Nato ad Umago il 23 febbraio 1904, Scotti ha legato la propria fama ad un film di prestigio quale fu Senso di Luchino Visconti, ed è stato molto attivo nella cinematografia italiana degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, quando lavorò con i principali registi di quel periodo, da Blasetti a Mastrocinque, da Carlo L. Bragaglia a Giorgio Ferroni, da Matarazzo a Goffredo Alessandrini, da Max Neufeld a Brignone, da De Sica a Mattoli, da Nunzio Malasomma a Renato Castellani.
Di fatto il panorama filmografico di tutto il nostro cinema di quegli anni deve praticamente tutte le scenografie al nostro artista istriano.
Alle soglie degli anni ’60 viene arruolato per il genere peplum che in quel periodo conosceva la sua stagione d’oro, quando finito un film – come in una catena di montaggio – si approntava in tutta fretta un’altra produzione che spesso utilizzava gli stessi set appena dismessi. Erano anche gli anni delle incursioni nel filone degli spaghetti western e del giallo all’italiana (con Mario Bava e Antonio Margheriti), che al botteghino riscuotevano tanto consenso.
Dalla natia Umago, Scotti si trasferisce Roma negli anni ’30, proprio in coincidenza con la nascita di Cinecittà e con l’affermazione del cinema come industria e come macchina di propaganda.
Ha lavorato ininterrottamente per quasi quarant’anni ed è morto nella città eterna il 23 maggio 1975.
Della sua sterminata filmografia ci piace ricordare quella dei film di ambientazione storico-mitologica, con eroi invincibili e maliarde seduttrici, che riuscivano a catturarci incondizionatamente, a dispetto delle ingenuità dell’impianto narrativo, della approssimazione filologica, e dei moduli recitativi spesso amatoriali.
Firma la sua prima scenografia con Alessandro Blasetti: il film è Ettore Fieramosca del 1938. E sarà ancora Blasetti a volerlo per l’ultimo film da lui diretto; Io, Io, Io e gli altri del 1966. Con l’austriaco Neufeld cura le scene di Mille lire al mese (1939); Taverna Rossa (1940); La prima donna che passa (1940); Il tiranno di Padova (1946).
Ripetuti gli appuntamenti con Guido Brignone: La mia canzone al vento (1939); Cantate con me (1940); Mamma (1941); Romanzo di un giovane povero (1942); Il fiore sotto gli occhi (1944); Processo contro ignoti (1952); Bufere (1953); Noi peccatori (1953); Ivan il figlio del diavolo bianco (1953); Quando tramonta il sole (1955); Nel segno di Roma (1959) dove incontriamo un insospettabile co-regista (non accreditato): si tratta niente meno che di Michelangelo Antonioni !
Altro regista con cui lo scenografo Scotti ha molto lavorato è Camillo Mastrocinque: I mariti, tempesta d’anime (1941); Le vie del cuore (1942); Fedora (1942); La maschera e il volto (1943); L’uomo dal guanto grigio (1948); Gli inesorabili (1950); Napoli terra d’amore (1954); È arrivata la parigina (1958),
Ripercorrere le scenografie di Ottavio Scotti equivale ad una storia in formato ridotto del cinema italiano di genere e Raffaello Matarazzo è l’emblematico compendio del film “strappalacrime”: Catene (1949); Tormento (1950); I figli di nessuno (1952); Chi è senza peccato… (1952); La schiava del peccato (1954); Vortice (1955); L’angelo bianco (1955).
Ma eccolo il ciclo dei film storico-mitologici, con quelle improbabili scene di cartapesta – in cui si mescolavano senza troppa veridicità gli stili più disparati: dall’egizio al cretese, dal mesopotamico al romano – che hanno fatto la gioia dei produttori, dei gestori di sale cinematografiche di seconda visione e di noi ragazzetti di quegli anni.
La regina delle Amazzoni (1960), regia di Vittorio Sala; L’assedio di Siracusa (1960), regia di Pietro Francisci; I mongoli (1961), regia di Leopoldo Savona; Ponzio Pilato (1962), regia di Gian Paolo Callegari; Arrivano i titani (1962), regia di Duccio Tessari; Il figlio di Spartacus (1962), regia di Sergio Corbucci; Oro per i Cesari (1963), regia di Sabatino Ciuffini; Anthar l’invincibile (1964), regia di Antonio Margheriti (con Scotti arredatore); Saul e David (1964), regia di Marcello Baldi; I grandi condottieri (1965), regia di Marcello Baldi.
Del 1964 un film “gotico” in bianco e nero, tratto da Edgar A. Poe, che può considerarsi anticipatore del genere horror in voga negli anni ’70. Si tratta di Danza macabra (con Barbara Steel e Georges Rivière), la cui particolarità è che tutto il cast tecnico adottò pseudonimi stranieri a copertura della loro identità italiana.
Così lo scenografo Ottavio Scotti diventa Warner Scott per uniformarsi al regista Antonio Margheriti (alias Anthony Dawson); agli sceneggiatori: Bruno Corbucci (fratello minore di Sergio e che perciò si firma Gordon Wilson Jr.) e Gianni Grimaldi (nei titoli di testa Jean Grimaud); al direttore della fotografia e al montatore: Riccardo Pallottini e Otello Colangeli (rispettivamente Richard Kramer e Otel Langhel).
Questo espediente non era inconsueto, soprattutto nei western: la pellicola veniva spacciata come un prodotto d’Oltreoceano per attirare più pubblico. Si pensi a Carlo Simi che per Sergio Leone diventa Charles Simons; o a Mario Chiari che si firma Sammy Fields per Lo spettro di Riccardo Freda (a sua volta Robert Hampton). Altro pseudonimo di Scotti era stato Dick Grey, utilizzato in La frusta e il corpo, film di Mario Bava del 1963.
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