domenica 12 novembre 2023

La pulizia etnica come oggettivo risultato finale: gli italiani stranieri in casa propria (Orietta Moscarda Oblak)

Se il risultato dell'esodo fu oggettivamente la “pulizia etnica” dell’Istria dalla presenza italiana, è necessario risalire alle origini del fenomeno, per verificare se si trattò di un disegno prestabilito oppure di una catena di azioni e reazioni, in certa misura almeno impreviste, che l’evolversi degli avvenimenti finì per configurare come un evento epocale per la storia istriana. Per poter scegliere però fra un’ipotesi per così dire “intenzionalista” e una invece di tipo “funzionalista”, è indispensabile fare chiarezza sull’evoluzione della politica jugoslava nei confronti degli italiani dell’Istria e sulla logica interna che la governò, e quindi distinguerla in tutte le sue articolazioni e nei diversi periodi. Muovendosi all’interno di tale prospettiva sono dunque individuabili una serie di soggetti politici – il governo federale, quelli repubblicani, i Comitati popolari di liberazione, la polizia segreta (OZNA), l’esercito, mossi da logiche spesso diverse, come a esempio la rivalsa nazionale, ben presente a livello repubblicano croato e sloveno, e l’aggressività nazionale e ideologica, che, secondo innumerevoli testimonianze, permeò l’azione dei quadri locali del regime. Discrepanze in tal senso si possono notare anche in riferimento all’atteggiamento tenuto nei confronti delle partenze degli italiani: partenze che a livello locale furono in genere accolte con grande favore, se non apertamente sollecitate anche con l’uso di metodi terroristici, mentre da parte del governo di Belgrado – consapevole dei riflessi negativi di una troppo plateale fuga degli italiani sul negoziato in corso in merito alla sorte dell’Istria – si cercò invece a più riprese di rallentarle con una serie di provvedimenti intimidatorii. Un primo elemento di valutazione è dunque costituito dalla politica della “fratellanza italo-slava”, all’insegna della quale i nuovi poteri presentarono la loro azione nel 1945 e alla quale rimasero almeno a parole fedeli fino a quando la rottura con il Cominform nel giugno 1948 non indusse il governo di Belgrado a mutare linea.

Va subito infatti precisato che – al di là delle declamazioni teoriche e propagandistiche – quanto a contenuti politici tale linea non prevedeva affatto un’autentica parità di condizioni fra il gruppo nazionale italiano e quelli sloveno e croato viventi in Istria, ma si limitava a consentire che nello Stato socialista jugoslavo fosse mantenuta una componente italiana, purché in tutto e per tutto conformista rispetto agli orientamenti ideologici e nazionali del regime. Agli italiani, insomma, era permesso di partecipare all’edificazione del socialismo sulla base del contributo da loro dato alla lotta di liberazione, ma la costruzione del socialismo significò in concreto la distruzione delle basi su cui si fondava il ruolo tradizionalmente svolto dalla componente italiana nella società istriana e, in ultima analisi, l’eliminazione di qualsiasi forma di potere economico, sociale e culturale del gruppo nazionale italiano. La “costruzione del socialismo” fu infatti il prodotto di un processo rivoluzionario che comportò l’instaurazione di un sistema politico-amministrativo basato sui CPL, organi supremi del potere popolare, l’attuazione di rigide misure economiche attraverso gli ammassi, i sequestri e le confische dei patrimoni, l’istituzione di cooperative, la riforma agraria, e tutta una serie di altri provvedimenti, complessivamente percepiti dalla popolazione come affatto contrari ai propri interessi. Inoltre, l’efficienza di un apparato poliziesco e repressivo la cui pressione era in genere inasprita dai pregiudizi nazionalisti a danno degli italiani, la negazione delle libertà individuali e l’uso assai disinvolto di una giustizia “rivoluzionaria” attraverso i tribunali del popolo, generarono nella popolazione forti risentimenti verso le autorità popolari, considerate del tutto estranee e avverse. A ciò si aggiunse una sensazione di generale oppressione che finì per sfociare nel rifiuto da parte degli istriani di una prassi che comportava uno sconvolgimento totale delle loro vite. In particolare, le forme in cui si attuò la “giustizia del popolo”, favorite da una legislazione spregiudicata, costituirono un fattore molto importante nelle spinte che determinarono l’esodo. L’uso strumentale della giustizia, attraverso il meccanismo dei processi, dei sequestri e delle confische nei confronti dei cittadini italiani, non solo favorì la conquista del potere politico da parte dei comunisti e la creazione della base economica dello stato “socialista”, ma agì anche come elemento di sopraffazione nazionale. Attraverso tali sistemi furono infatti colpiti con grande efficacia gli avversari politici della Jugoslavia comunista, gli esponenti di qualsiasi partito diverso da quello comunista – e nel 1948 anche i comunisti “cominformisti” –, i ceti considerati “capitalistici”, dagli industriali ai commercianti, agli esercenti e artigiani, assieme ai religiosi (parroci, vescovi e frati) e agli intellettuali, in particolare gli insegnanti, definiti in blocco “nemici del popolo”.

È evidente che provvedimenti del genere colpivano pure, in Istria come nel resto della Jugoslavia, anche un gran numero di sloveni e croati riluttanti all’adesione al regime, o anche semplicemente considerati potenzialmente pericolosi sulla base del loro passato politico e della loro stessa collocazione sociale. Ma è altrettanto chiaro che la decapitazione della classe dirigente italiana, e i comportamenti persecutorii contro figure chiave per la difesa dell’identità nazionale italiana, quali gli insegnanti e il clero, assumevano un’oggettiva valenza snazionalizzatrice di cui le autorità erano perfettamente consapevoli. Quindi, nel rapporto tra obiettivi politici – cioè l’annessione del territorio istriano alla Jugoslavia – e rivoluzionari emerge la presenza di una politica rivolta a intaccare profondamente l’identità nazionale degli italiani dell’Istria e di Fiume. Peraltro, la questione di fondo, che lo stato degli studi non ci consente di chiarire, è appunto la logica che di volta in volta regolava il nesso tra radicalismo ideologico e pulsioni nazionaliste. Perciò rimane sostanzialmente aperto l’interrogativo sull’esistenza o meno di un generale disegno di persecuzione politica e di espropriazione economica, diretto a rendere di fatto impossibile la permanenza della popolazione italiane nella sua terra d’origine. Del tutte frammentarie, infatti, e soprattutto prive di una rigorosa possibilità di verifica, rimangono quindi le pur importanti testimonianze, come quella resa a decenni di distanza da Milovan Djilas, secondo le quali Tito stesso avrebbe ordinato, fin dal 1945, di provvedere all’espulsione degli italiani dall’Istria, incaricando di ciò lo stesso Djilas assieme a Kardeij. Né si può dimenticare che, almeno in una prima fase, alla persecuzione contro gli “elementi ostili” ai poteri popolari collaborarono anche i quadri comunisti di lingua italiana presenti negli organismi locali del partito e dell’amministrazione, e che, evidentemente, si muovevano sulla base di spinte di natura ideologica e non nazionale. Accanto a queste considerazioni va comunque tenuto nel debito conto quell’elemento soggettivo, presentato come motivazione centrale dell’esodo dalla memorialistica degli esuli, che è costituito dalla paura. Era infatti un clima di paura quello che si respirava in Istria nel dopoguerra: una paura alimentata dai precedenti creati dalle foibe del 1943 e del 1945, e continuamente ravvivata dalle prepotenze, spesso sanguinose, talora fatali, compiute direttamente dai poteri dello Stato o, più spesso, delegate agli attivisti del partito con la benevola tolleranza delle autorità. Ma al timore per l’incolumità fisica si sommava quello innescato dallo sconvolgimento che le nuove culture egemoni, rispettivamente croata e slovena, portavano nella società. La trasformazione dei rapporti di classe, l’azzeramento delle consuetudini sociali, la scomparsa dei punti di riferimento culturale, la criminalizzazione della vita religiosa, l’ imposizione di una nuova etica, al centro della quale stava la fedeltà alla finalità rivoluzionarie e alla patria jugoslava, portavano con sé anche il sovvertimento delle tradizioni, dei valori e dei contenuti della cultura istriana, e quindi, per gli italiani, la negazione della propria identità. Ciò che la popolazione dell’Istria finì dunque per percepire fu la sensazione di una radicale estraneità rispetto a una società che era mutata completamente. L’alternativa era costituita dall’abbandono della propria terra, unica scelta possibile per “non sentirsi stranieri in casa propria”.

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