari, sempre pronti a ricordarci che la colpa è nostra e del nostro ben noto nazionalismo.
In verità non c'è bisogno di aspettar Tito per veder dispiegata la violenza anti-italiana in quelle terre, violenza che ebbe modo di palesarsi fin dall'origine, quando l'Austria fece chiaramente intendere che si sarebbe servita degli slavi per scrollarsi di dosso i ribelli italiani che da Bergamo a Cattaro tramavano contro il suo potere: da qui l'inizio di provocazioni slaviste sempre più insistenti e ridondanti provenienti da Zagabria capitale del fantomatico regno di Croazia e Slavonia che non aveva mai contato un accidente nella Storia, tantomeno dal punto di vista militare. Nel Medio Evo la Serenissima combattè per il possesso di Zara e della Dalmazia contro il regno d'Ungheria: dunque dov'erano i croati che avrebbero dovuto esser lì fin dai tempi delle invasioni barbariche? La stessa vittoria temporanea dell'esaltato Re d'Ungheria Luigi (dietro il quale in realtà vi era un potente coalizione patrocinata dal Sacro Romano Impero) durò lo spazio di pochi decenni prima che Venezia, com'era naturale, rientrasse in possesso della Dalmazia fino a Cattaro, suo limite meridionale.
Ai messaggi minacciosi croati avallati da Vienna, facevano seguito le violenze fisiche e morali che qualcuno un giorno mi auguro s'incaricherà di raccogliere in un corposo e implacabile volume.
Mentre il Risorgimento premeva alle porte, nulla si lasciò d'intentato per stroncarlo. Ma invano.
PROCLAMA 14 NOVEMBRE 1848
AI GIOVANI DALMATO-ISTRIANI
che non militano ancora sotto
la Bandiera della Indipendenza Italiana
"Il caldo desiderio da Voi esternato, giovani valorosi, di formare una legione Dalmato-Istriana, per combattere in campo aperto l'austriaca tirannide, verrà esaudito, tosto che Voi accorriate sotto il vessillo tricolore italico dell'indipendenza.
Arruolati sotto lo stendardo dell'Italico riscatto, ed organizzati in legione Dalmato-Istriana, diverrete la potenza armata ed operosa contro l'austriaco dispotismo, che in ogni maniera si sforza, nei suoi aneliti estremi, di carpire la nazionalità perfino ai popoli da esso fin'ora tormentati.
No, l'Istria e la Dalmazia marittima, non sono, non possono essere, non saranno mai germaniche o slave, ché non lo consentono natura, né la storia delle politiche loro vicende, non la lingua, la religione, i costumi.
Il bel paese italiano non finisce al di quà dell'Adriatico, ma sulle opposte sponde pur si distende, e la barriera mal vietata delle Alpi è separazione che la natura pose tra le vandaliche masnade dei barbari e la civiltà dell'italo, dell'istriano e del dalmata suolo.
Accorrete quindi senza indugio, accorrete numerosi sotto le sospirate bandiere della santa guerra d'Italia, ed efficacemente cooperando alla redenzione di questa invidiata, e perciò dai selvaggi straziata penisola, coopererete del pari alla redenzione dell'Istria e della Dalmazia.
All'armi, giovani generosi, all'armi! La Patria vi chiama e vi incita. Il giorno della completa indipendenza italiana sarà giorno dell'emancipazione, pur anche dalmato-istriana, dalle branche crudeli dell'esecrata bicipite aquila austriaca!
Viva l'Italia! Viva San Marco!
ANTUNOVICH - LAZANEO - NARATOVICH – PETRONIO
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