mercoledì 8 novembre 2023

Nazionalismo slavo in Dalmazia

L’ozio forzato, che agli studiosi viene imposto dalla guerra presente, la quale ci ha tolto ogni commercio librario, ogni corrispondenza epistolare, ogni scambio di giornali e riviste con le nazioni occidentali, ci obbliga ad occuparci di piccole cose, di quelle che possono trattarsi cogli scarsi sussidi delle biblioteche del paese. Ma anche in queste cosuccie, che ci dovrebbero riuscire di svago — e se n’ha tanto bisogno — c’è invece motivo di disgusto, perché s’inciampa sempre nel solito nazionalismo croato, pronto a valersi d’ogni mezzo, per allargare le sue conquiste politiche, artistiche e letterarie a danno delle genti vicine.

Giova ricordare, e risalire un po’ ai tempi passati.

Quella tendenza non è di ieri: nasce nel secolo decimottavo, cresce nel decimonono, e non è morta neppure nel ventesimo. Nel decimottavo e nella prima metà del decimonono poteva essere giustificata dall’umile condizione, in cui si trovavano allora alcune discipline, specie la glottologia comparata; ma ora non può addurre giustificazione alcuna. 

In que’ bei tempi la fu proprio un’ubbriacatura: alla vecchia ipotesi, che tutte le lingue fossero derivate da Babele e quindi dall’ebraico, si era sostituita l’altra, che provenissero tutte dallo slavo. Nè ciò era affermato soltanto dal volgo semi-letterato, ma anche da scienziati di qualche levatura, appoggiati da accademie e salariati col pubblico denaro. Di questi ultimi il Dankowsky, nel 1836, pubblicava il libro «Matris Slavicae filia erudita, vulgo lingua Graeca», e il Rollar, nel 1853, «Staroitalia Slavianska»; in cui pretesero dimostrare che il latino e il greco erano lingue figliuole dello slavo.

Anche da noi ci furono alcuni, che accolsero questa dottrina; ma quelli che l’accolsero con qualche riserva e l’usarono con qualche prudenza, vanno distinti da certi linguaiuoli, che ci lasciarono degli accostamenti etimologici deliziosissimi. P. e. Antonio Casnacich, da Ragusa, biasimato nella «Moda» di Milano (anno 1839, n.ro 71) di avere voltato alla meno peggio «Il cinque maggio » in slavo, cioè in lingua barbara, la difendeva, è vero, («Gazzetta di Zara» anno 1839, n.ro 86) coll’errore allora comune che lo slavo fosse la madrelingua che aveva dato le sueradicali alla lingua di Omero e di Virgilio; ma riconosceva che i Ragusei avevano parlato la lingua d’Epidauro (cioè il greco), e gli Spalatini quella di Salona (cioè il latino), contro l’opinione allora pure comune che gli llliri fossero stati slavi, e non discese mai a comporre di suo bisticci etimologici. Allato poi al Dankowsky e al Rollar, si possono mettere dei nostri F. M. Appendini e G. Capor: questi aveva sostenuto che l’illiro e lo slavo fossero identici; e quegli era andato a cercarne l’identità non solo nelle parlate della penisola balcanica, ma anche in quelle dell’Asia anteriore. L’ignoranza degli studi, che allora cominciavano, sulle lingue arie; la strana supposizione che lo slavo, lingua madre, fosse rimasto allo stato barbarico in confronto delle lingue figlie, non fecero loro comprendere che la relazione di madre e figlie era invece relazione di sorelle, e che la madre bisognava trovarla, non già nell’Asia anteriore, come aveva fatto l’Appendini, bensì nell’Asia centrale.

Ma i linguaiuoli!...

Dopo il Krreglianovic e il Cattalinich, che nelle loro «Storie della Dalmazia» avevano dato la stura ad etimi da far ispiritare i cani, la linguistica nostra precipitò così basso, da dare ragione non solo al Voltaire, che l’aveva battezzata per quella scienza, in cui le vocali si mutano a piacere e le consonanti non contano, ma anche a quel bello spirito, che da Nabucodonosor aveva fatto derivare violino. Di questi etimi strampalati era, più che altri, produttore fecondo un G. Giurich; ne infiorava la «Gazzetta di Zara», da cui abbiamo ricavato, come saggio, i seguenti.


Egli si mette un giorno in testa che nei nomi storico-geografici le desinenze -azia e -usici siano derivate dallo slavo muzi (allora si scriveva muxi) = uomini e da muzia (muxia, voce inventata da lui) = complesso di uomini. Perciò Dalmazia verrebbe da dagl (dalje) muxi!= avanti uomini; en avant, braves! — Vandali da Van-dagl (muxi) = — fuori, più lontano, uomini! e andarono infatti in un paese lontano, in Van-dagl-muxia, cioè in Andalusia, condotti da Genserico, cioè da Junsij-ris = giovane leopardo. — Sarmati è quanto Czarschi muxi — uomini sovrani, che abitavano la Sarmazia, cioè la Czarska muxia;così Vormazia (Worms) è Verlmuxia = paese degli Eruli (!). — Odoacre poi è Otto-czar = padre sovrano; i Rassiani, Russiani, Russi = uomini disseminati, da rassiat = disseminare'). Un anonimo, messosi sulla via del Giurich, trova che Bardileo, re illiro, è lo stesso che Berdilav— leone del monte; Scrdileo, altro re illiro, Sardilav — leone irascibile; Jehova = je ovo, Cioè quod est, hoc est il bibl. ego sum, quisum; sanscrito — sacrit — lingua secreta: Tracia, tardai = terci —correre-). E ci furono anche delle polemiche: il Giurich aveva detto che Jader veniva da jadriti = veleggiare; un altro lo rimbeccò e sostenne che derivava invece da Jadre (Andrea), come Peterzane da PietroZiani e Venieraz 0 Vigneraz da Venier). Ma la voce più tormentata fu Nabucodonosor, finché l’anonimo che aveva fatto correre i Traci, come il suo collega aveva disseminato i Russi, scoperse che valeva quanto Nam-Bogu-dano-tzar = Zar a noi dato da Dio; a cui un altro bello spirito, allievo forse del caffè Pedrocchi, sulla falsariga di quello che ne aveva tratto violino, contrappose la sudiceria dialettale Na-buco-da-nasar! E cotesti giochetti passarono anche in Italia: il Ciampi, annunziando nell’ « Antologia » di Firenze (anno 1847) l'opera del Dobrowsky «Institutiones linguae slavicae», si lasciò andare a raffronti etimologici senza capo nè coda. Lo stesso Tommaseo in un suo primo scritto su tale argomento: «Gli Sciti, gl’ llliri e gli Slavi» ammise l’universalità dello slavismo nell’Europa orientale e trovò p. e. che Scitaderivava da skitati = errare. E arzigogoli siffatti non sono finiti neppure ai giorni nostri, coll’aggravante che, se allora erano ingenuità perdonabili, adesso sono canagliate criminali. Il dr. Strohal in un suo studio sulla « Storia del diritto nelle città dalmate », uscito testé a Zagabria, piglia per slave molte voci, che sono invece di origine latina, rispettivamente italiana. «La „calletta“ o „sottovolto del Lulin“ », di cui trovò menzione in un libro zaratino, la interpretò per Lulina svod = il sottovolto del matto, perchè lesse alla slava Lùlin, e non già come pronunciamo noi Lulin, meglio Lolin. La quale voce da noi e nelle provincie venete è nome di persona, derivata da Lorenzo-, basti ricordare la Cappella de’ Lolini a Venezia, ove c’erano dipinti del nostro Andrea Meldola. Talarigi e Pappo, mutati arbitrariamente in Talaric e Popov,sono, viceversa, nomi di origine germanica: Talareich e Babo; tutti poi sanno che Tallarigo è un vecchio scrittore napoletano (« Gior. storico della lett. ital.», ann. II, pag. 196); Quchitto, divenuto Óukic,è il diminutivo dalmatico di zucca o zocco. Bucadeo, letto male per Butadeo, è il nome del famoso errante medievale, e non ha a che fare con Bonadicü. Griparius non è Griparijev, ma è l’aggettivo sostantivo di grippo (gr. lat. yQìnog, gryphus) — rete e barca peschereccia, e significa pescatore. Cosi Cuparus e Cuparius indicano un’arte, prima il fabbricante di giubbe, e poi per estensione il sarto; male quindi mutato in Čupar, e peggio accostarlo, in quanto all’etimo, a zupano = capo di un distretto. Non bisognava poi credere ad un vecchio cronacista ragusino che povulani valesse quanto poi-villani, cioè mezzo-villani; la voce deriva invece da populani, che altrove, a Capodistria p. e., si dicevano pure povolani, ora corrotto in paolani. Lexa non è Lesina,ma Lissa, esempio bellissimo di mutamento neolatino regolare di una iin posizione. Lat. Issa, con l’articolo concresciuto, doveva dare Lessa: la i restò, per influenza del dalmatico, invariata. All’incontro Lissa, isola di fronte a Zara che ha perduto la l ritenuta articolo, mutò regolarmente la tonica in e: Eso, ma nel dialetto rimane anche qui la i:Iso. E cosi di molte altre voci erroneamente battezzate per slave.

Di fronte però a tale slavismo esagerato, già nella prima metà del secolo decimonono, si posero degli eruditi di vaglia, decoro del nostro paese, degni di figurare in città d’importanza maggiore, che non 

fossero le cittadine di Dalmazia: G. Ferrari-Cupilli a Zara, A. Fenzi a Sebenico, F. Carrara a Spalato, M. Capor e N. Ostoich a Curzota, 

N. Niseteo a Cittavecchia, U. Raffaelli a Cattaro ed altri ancora. La «Gazzetta di Zara» dal 1832 al 1848 ci offre degli studi di grande eccellenza, messi insieme con squisita dottrina e con critica fine da quei dalmati egregi. Di molto prezzo furono le collezioni lapidarie e numismatiche da essi lasciate, le schede manoscritte che le illustrano, le monografie da loro messe insieme e rimaste inedite. Alcuni scrittori, che vennero dopo di loro e fiorirono nella seconda metà del secolo decimonono, si fecero conoscere nelle prime loro pubblicazioni coi lavori di quei valentuomini, che andavano superbi di rappresentare le idee e il progresso dello splendido periodo italo-francese. P. e. il Gliubich nel suo «Dizionario degli uomini illustri della Dalmazia» si è servito del materiale biografico, già raccolto e reso di comune ragione da loro, specie dal Ferrari e dal Raffaelli; mentre le sue prime monografie sulle iscrizioni e sulle monete greco-romane, stampate nei «Contoresi» dell’imperiale accademia a Vienna, derivano dal Niseteo e dall’ Ostoich.

Ma fra tutti i suoi comprovinciali, per conoscenze vaste e profonde, specie per franchezza e liberi sentimenti, emerge il Niseteo: nel primo suo scritto «Filologia patria» si oppone tosto alle teorie degli slavisti e nega loro che gli llliri sieno stati slavi, caposaldo di tutte le loro deduzioni. Gl’ llliri —insegnava il Niseteo ancora nella prima metà del secolo XIX — sono paralleli ai Celti, ai Baschi e agli Albanesi. 

Come nella Spagna e nella Francia, dopo il dominio romano e le irruzioni barbariche, delle popolazioni antiche restarono i Celti e i Baschi, così non è meraviglia, se gli avanzi del valoroso e bersagliato popolo dalmata si fossero raccolti e rifugiati nelle montagne dell’Albania, e che perciò, trasportatasi colà con esso loro la lingua, andasse smarrita nella Dalmazia. E se ad estinguere questa lingua non fosse bastata la conquista romana, lo avrebbero fatto le orde degli Slavi, i quali, risparmiando l’Albania, innondarono la Dalmazia, devastandola ed incendiandola: anzi per somma sventura di quella provincia, vi fissarono la loro dimora, portando ignoranza e barbarie, dove prima erano civiltà e gentilezza. Si allontanano quindi dal vero coloro, i quali cercano in Dalmazia la lingua slava, prima ch’ella soggiacesse all’invasione del popolo di questo nome. Se gl’llliri fossero stati slavi, dovrebbe la Dalmazia offrire il più grande numero di voci slave nei nomi antichi; invece fra centinaia di nomi, rimasteci nelle iscrizioni latine, non ce n’è alcuno slavo. 

Niseteo conosce già il lavoro classico del Larramendi sulla grammatica e sul lessico basco, che troviamo tuttora citato dai più illustri romanisti moderni, p. e. dal Diez e dal Körting. Anche il Tommaseo, che in un secondo scritto sul tema medesimo si era ricreduto, batte codesta via. Giustifica però gli slavisti, che cercavano nella lingua loro le origini d’altre più famose e letterate: volevano così rivendicarne la fecondità, la bellezza e la sapienza di fronte agli spregi lingiusti, di cui la coprivano gli stranieri. Una sola parola — egli conclude — basta a dar loro la verità e la credibilità, che non paiono avere: se invece d’origini parlisi d’affinità; e se — aggiungiamo noi — le casuali affinità di suono e di senso non si accolgano sempre come argomenti di identità etimologiche.

Ma chi da questo movimento, diremo così, filologico volesse dedurre un movimento politico slavo, forte, compatto, universale ad esso corrispondente, forse rischierebbe d ingannarsi. Il riflesso, che se ne riscontra nelle lettere e nelle arti italiane, fiorenti in Dalmazia nella prima metà del secolo decimonono, ci dà a divedere che il più delle volte si tratta, se non di Arcadia in ritardo, di romanticismo, allora comune a tutte le colte nazioni, e non già di nazionalismo. Infatti la massima parte dei letterati e degli artisti, che svilupparono soggetti slavi, sentirono italianamente; e se c’era un movente politico, tendeva desso a stringere in un solo fascio gl’Italiani e gli Slavi. Slavofilia quindi e non slavismo, estesa pure all’Istria, a Trieste e a Gorizia, che si rispecchiava oltre che nei giornali politici, nella « Favilla » di Pacifico Valussi a Trieste, e nella «Dalmazia» di Giovanni Franceschi a Zara.

Non appartiene a noi l’enumerare qui i letterati non dalmati delle provincie italiane dell’Austria, che svolsero in prosa e in verso temi slavi, e misero in scena produzioni d’argomento slavo; basterà ricordare Francesco Dall’Ongaro, che li rappresenta tutti. Di lui i nostri babbi sapevano a memoria «Usca», la ballata morlacca; e avevano applaudito nei teatri di Trieste ai « Dalmati », e in quelli di Milano e Zara, a «Marco Cralievich l’Ercole slavo», che il Filippi argutamente parodiava in «Ercole slavato»'. Ma egli era stato anche l’autore del Proclamarivoluzionario, diretto, il 10 aprile ’48, da Udine ai Triestini, in cui, fra le altre cose, diceva che gli Slavi erano all'Italia fratelli di sventura,e fra poco di gloria; e autore pure della relazione al governo provvisorio della Lombardia del 19 aprile, nella quale affermava, l’Istria e la Dalmazia essere italianissime. Scrivere su temi slavi, dichiararsi fratello agli slavi, si; ma, come la pensavano tutti gli altri suoi colleghi in arte e in politica, non sacrificare a loro quello che c’era d’italiano nelle due provincie, legate a Venezia per tanti secoli di affettuosa sudditanza.

Più che le manifestazioni politico-letterarie del giornale diretto da Q. Franceschi, sono per noi interessanti, quelle della «Gazzetta di Zara», fondata nel 1832 dal governo, dopo 22 anni dalla morte del «Regio Dalmata », pubblicato dal provveditore generale Vincenzo Dandolo sotto il governo franco-italiano, fregiata dell’aquila imperiale, portavoce della i. r. Luogotenenza della Dalmazia. Subito colpisce il titolo: «Gazzetta». 

Perchè non come a Trieste: «Osservatore»? Quando la Gazzetta nel ’48, cessò di essere ufficiale, il governo si attaccò subito ad un Osservatore; ma prima Gazzetta, perché era quasi un secolo, che usciva sulle lagune la «Gazzetta di Venezia». Si pubblicavano alle volte in essa certi scritti e vi si davano tali giudizi, che poi adesso non sarebbero stati permessi a giornali ufficiali. Subito nei primi numeri avverte un corrispondente che nella campagna di Scardona (1832, n.ro 11), il viaggiatore troverà tutte quelle amenità deliziose, di cui è ricco il suolo italico, e in due articoli (an. 1832, n.ri 35-36) sulla «Letteratura italiana» a proposito delle poesie del Colleoni, c’è tanta Italia, da fare meraviglia che ce l’abbiano tollerata. In un altro articolo sullo stesso tema si chiama nostra letteratura e nostra lingua, la lingua e la letteratura italiana (n.ro 41). Il 28 marzo del 1834 erano arrivate a Nuova-York le fregate austriache Guerriera ed Ebe. Fece impressione —osserva la «Gazzetta» — che l’ufficialità fosse quasi tutta veneziana, e parlasse soltanto l’ italiano. 

Ma allora l’i. r. Collegio dei cadetti di marina, che era a Venezia, aveva per lingua d’istruzione l’italiano; e tutte le navi da guerra, sino al ’48 portavano nome italiano. E ciò pareva naturale, perchè gli ufficiali e i marinai venivano quasi tutti dal Veneto, dall’ Istria e dalla Dalmazia.

Rispetto alle quali la stessa « Gazzetta » aveva lasciato dire nelle sue colonne che la Dalmazia era sempre stata un’appendice all’Italia (an. 1837, n.ro 30), un ultimo lembo dell’Italia, assieme all’Istria una provincia e per spirito e per coltura altamente italiana (an. 1845, n.ro 61), e Zara nella qualità, nelle attitudini, nel linguaggio della sua popolazione una piccola città d’Italia (an. 1842, n.ro 73). 

Dinanzi poi alle meraviglie del Segato, che petrificava i cadaveri; dinanzi alle prove dell’Andervolti che cercava di dirigere gli areostati con la forza del vapore: dinanzi alle nuove armi da fuoco del Pierantoni, che in ottanta secondi faceva venti colpi di fucile e sette di pistola, e con un obusiere lanciava 2350 palle, la «Gazzetta» (an. 1838, n.ro 45) esclamava: «No! non sarà mai che rimanga lungamente neghittoso il genio italiano, perchè è desso il prediletto del Creatore. E se alcunavolta si nasconde o sembra starsi assopito, egli è per ricomparir più sublime e brillar su questa terra, che ha in sè la scaturigine delle umanecognizioni, e che con unico esempio già sostenne l’impero del mondo».

E così avveniva che M. Casotti da Traù, estensore della «Gazzetta» dopo Agostino Brambilla, che era stato nominato (1836) professore a Verona, pubblicasse due romanzi di soggetto slavo «Milienco» e il «Berretto rosso»; mentre sull’autorità del Porfirogenito si sforzava nel giornale ufficiale di dimostrare che gli Avari erano slavi, per attribuire a questi gli incendi e le devastazioni di quelli (an. 1840, n.ro 80). E così F. Seismit-Doda, ragusino, collaboratore della «Gazzetta», esordiva tra noi con un dramma d’intonazione slava «Marco Marulo», recitato pure al Mauroner di Trieste; ma scriveva anche l’ «Inno» bellissimo alla «Dalmazia», pieno di ricordi del passato e di speranze per l’avvenire, stampato prima nella « Gazzetta », declamato a Zara e a Trieste dall’attrice Ardelia Arrivabene (an. 1847, n.ro 14), e finiva poi in Italia, ministro delle finanze, dopoché aveva cooperato nel ’48 alla difesa di Venezia. Un nostro concittadino, N. Battaglini, collaboratore pure della «Gazzetta», metteva in scena una commedia incolore « Maria» («Gazzetta», an. 1845, n.ro 47), ma poi pubblicava nella «Gazzetta» stessa (an. 1847, n.ri 5-7) delle scene dalmate sulla caduta della Repubblica, di cui una slava «Jela» ne faceva l’apologia, e chiudeva i suoi giorni a Venezia, dopo avere data vita e ordine all’odierno museo archeologico di Murano.

Ma questa slavofilia non si appalesa forse in nessuno con tanto contrasto, quanto nel pittore Francesco Salghetti da Zara. Non parliamo dei quadri di soggetto slavo, che gli furono commessi dal vescovo Strossmayer, di quelli bensi eseguiti di sua elezione nei primi anni della sua vita artistica. Questi sono: «La fanciulla a cui ignominiosamente togliesi di capo il berretto rosso», che ha poi suggerito al Casotti il romanzo omonimo da noi accennato più su, « Il bardo morlacco » e «La risurrezione di re Dusciano». Quest’ultimo, che commentava una poesia del Preradovich, scritta nel ’48, aveva un significato politico chiaro abbastanza: il ritorno di quel re in Serbia, per ricondurla alla vittoria e alla libertà. Preludeva al «Giuramento dei re di Croazia, Bulgaria e Serbia», che avrebbero cacciato gli stranieri dalla Balcania. 

Ebbene, a tali esercitazioni, diremo così accademiche, stanno di contro due lavori, di propria elezione, fatti con sentimento di patriotta italiano. 

Essi sono: «S. Ambrogio, che rimprovera a Teodosio la strage di Tessalonica e gli vieta l’ingresso al tempio» - «Lina fanciulla che piange sul campo di battaglia la morte dell’ lamato». Il primo quadro insieme ad altri fu accolto all’esposizione di Milano nel ’38, aperta per Francesco I, che vi era andato a prendere la corona del regno Lombardo-Veneto. II Tommaseo in quell’occasione scriveva al Salghetti (23 agosto): 

«Piacemi che al momento dell’incoronazione abbiate esposto a Milano il s. Ambrogio scacciante l'incoronato. Perchè non intesero, permisero».

Ma forse intesero a fatto compiuto: la «Gazzetta privilegiata» di Milano (15 settembre) pubblicava un trafiletto velenoso contro tutte le tele, messe in mostra dal Salghetti, e non nominava il s.Ambrogio. Il soggetto del secondo quadro era veramente «La battaglia di Gavinana, la morte del Ferruccio e la fine della libertà fiorentina». Una fanciulla prostrata a terra, posa la mano sull’abbattuto stendardo di Firenze, e abbraccia l’elmo del Ferruccio; negli spicchi dei quattro angoli, c’erano quattro mostri allegorici, ciascuno con lo stemma dei quattro personaggi, che erano stati causa dell’eccidio di Gavinana: papa Clemente VII, Malatesta Baglioni, Alessandro de’ Medici, Carlo V. Alla Filotecnica di Trieste, ove questo quadro'era stato esposto nel ’41 insieme"al «Bardo morlacco», pareva che nessuno avesse badato a quei mostri e a quegli stemmi; ma forse furono notati, perchè la Direzione della Filotecnica, che aveva preso una deliberazione onorifica per il Salghetti, improvvisamente ebbe a ritirarla. Aveva scelto il «Bardo morlacco», per ricavarne una stampa, da dare in dono ai soci, a tenore dello Statuto. Invece, con grande meraviglia del Salghetti e di altri, mutò divisamento; preferì il quadro di un tedesco, che aveva preteso di raffigurare l'Italia in certi briganti degli Abruzzi, che assalivano alcuni viaggiatori inglesi i quali con grande valore si difendevano.


Questo gruppo inoltre di Dalmati eletti, amorevoli quanto si voglia verso gli Slavi, non sopportava che si oltraggiasse Venezia, e le difese della Serenissima rendeva pubbliche nel foglio ufficiale. Antonio Fenzi, a chi aveva detto che il Sarpi avesse consigliato d’immiserire la Dalmazia, sradicandone i gelsi e gli ulivi — stupida accusa, ripetuta anche ai nostri giornil) — rispondeva («Gazzetta di Zara », an. ’42, n.ro 69), rilevando che non era tutto tenebre nei tempi andati: «I ricordi di fra Paolo non cospirarono a nostro danno. Imperciocché quelli che possediamo, nulla parlano particolarmente della Dalmazia. Ma credasi pure ciò che il volgo spaccia, è certo però che la Veneta Repubblica non seguiva i consigli di lui, essendone una prova la legge agraria benefica e previdente, anzi l’unica forse per una popolazione nomade, non frenata ancora dalla forza morale, non premurosa ed antiveggente, non accostumata ad uno stabile sistema di politica economia». Alfredo Frisiani, contro alcuni giudizi, dati dal Cattalinich nelle sue «Memorie», osservava («Gazz. », an. 1845, n.ro 93): «Che nell’amministrazione il veneto governo non fosse alla Dalmazia sommamente giovevole, possiamo crederlo. La nazione per altro a quel governo affezionata era assai, e questo prova che il giogo di esso non era tirannico... Pochiufficii, pochi magistrati importavano tenui spese, tenui aggravi pubblici alla nazione. Quando Venezia fu ceduta dagli stessi suoi figli nel terribile zorno del dodese, i fedeli Schiavoni (sotto il qual nome si comprendevano per la maggior parte dalmati) non volevano cedere ad alcun patto; unitisi in orde giravano armati per le vie di Venezia proclamando il loro S. Marco, e invano per due giornate chiesero alla moriente sovrana un campione che alla testa di essi rivendicasse i suoi diritti all’abbandonato Leone». E, dopo aver ricordato il noto episodio delle bandiere venete calate a Perasto, conclude: «Un governo che fu tristo, tirannico, improvvido non finì mai fra simili dimostrazioni d’amore». Bellissimo l’articolo del Tommaseo Pii istituti, riportato dalla «Gazzetta di Venezia» nella nostra (an. 1845, n.ro 57), con cui ribatte «le parole dure che italiani e stranieri confondono contro il veneto nome»; e bellissimo uno pure di Francesco Carrara (ibid., anno 1847, n.ro 72) intitolato Carattere dei dalmati, nel quale rilevava cotesto carattere dai vicendevoli legami d’affetto e di fede che avevano stretto per tanto tempo i dalmati a Venezia. Ricordava, fra le altre cose, il discorso del Foscarini a favore della Dalmazia; l’elogio, che dei dalmati fece il Goldoni nella «Dalmatina» e nelle sue «Memorie» (lI, 34); le lagrime, sparse a Zara e a Perasto sulle bandiere venete, tolte dagli stendardi alla venuta degli austriaci. Ricordava che Fabio Mutinelli aveva dedicato i suoi «Annali di Venezia» agli schiavoni: «A voi, che soli fra tutti nell’estremo caso di Venezia, consegnando altrui il vessillo di s. Marco, sospiratamente baciato ed abbracciato l’avete, prorompendo in pianto dirotto, a voi questo libro giustamente appartiene». Ricordava che un povero prete schiavone, suo conoscente, conservato gelosamente un di quei venerati vessilli, lo dispiegava ogni anno nel di di s. Marco e, banchettando condue amici della giovinezza, bagnava le labbra al leone col vino di Cipro.

Questa digressione valga a dimostrare che il nazionalismo slavo in Dalmazia non è anteriore al secolo decimottavo, che non è stato mai generalmente inteso, e che sono il più delle volte esagerate e senza fondamento le rintegrazioni etimologiche, fatte posteriormente dagli slavisti. Sicché, tornando all’argomento di questo scritto, se è vero, per testimonianza di tutti quelli i quali hanno parlato del Fortunio, che egli era schiavone, è vero altresì che nessuno, in mezzo a tanti slavici amori, ha mai rilevato, essere la voce <Fortunio> traduzione di Srica, che vale fortuna. Il primo ad affermarlo fu il dr. M. Srepel nella monografia «Hrvat prvi gramatik talijanskoga jezika » (Un croato, primo grammatico della lingua italiana), pubblicata nel «Rad» di Zagabria, voi. 140, pag 1 e segg., an. 1899. E come l’ha saputo? L’ha semplicemente immaginato, mettendo insieme questo ragionamento: Nel nome Fortunioc’è la parola fortuna, il Fortunio era schiavone, di conseguenza gli Schiavoni erano croati, dunque il Fortunio si sarà chiamato croatamente Srica, che poi tradusse in fortuna, da cui formò Fortunio. Ma in questo ragionamento c’è una premessa falsa: Venezia, è vero, chiamava Schiavoni gli abitanti dell’Adriatico orientale, ma non tutti quegli abitanti detti Schiavoni erano croati, o slavi in generale. E così a torto lo Srepel ripete che il Meldola era un Medulich e, nuova scoperta, che il Carpaccio era un Krpac, sempre col pretesto che il Meldola sarebbe stato uno schiavone della Dalmazia, e il Carpaccio dell’Istria.


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