martedì 14 novembre 2023

Il Faro della Vittoria (Trieste)

È noto che le zone di mare costituenti i frequentati crocevia della navigazione e i punti di approdo del naviglio mercantile hanno richiesto fin dai tempi antichi particolari impianti luminosi di riferimento, segnalazione e di allerta tali da assicurare percorsi e manovre esenti da pericoli e da possibili danni ai corpi e ai beni. 

Dai semplici fuochi accesi in punti costieri eminenti si è passati presto a quelle costruzioni note come fari, nome comune derivante da Faro, quale è il nome proprio dello scoglio esistente davanti al porto egizio di Alessandria, sul quale era stato costruito in epoca ellenistica il più noto e celebrato degli impianti antichi. 

Dal fuoco a fiamma libera, soggetto al capriccio delle intemperie, si è passati via via a fonti luminose protette e sempre più efficienti fino ad arrivare, dopo tanti secoli di attuazioni e pratiche sempre più elaborate, agli attuali sistemi automatizzati che non sembrano suscettibili di ulteriori sviluppi pragmatici nella catena delle luminosità segnaletiche snodantesi lungo tutte le coste e gli approdi marittimi. 

Il Golfo di Trieste ha rappresentato, specialmente a partire dalla metà del 1800 e fino alla metà di questo nostro secolo, una delle zone più intense di traffico battuto sia da navi di altura, da passeggeri e da carico, sia da naviglio costiero di linea e di piccolo cabotaggio armati da grandi compagnie di navigazione e da una miriade di armatori minori. 

L’impianto di fari di grande atterramento e di portata locale, dalla foce del fiume Tagliamento a Punta Salvore, è stato pertanto particolarmente curato con cinque costruzioni oggi non tutte in attività ma ancora esistenti tranne una, la minore, demolita nel secondo dopoguerra. 


L’idea di un faro rispondente non solo alle funzioni nautiche come prodotto tecnico ma anche con carattere di monumentalità come espressione artistica secondo un abbinamento forse unico in un impianto del genere, è nata a Bologna durante la prima guerra mondiale, nel 1917, tra un gruppo di profughi, in casa del dott. Silvio Sbisà, parentino. Era presente anche l’architetto Arduino Berlam che si assumeva l’impegno di stendere il progetto di massima per un’opera che si presentasse veramente monumentale a ricordo dei caduti in una guerra immane che aveva portato alla realizzazione del sogno irredentistico delle terre adriatiche. 

Tornato a Trieste, l’architetto Berlam prendeva contatto con lo scultore Giovanni Mayer per la parte artistica e col capitano Piero Fragiacomo per la parte nautica dando forma concreta al progetto che incontrava l’interesse del conte Salvatore Segrè Sartorio, presidente della neocostituita sezione triestina della Lega Navale Italiana, mentre il contrammiraglio Guido Fava, comandante della Difesa Marittima di Trieste, assicurava il suo appoggio.

Scartata l’idea di alzare la costruzione sulla Punta Salvore (dove esisteva già un grande faro, funzionante), parve più favorevole la posizione offerta dal ciglione del colle di Gretta, che dava direttamente sul porto con la possibilità di avere un punto luce molto elevato sul livello del mare. 

Fu così che, il 10 agosto 1919, la Lega Navale sottoponeva il progetto al Ministero della Marina, che dava la sua approvazione il 3 novembre successivo. Si formava un comitato cittadino con alla testa il contrammiraglio Fava e con la partecipazione della Lega Navale, dei rappresentanti degli armatori, delle industrie, degli enti economici, e contemporaneamente l’ing. Ettore Pollich della Navigazione Libera Triestina provvedeva all’acquisto del vecchio forte ex austriaco di Gretta col relativo terreno. 

Il lavoro preparatorio veniva portato avanti con notevole celerità, tanto che il progetto particolareggiato poteva essere spedito a Roma già nel 1920 incontrando l’approvazioneve senza tante lungaggini burocratiche con un premio concesso al Berlam, che lo destinava all’opera raddoppiando l’importo secondo la volontà testamentaria del padre. Il contratto di costruzione veniva firmato il 30 luglio 1922 con un consorzio fra cooperative edili di ex combattenti ed assumeva la direzione dei lavori il noto architetto Guido Cirilli con l’architetto Paladini quale coadiutore. L’architetto Arduino Berlam manteneva la consulenza generale dell’opera, di cui era l’autorevole e riconosciuto promotore. Va ricordato che il Berlam, allora quarantottenne, era il terzo di una generazione familiare di architetti noti dal 1860, che avevano lasciato più di un’impronta nell’ambiente urbanistico triestino.


I lavori avevano inizio il 15 gennaio 1923 con la demolizione delle parti non utilizzabili del vecchio forte, sul quale veniva incorporata la grande base di appoggio della nuova costruzione, sotto la vigilanza del Genio Civile, che provvedeva a lavori in proprio per il consolidamento dell’area interessata e la costruzione della strada di accesso con interventi degli ingegneri Lori, Krall, Piacentini, Baratelli, Rizzoli, Camanzi e, da ultimo, dell’ingegnere capo Atena coadiuvato dall’ing. Verderame. Ogni appoggio era assicurato dall’armatore Alberto Cosulich, nuovo presidente della Lega Navale, il governo concedeva 15.000 chilogrammi di bronzo (ricavato dalla fuzione di armi di preda bellica), l’opinione pubblica manifestava vivo interesse, si appassionava, arrivavano numerose oblazioni specialmente da parte delle società di navigazione, anche da parte degli italiani d’America tramite il giornale “Il Progresso Italo-Americano” rispondendo all’iniziativa dell’architetto Whitrey Warren. 

La costruzione di un’opera tanto particolare non era facile, si presentavano grossi problemi di statica, di solidità e di resistenza alla torsione imponendo delle modifiche in corso d’opera specialmente a livello del basamento con intervento degli ingegneri Cirilli e Pincherle Muratori. Venivano incaricati dei calcoli delle resistenze gli ingegneri Raffaello e Beniamino Battigelli, ai quali si deve la solidità della base e dell’alta costruzione a colonna rispetto alle sollecitazioni provocate da movimenti tellurici e dalle raffiche della bora, che in quel punto scende gagliarda dall’altipiano carsico. 

Il 3 febbraio 1924, il Grande Ammiraglio Thaon de Revel veniva ad ispezionare i lavori, che trovava molto avanzati: recava in dono l’ancora del cacciatorpediniere “Audace”, che suggeriva di sistemare sul prospetto del basamento, e due grandi proiettili da 305 mm. della corazzata austro-ungarica “Viribus Unitis” (affondata il 3 novembre 1918 nel porto di Pola dagli incursori Paolucci e Rossetti ) che venivano sistemate a fianco della porta d’ingresso del Faro. 

Sull’ancora dell’”Audace” si trovava applicata una targhetta con la scritta “Fatta prima d’ogni altra sacra dalle acque della Gemma Redenta il III Novembre MCMXVIII”, vale a dire in ricordo del primo attracco dell’unità avvenuto in quella data.


Lo scultore Mayer, approvate certe modifiche concettuali ed estetiche all’idea iniziale del Berlam, portava a compimento la grande statua lapidea del Marinaio e alla fine del 1925 appariva in tutta la sua altezza il corpo cilindrico del Faro simile ad una gigantesca colonna scanalata. 

Seguiva, nell’agosto del 1926, nell’officina del triestino Giacomo Srebot, il collaudo della statua della Vittoria Alata risultante dal martellamento di lastre di rame sulla figura originale in gesso ed arrivava la lanterna metallica sormontata dalla cupola di rame squamata a sbalzo, eseguita dalla ditta Alfonso Curci di Napoli su disegno dell’Officina Autonoma dei Fari e Segnalamento di Trieste. 

Collocate al loro posto le due grandi statue, la litica su di un plinto a coronamento della base e la metallica sopra la cupola, l’opera poteva dirsi compiuta nei primi mesi del 1927.


Veniva solennemente inaugurata alla presenza della massima autorità dello stato, del Re d’Italia, e delle maggiori e più rappresentative autorità del momento.


Il Faro triestino, pensato, voluto e realizzato con tanta determinazione, idealità e concorso di impegni di vario genere e significato, veniva a distinguersi ed acquistava notorietà quale monumentale opera d’arte che nulla sottraeva e sottrae al fine pratico al quale era ed è destinato. Opera maestosa e dominatrice da qualunque parte si guardi, alta 68,8 metri dalla base alla cima delle ali della statua superiore, che misura 7 metri come la statua del Marinaio. La parte inferiore del basamento veniva eseguita in pietra grigia di Gabria, la parte scampanata e il resto della costruzione in pietra bianca di Orsera, con colonna rastremata terminante in un capitello costituito da una gola aerea con pietre ad incastro aggettanti a raggera , punto di passaggio dalla costruzione litica a quella metallica munita di un secondo terrazzino aereo circolare. 

Sulla base spicca un grande e semplice cartello dedicatorio rettangolare, recante la scritta dettata dallo stesso Berlam, senza enfasi 

A.D. MCMXXVII

SPLENDI.E.RICORDA 

I.CADUTI.SVL.MARE 

MCMXV MCMXVIII


Le varie parti che compongono il monumento sono realizzate con tanta coesione da sembrare monolitiche. L’esecuzione è in calcestruzzo e in cemento armato irrobustiti da un’ossatura di ferro, con rivestimento litico a fine estetico. Una scala a chiocciola interna dà accesso al primo ballatoio aereo, che gira intorno al basamento a 17 metri d’altezza; una seconda scala a chiocciola interna porta al secondo ballatoio aereo posto a 51 metri di altezza consentendo una vista sulla città e sul golfo di grande suggestione e richiamo; si continua a salire entro la cella metallica fino alla parte superiore che dà accesso ad un terzo ballatorio circolare, con chiusura a vetrate e sede della potente fonte luminosa elettrica rotante costituente il fine istituzionale della non comune costruzione. 


Gli apparecchi ottici e la lampada del Faro venivano collocati, e tutt’ora lo sono, nei due ripiani della lanterna posti sotto la cupola di rame. 

La sistemazione completa di questa parte dell’opera veniva affidata dal Ministero della Marina al Comando di Zona Fari e Segnalamenti Marittimi di Trieste, che allora era retto dal capitano di fregata Gino Fanelli, sotto la cui direzione si segnalarono il capitano Pietro Fragiacomo, collaboratore fin dal tempo del primo progetto, il capotecnico Cesare Chenda, che concepiva e disegnava la lanterna e l’elettrotecnico Marcello Tomasincig. che curava tutta la sistemazione del macchinario, con rotazione a contrappesi.

Il Faro era allacciato alla rete elettrica cittadina ma, contemplandosi il caso di caduta dell’energia erogata da questa fonte, si provvedeva ad un impianto di emergenza autonomo con un generatore sistemato nell’attigua casamatta del vecchio forte. Ipotizzato un guasto a carico anche dell’impianto elettrico di emergenza, si istallava un secondo ausilio con una fonte luminosa a vapori di petrolio come sperimentata dal R.Ufficio Tecnico dei Fari e Segnalamenti Marittimi di Napoli. 

La fonte luminosa era emessa da una grande lampada ad incandescenza da 80 Volts e 30 Ampères fornita dalla Società olandese Philips di Eindhoven, capace di sviluppare un’intensità media di 4.350 candele internazionali. Intorno ad essa ruotava (e ruota) un apparecchio ottico costituito da due gruppi di due lenti Fresnel ciascuno, che elevava la potenza fino a 1.250.000 candele internazionali, tale da assicurare un raggio luminoso della portata per trasparenza media di circa 26 miglia, secondo un ampio cerchio che andava dalla foce del fiume Tagliamento fino all’altezza della città istriana di Parenzo, al limite quindi delle possibilità tecniche di convenienza, condizionate dalla fisica dello strato inferiore, assorbente, dell ’atmosfera. 

La sigla di riconoscimento del Faro triestino, come dire il biglietto da visita, era data (e tutt’ora lo è) da due lampi di luce bianca intervallati da quattro secondi di eclissi, ripetuti tre volte nel giro completo. 

Non è molto cambiato, nel tempo, in questa sistemazione se non l’automazione che è ormai completa.


Opera d’arte, si è detto, e come tale il Faro abbisognava di una illuminazione che, di notte, ne rivelasse la linea architettonica ed ne esaltasse le modanature, uniche nel suo genere ed ispirate ai monumenti della classicità. 

Se ne faceva carico l’ing. Italo Bonazzi, presidente della sezione di Trieste dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, pensando fin dall’estate del 1930 ad una luce radente esterna con proiettori sistemati convenientemente. Quando nel settembre successivo si teneva nel capoluogo giuliano la XXXV Riunione annuale dell’Associazione con una visita, tra l’altro, al Faro, l’ing. Bonazzi veniva incoraggiato a portare avanti l’idea con l’approvazione del sindaco senatore Giorgio Pitacco e dello stesso architetto Berlam. Ma il Comando Zona Fari dava risposta negativa in quanto il regolamentointernazionale proibiva l’accensione di luci entro l’area di 200 metri intorno al faro stesso ritenendo necessario evitare interferenze nei confronti dei naviganti. 

L’ing. Bonazzi non si arrendeva, si recava a Roma, interessava della questione il Ministero della Marina ed otteneva che il comando della Base di Venezia inviasse nel Golfo di Trieste il rimorchiatore “Porto Empedocle” con alcuni ufficiali allo scopo di effettuare prove tecniche notturne mentre a terra venivano accesi dei faretti che l’ing. Bonazzi s’era fatto prestare dall’ACEGAT. Si scattavano delle fotografie che mostravano come l’illuminazione esterna non comportava alcuna interferenza con la segnalazione ottica del Faro. 

Caduta ogni opposizione, l’ing. Bonazzi, evidentemente uomo di grande polso e attivo, non perdeva tempo e faceva sistemare l’impianto esterno con prontezza in modo che si potesse inaugurarlo il 20 settembre 1930, giorno della sessione conclusiva del raduno nazionale dell’Associazione Elettrotecnica Italiana tra l’entusiasmo dei congressisti e delle autorità ospitate a bordo del transatlantico “Vulcania” mentre la gente gremiva la riviera di Barcola . L’architetto Berlam non mancava di manifestare al Bonazzi la sua soddisfazione nel constatare che, grazie alla illuminazione radente, la sua opera acquistava la piena valorizzazione anche in sede morale ed estetica. 

Durante il secondo conflitto mondiale, l’impianto dei faretti veniva distrutto ma l’ing. Bonazzi s’interessava, appena possibile, a farlo ricostruire almeno parzialmente superando con pazienza le difficoltà frapposte dagli ufficiali del Governo Militare Alleato, che ne avevano sbarrato il passo, riuscendo, il 24 settembre 1949, a far risplendere nuovamente il ciglione di Gretta dopo quasi dieci anni di eclisse. 

A partire dal 1986 i faretti cominciarono a cedere richiedendo continui lavori di parziale riparazione finchè si è imposta la ricostruzione di tutto l’impianto esterno. Il che è avvenuto ridando pace, crediamo, agli spiriti di Berlam, di Bonazzi, di quanti con tanto impegno si sono prestati ad un’ opera che non ha uguali, di quanti essa è sorta a ricordare. 


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