Alfonso Valerio nacque a Trieste il 18 luglio 1852, ultimo di dieci fratelli, da Angelo, un industriale con attività a Trieste e a Pola, e da Antonia Bartoli.
La famiglia, di forti sentimenti italiani, era benestante e animata dallo spirito imprenditoriale del padre, ma non apparteneva all’élite cosmopolita dell’economia e della finanza triestine; fu piuttosto la tipica espressione di quella variegata borghesia ottocentesca, commerciale e legata alle professioni, che trovava la sua omogeneità nell’essere portatrice e testimone della tradizione, del gusto e della cultura italiana. Come viene raccontato nelle memorie del figlio Manlio, in famiglia si parlava abitualmente il dialetto.
Valerio frequentò il ginnasio Dante Alighieri, luogo in cui a Trieste la sua generazione si formò all’insegna del culto della nazionalità e della resistenza nei confronti del governo austriaco; per aver sfregiato l’effige dell’imperatore che appariva su molte copertine dei libri di testo, Valerio fu incriminato dalle autorità di polizia assieme ad altri compagni.
Fin da giovane aderì al Partito nazional-liberale e militò sempre nel campo irredentista accanto ad altri personaggi della sua generazione, tra i quali Felice Venezian e Attilio Hortis; fu credente ma non praticante e contrariamente alla quasi totalità del gruppo dirigente liberale non fece parte della massoneria. Nel 1897 fu eletto nel Consiglio comunale con il Partito liberal-nazionale, che in quell’anno si affermò trionfalmente in tutti i corpi elettorali del Comune; dal 1899 al 1906 ricoprì la carica di vicepodestà.
Furono anni critici per il movimento irredentista, costretto a misurarsi con l’affermazione di un movimento socialista di impronta internazionalista e con un’immigrazione crescente del gruppo slavo, che si radicava come comunità nazionale rivendicando diritti, scuole, libertà di associazione.
Nell’agosto del 1909 le elezioni comunali si tennero sulla base di un nuovo regolamento che, pur mantenendo l’impianto censitario, allargava la base elettorale; i socialisti registrarono una buona affermazione, ma i liberal nazionali riuscirono a mantenere una maggioranza superiore ai due terzi e a eleggere Valerio come podestà. Nel suo primo discorso al Consiglio comunale dichiarò che «tra le mansioni affidatemi [...] sta al di sopra di tutte il più geloso attaccamento alla nostra nazionalità. [...] Questo lembo di terra è stato ed è italiano, e noi con qualsiasi sacrificio ed a qualunque costo dobbiamo difenderne l’italianità da tante parti ed in tanti modi insidiata»; nello stesso tempo assicurò, richiamandosi ai principi liberali, uguale rispetto nei confronti delle altre nazionalità e della minoranza politica così come di «ogni opinione onestamente intesa e professata» (Valerio, 1980, pp. 17 s.). Nelle intenzioni programmatiche si impegnò ad attuare un piano urbanistico con la creazione di spazi verdi e quartieri periferici collegati al centro da nuove vie di comunicazione, il risanamento delle zone più povere e il potenziamento dei servizi a rete. La sua figura venne apprezzata dall’opinione pubblica e riconosciuta come simbolo di onestà, equilibrio e capacità di gestione del Comune triestino; il 13 agosto 1913 il Consiglio comunale rinnovò all’unanimità per un altro quadriennio il mandato podestarile.
In occasione di cerimonie e apparizioni ufficiali Valerio vestiva in borghese, senza alcuna decorazione, e con le autorità imperiali parlava solo italiano. Appoggiò le tante manifestazioni dispiegate dal movimento irredentista e in particolare quelle per la costituzione di un’università italiana a Trieste. Nel 1909 fu avviata un’istruttoria a suo carico e venne imputato a piede libero per aver cantato l’‘inno di Garibaldi’ ed essere stato alla testa di dimostranti contro un corteo di croati a Trieste.
Rimase in carica fino al 1915, quando allo scoppio della guerra mondiale il luogotenente sciolse il Consiglio e la giunta comunali e destituì il podestà; Valerio continuò a essere un punto di riferimento soprattutto per i cittadini italiani residenti a Trieste, attirandosi le accuse governative per aver prestato aiuto ai transfughi verso l’Italia. Nel novembre del 1915 si recò a Graz per testimoniare in un processo a un gruppo di giovani irredentisti triestini ma, pur minacciato di incriminazione per manifestazione sediziosa.
Con la sconfitta delle truppe austriache a Vittorio Veneto, Trieste insorse, i prigionieri politici vennero liberati, le insegne austriache abbattute e le bandiere italiane innalzate; Valerio radunò i patrioti italiani in un Fronte nazionale e per far fronte all’emergenza il 31 ottobre 1918 istituì un Comitato di salute pubblica da lui presieduto, composto da ventiquattro membri, metà del Partito socialista e metà del Partito liberal-nazionale, al quale il luogotenente austriaco fu costretto a consegnare formalmente i poteri politici e amministrativi prima di lasciare la città. La difficoltà di mantenere l’ordine pubblico indusse il Comitato a richiedere l’intervento urgente delle truppe italiane stanziate a Venezia.
Il 3 novembre, con l’arrivo del cacciatorpediniere Audace, accolto assieme ad altre navi da guerra italiane dalla cittadinanza riversatasi nelle strade e sui moli, sbarcò a Trieste il generale Carlo Petitti di Roreto, che assunse il potere politico e amministrativo e sciolse il Comitato di salute pubblica reintegrando la rappresentanza municipale eletta nel 1913. Valerio fu dunque il primo sindaco di Trieste italiana, all’insegna della continuità con le istituzioni municipali prebelliche e di omaggio alla generazione che aveva difeso l’italianità durante il regime asburgico.
Il 24 febbraio 1919 fu nominato senatore per aver tenuto «sempre viva la fiamma del più puro sentimento di italianità» (Senato della Repubblica, Senatori del Regno, Fascicoli personali, n. 5).
A Trieste, già nel dicembre del 1918, la componente socialista del Consiglio comunale sollevò la questione dell’inadeguatezza dell’assemblea, eletta con il vecchio sistema censitario; alla richiesta del sindaco Valerio di collaborare ai lavori della giunta e delle commissioni i socialisti contrapposero ripetutamente la richiesta di scioglimento dell’assemblea consigliare, determinando una situazione di incertezza e fragilità del governo locale. Si profilava la necessità di rifondare un fronte politico patriottico che riuscisse a superare l’impronta municipalistica e notabiliare della vecchia classe dirigente, anche secondo quanto auspicato dal Governatorato, per riuscire a contrastare efficacemente il movimento socialista (cfr. Visintin, 2000, p. 61). Inoltre, come osservò ancora il governatore, non era opportuno «esporre una delle figure più autorevoli e reputate come il Senatore Valerio alla critica astiosa e dissolvitrice dei partiti in lotta» (p. 63). In realtà emergeva la preoccupazione per l’eccessiva remissività dimostrata dal sindaco sia nei confronti delle opposizioni sia in merito alle rivendicazioni avanzate nel frattempo dal personale burocratico e dai dipendenti del Comune. Con la formazione del governo Nitti arrivò l’impulso decisivo allo scioglimento del Consiglio, che avvenne l’11 luglio 1919, e alla destituzione del sindaco; la carica di amministratore civico venne attribuita al consigliere di Stato Antonio Mosconi.
In Senato, nell’occasione della votazione sul trattato di Rapallo, Valerio espresse sentimenti di felicità e gratitudine per essere chiamato a partecipare al momento che finalmente sanciva l’unione della Venezia Giulia all’Italia, tuttavia nello stesso tempo dichiarò con tristezza l’impossibilità di esprimere un voto favorevole a causa della perdita della Dalmazia sancita dal trattato e della solidarietà che sentiva di dovere ai patrioti dalmati.
Continuò a essere tra i protagonisti dell’associazionismo cittadino; divenne presidente della Società servizi automobilistici della Venezia Giulia (1921) e membro dei Consigli di amministrazione del Lloyd triestino e della Società elettrica della Venezia Giulia (1924).
Nel 1924 accettò la tessera ad honorem del Partito nazionale fascista. Nel 1930 si trasferì a Gorizia per assistere la moglie inferma, ricoverata al sanatorio di Villa S. Giusto; rimasto vedovo nel 1934, tornò a Trieste e si ritirò in campagna, a Villa Opicina, dedicandosi alla coltivazione dei campi che aveva acquistato e alle frequenti visite di figli, nipoti e conoscenti.
Morì novantenne il 28 dicembre 1942 e nel testamento rinunciò a pubbliche onoranze funebri.
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