Scrive Ernesto Sestan, il grande storico originario di Albona, Istria:
«In un quarantennio, quasi, di irredentismo, niente congiure, niente cospirazioni, nessun turbamento sensibile dell’ordine pubblico, nemmeno […] nessuna diserzione dagli obblighi militari, nessun atto di spionaggio militare da parte degli irredentisti adriatici […], nessuno spirito barricadiero […], nessun comitato di tipo balcanico. Benché l’irredentismo italiano abbia dato il nome alle consimili rivendicazioni nazionali in altre parti d’Europa, fu tra tutti uno dei più pacifici, legalitari […] gli animi potevano essere e anche erano gonfi di passioni […] ma non armavano la mano, non trasmodavano in azioni di forza […] Si combatteva con armi legali.». «Anche quando […] la pressione slava si fece sentire più forte - scrive il Sestan, da parte italiana - gli atti di violenza e di intemperanza si contano sulle dita di una mano.» Gli atti di violenza compiuti da irredentisti furono quindi assai rari.
Al contrario, il nazionalismo sloveno e croato nel 1866-1918 si servì ampiamente della violenza politica contro gli italiani, con innumerevoli atti criminali, che furono non di rado tollerati se non favoriti dalle autorità. In alcuni casi si può ipotizzare anzi che si sia trattato di un “terrorismo di stato” contro gli italiani.
Già il feldmaresciallo Josef Radetzky era giunto ad avanzare progetti di vera e propria pulizia etnica contro gli Italiani. Egli si espresse recisamente riguardo al destino della Dalmazia, proponendo la sua slavizzazione forzata. Similmente, il feldmaresciallo non esitò a minacciare gli abitanti del Lombardo-Veneto di compiere una pulizia etnica d’ampie proporzioni, che sarebbe dovuta consistere nelle sue intenzioni nella cacciata od uccisione della classe dirigente locale, sul modello delle “Stragi di Galizia”. In questa regione, all’epoca sotto il dominio imperiale, una grave crisi agraria determinò nel 1846 un’estesa insurrezione contadina, che condusse al massacro di diverse centinaia di proprietari terrieri.
La rivolta non incontrò nessuna efficace resistenza dalle autorità militari e di polizia asburgiche, che di fatto la tollerarono. Sorse anzi il sospetto che gli amministratori imperiali avessero fomentato e favorito l’insurrezione, per poter meglio controllare la regione galiziana dividendo fra di loro le etnie che la componevano, da cui deriva l’espressione di “metodo galiziano” per indicare una simile prassi. Infatti, la rivolta vide i contadini locali, d’etnia rutena, uccidere i proprietari terrieri, d’etnia polacca.
Le minacce di Radetzky di far ripetere in Italia “le stragi di Galizia”, non erano vane, poiché anche nel Lombardo-Veneto vi furono nel 1846-1847 diversi tumulti provocati dalla crisi agraria, che furono attribuiti da buona parte dell’opinione pubblica all’azione sobillatrice del governo. Sono numerose le memorie che riportano le minacce di Radetzky di ripetere in Lombardia e Veneto gli eccidi compiuti in Galizia ed il feldmaresciallo le riferì personalmente nei suoi numerosi proclami posteriori al 1848.
Minacce analoghe contro gli italiani erano pervenute anche da un governatore di Trieste, il generale Ferencz Gyulai (poi feldmaresciallo, vicerè del Lombardo-Veneto e comandante l’esercito austriaco nella guerra del 1859). Nel 1848 fu pubblicato sull’Osservatore Triestino, che fungeva in pratica da organo di stampa governativo, un articolo di sua ispirazione, in cui s’avvisava in termini minatori che era possibile incitare le masse slave dell’Istria contro gli italiani, provocando una guerra civile. L’idea espressa dal Gyulai era quindi analoga, ancora una volta, allo schema delle “Stragi di Galizia”, con il proposito di sobillare un’etnia più fedele all’impero per aggredire un’altra che desiderava l’indipendenza.
Il famoso ordine espresso direttamente dall’imperatore Francesco Giuseppe nel 1866 di procedere alla snazionalizzazione forzata degli italiani, che doveva corrispondere in Venezia Giulia ed in Dalmazia alla loro slavizzazione, non si poneva quindi come una rottura radicale della tradizione politica dell’impero ed all’indirizzo filoslavo ed italofobo da tempo assunto, anzi si inseriva in un solco preesistente.
Il periodo compreso fra il 1866 ed il 1915 conobbe nei territori italiani ancora occupati dall’impero, la Venezia Giulia e la Dalmazia, una catena ininterrotta di violenze contro gli abitanti e perpetrate da nazionalisti sloveni e croati, spesso con il diretto sostegno, la connivenza od il tacito assenso delle autorità imperial-regie. Un testimone dell’epoca, Raimondo Deranez, riferisce, con dovizia di particolari e dettagli, 35 casi di atti di violenza politica contro gli italiani nel solo 1909 ed in sole 10 località della Dalmazia, divisa in più di 80 comuni. Un elenco completo sarebbe quindi davvero troppo lungo, cosicché ci si limiterà a riportare alcuni dei casi più significativi.
Come data d’inizio simbolica di questo lungo ciclo di terrorismo contro gli italiani si può menzionare l’eccidio di Trieste nel 1868. Nella città tergestina, tra il 10 e il 12 luglio di quell’anno, vi furono pacifiche manifestazioni a favore della libertà d'insegnamento successive a una petizione firmata da 5.858 cittadini e presentata al consiglio cittadino, in cui si richiedeva il diritto di usare la lingua italiana nelle scuole statali. A queste richieste, condotte in piena legalità, i nazionalisti sloveni e le autorità imperiali fra loro alleati risposero con la violenza.
Il 12 luglio, si celebrava la festa dei SS. Ermacora e Fortunato, con gran afflusso di folla a Rojano, che in quell'epoca era un villaggio abitato da sloveni e nel quale si era deciso di festeggiare l’anniversario della fondazione del reparto militare locale, appunto la guardia territoriale, detestata dai triestini che soprannominava spregiativamente bàcoli ossia “scarafaggi” i suoi membri. Durante i festeggiamenti, svoltisi alla presenza degli ufficiali della milizia e dei miliziani, erano giunti anche altri sloveni di paesi dell’entroterra quali S. Giovanni e Longera. Esaltati dai discorsi nazionalistici, avevano deciso di scendere a Trieste.
Partì così il giorno seguente una minacciosa parata in armi attraverso via del Torrente (ora Carducci) e l'Acquedotto, con gli ufficiali della milizia, in divisa, tra i partecipanti. Marciavano in coda altri militi della territoriale, in uniforme, quasi a fare da scorta. In testa era stata posta quella che gli sloveni ed i croati consideravano la bandiera nazionale degli slavi (il tricolore bianco, rosso, blu), il cui impiego nell’impero asburgico era consentito mentre veniva rigorosamente proibito quello del tricolore nazionale italiano.
A Trieste si era frattanto diffusa fra la popolazione la paura per l’aggressione imminente, la cui notizia era pervenuta. Correvano voci per la città che gli sloveni sarebbero venuti per attaccare gli italiani ed in particolare fra questi gli ebrei, molto odiati nel contado.
L’aggressione era però appoggiata dalle autorità imperiali, nelle persone del luogotenente del Litorale, Eduard Freiherr von Bach, e del comandante della polizia di Trieste, G. Krauss. Non solo nessun tentativo venne fatto per fermare la massa dei miliziani territoriali sloveni, ma essa fu rafforzata da reparti delle guardie di Trieste. Le autorità imperiali sapevano benissimo che la grande maggioranza della cittadinanza triestina era d’idee nazionali italiane, a differenza degli sloveni che erano invece sostenitori dell’impero che li appoggiava e favoriva, pertanto avevano deciso di sfruttare la circostanza per “impartire una lezione” agli italiani.
Nella notte del 13 luglio si trovavano alcune centinaia di italiani nella zona centrale dei Portici di Chiozza: contro di loro fu predisposto un piano operativo preciso per massacrarli.
L’intento era di assalire gli italiani nella zona dei Portici, ributtandoli verso la stazione, per poi aggrFrancesco Giuseppe Imperatore d'Austriaedirli con reparti provenienti dalle caserme da un lato e, dall'altro, da reparti spostati nella notte dal posto di guardia alle spalle dei Portici. Reparti militari minori avrebbero bloccato altre tre vie d’accesso, che allora si chiamavano corsia Stadion, via dell'Acquedotto e via San Francesco. Sarebbe stata libera così una sola via di fuga in direzione di piazza San Giovanni. Furono concentrati inoltre gruppi di violenti nella zona della vecchia Dogana in modo da provocarvi delle risse.
Dopo questa accurata preparazione, fu infine dato il segnale d’attacco mediante uno sparo. I miliziani sloveni ed i poliziotti aggredirono gli italiani, pacificamente riuniti, senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione. L’assalto militare fu compiuto con le sciabole snudate e con i fucili a baionetta inastata.
Comandava il reparto un ufficiale che aveva svolto operazioni di repressione contro i patrioti nel Veneto prima del 1866, il quale guidò l’assalto gridando: «Dagli, dagli giù a questi cani! Ammazzateli: rispondo io!».
Il pogrom contro gli italiani provocò la morte di tre persone. Vennero uccisi sul posto il barone Rodolfo Parisi ed il cadetto sottufficiale Francesco Sussa. Il barone Parisi fu trafitto con 21 colpi di armi bianche e finito con un acuminato stocco in dotazione alle guardie imperiali. Il sottufficiale Sussa si trovava in borghese ed in licenza e fu ucciso da un colpo di fucile alle spalle mentre fuggiva.
Successivamente anche Emilio Bernardini, giovane di 23 anni e figlio di un noto commerciante triestino, morì per i postumi di un violento pestaggio subito in quella circostanza, quando fu duramente percosso con colpi di calcio di fucile al torace. Ciò gli aveva provocato una emotisi, che lo aveva ridotto ad una lunga agonia durata per 54 giorni prima della morte.
Inoltre furono feriti gravemente 21 (ventuno) altri uomini, il conte Ignazio Puppi, Giobatta Lucchini, Giovanni Krammer, Pietro Bellafronte, Antonio Rustia. Emilio Rupnik, Edoardo Offacio, Giulio Cazzatura, Giacomo Katteri, Giuseppe Santinelli, Pietro Mosettig. Giovanni Stancich, Giuseppe Benporath della comunità ebraica cittadina, Teodoro Damillo. Nicolo Modretzky, Giovanni Schmutz, Edgardo Rascovich, Angelo Crosato, Luigi Grusovin, Ernesto Ehrenfreund, persino il cittadino svizzero Gaspare Hans. I feriti “leggeri” furono invece circa 200.
Il massacro provocò comprensibilmente sgomento nella popolazione italiana. Fu indetta una giunta speciale della Dieta triestina ed il solo funerale del barone Parisi, svoltosi nella cattedrale di San Giusto, raccolse 20 mila persone.
Bersagli privilegiati delle violenze erano gli istituti culturali degli italiani: le scuole, le biblioteche, i giornali, i teatri ecc. Si intendeva in questo modo impedire la conservazione della cultura nazionale.
Per dare un esempio, basti dire che in un solo anno (il 1898) furono assaliti da nazionalisti sloveni o croati e gravemente danneggiati gli istituti scolastici di Santa Croce, di Borgo Erizzo (a Zara), Sebenico, Duino. Vi fu però uno stillicidio di casi simili. Una banda di slavi in preda all’alcool assalì di sera un istituto scolastico italiano a santa Lucia, nelle vicinanze della città istriana di Pirano. Il maestro ivi presente si limitò ad invitarli ad andarsene, dicendogli: «Andè via, lassène, qua semo a casa nostra».
Egli finì per questo arrestato e processato con l’accusa di istigare tumulti.. Nel volgere di pochi mesi, il 6 aprile, il 15 aprile ed il 30 ottobre del 1909 le scuole della Lega Nazionale italiana furono aggredite a sassate. Il 13 marzo del 1913 a Trieste un gruppo di membri della società universitaria slovena “Balcan” condusse una sorta di spedizione paramilitare contro la scuola superiore di commercio “Pasquale Revoltella”, durante la quale uno studente italiano fu ferito con un colpo di pistola.
Teatro 'Verdi' di Zara
Il 13 febbraio 1870 vi fu il tentativo di incendiare il grande e fastoso “Teatro Verdi” di Zara, che era uno dei centri culturali degli italiani della Dalmazia. Nel 1880 il giornalista italiano Arturo Colautti fu aggredito a colpi di sciabola da un gruppo di sette ufficiali e sottufficiali croati, dovendo trascorrere mesi a letto per le ferite riportate. Nel 1882 una folla di estremisti cercò di dare fuoco a Trieste alla casa di G. Caprin, il direttore del giornale L’indipendente. Il teatro di Spalato, finanziato con mezzi propri dal podestà italiano della città, Antonio Bajamonti, fu distrutto da un incendio doloso nella notte del 14 maggio del 1887. A Traù il giorno di san Silvestro del 1908 fu festeggiato da estremisti croati con una sassaiola contro il circolo di lettura italiano, dopo che il podestà locale aveva aizzato la popolazione slava contro quella italiana. Meno di due mesi più tardi, a febbraio del 1909, l’insegna del circolo fu imbrattata con escrementi. Il 15 agosto del 1909, sempre a Spalato, i membri del Sokol locale cercarono di assalire un circolo culturale italiano. A Cittavecchia, in Dalmazia, la sede dell’associazione culturale italiana “Unione” fu fatto oggetto di un fitto lancio di pietre, bottiglie ed altri oggetti nel 1908 e poi nel 1909, sempre da affiliati al Sokol.
L’azione violenta si esercitò anche contro le opere d’arte. Il sacerdote sloveno don Urban Golmajer nella località di Rozzo distrusse tutte le lapidi romane rinvenute negli scavi (l’ostilità verso Roma antica era, naturalmente, parte dell’italofobia dei nazionalismi sloveno e croato), suscitando l’indignazione del grande storico tedesco Theodor Mommsen. Questo medesimo Golmajer venne poi candidato alla Dieta locale per conto dei nazionalisti sloveni.
Le elezioni amministrative o parlamentari si tenevano sovente in un clima di violenza. Ad esempio, l'8 marzo 1870, i croati radunati nella piazza della Signoria a Zara assaltarono con randelli, mazze e mannaie gli italiani che si recavano a votare. Nel 1880 avvenne un tumulto a Spalato in cui circa duecento militari di etnia croata aggredirono gli italiani. Cogliendo a pretesto l’accaduto, il consiglio municipale di Spalato, il cui podestà Antonio Bajamonti era italiano, venne sciolto e il comune commissariato. Le nuove elezioni municipali, svoltesi nel 1882, si svolsero con pesanti brogli elettorali e in un’atmosfera pesantemente intimidatoria nei confronti degli italiani, con tanto di navi da guerra collocate nel porto a minacciare la città. Nel 1897 al momento delle elezioni in Istria la città di Parenzo fu circondata da bande di croati armati, che spararono colpi di fucile contro le abitazioni cittadine, bruciarono case sparse per la campagna e devastarono i campi degli italiani, prima di disperdersi. Nel gennaio del 1899, alla vigilia delle elezioni, una squadra di slavi irruppe nelle cantine del podestà italiano di Apriano, Giovanni Andreicich, devastandole e provocando un pesante danno di migliaia di corone.
L’attività degli estremisti non arretrava neppure dinanzi ai luoghi consacrati. Il cimitero italiano di Lissa fu profanato, una corona mortuaria apposta sulla tomba di Antonio Bajamonti fu deturpata, un’altra corona mortuaria dedicata ad un patriota fu presa a sputi, venne inscenata una gazzarra nel duomo di Spalato nel marzo del 1914 per impedire una predica in italiano...
Non mancarono episodi di aggressioni dirette contro funzionari ed ufficiali del regno d’Italia. Un esempio di questo avvenne a Sebenico, in Dalmazia, il 31 luglio del 1869. Il giorno precedente una piccola unità della marina militare italiana, la corvetta Monzambano, era approdata nel corso di una attività di rilevazioni nell’Adriatico che era svolta di concerto dallo stato italiano e da quello imperiale. L’ultimo giorno di luglio un gruppo di marinai italiani scese dalla nave, senza armi, e si recò tranquillamente in un’osteria. Riconosciuti come italiani, furono aggrediti da una folla di slavi che tentò di lapidarli con una pioggia di sassi e li picchiò con bastoni. Un marinaio fu ferito con diversi colpi d’ascia, un civile di Chioggia raggiunto da una fucilata. I reparti della guardia territoriale, costituiti da slavi, anziché fermare gli aggressori si posero dalla loro parte. Con molta fatica e fortuna i marinai riuscirono a rientrare sulla loro nave, ma furono otto i feriti, di cui due gravi.
In un’altra occasione un diplomatico italiano, il viceconsole Ugo Tedeschi, fu malmenato in Dalmazia da un poliziotto d’etnia croata.
Fu coinvolta la stessa sede consolare italiana di Trieste. Il luogotenente asburgico del Litorale (unità amministrativa che comprendeva la Venezia Giulia), ovvero il suo governatore, il principe Konrad Hohenlohe (1863-1918), il 21 agosto 1913 aveva emanato i decreti “contro le ingerenze straniere”, i quali imponevano il licenziamento di tutti gli italiani cosiddetti “regnicoli” che lavorassero per il comune di Trieste. Il 1 settembre dello stesso anno i nazionalisti slavi ed i partigiani del luogotenente fecero assieme un comizio contro l’Italia, per poi tenere una manifestazione al grido di “Viva Hohenlohe! Abbasso l’Italia! Gli italiani al mare!”, tentando poi di assalire lo stesso consolato italiano.
Le aggressioni, spesso, non erano improvvisate e perpetrate da singoli, bensì preordinate e compiute da gruppi organizzati che agivano di concerto. Fu ciò che avvenne nel 1898 a Trieste, nei giorni dall’11 al 14 settembre. Era morta la consorte di Francesco Giuseppe, l’imperatrice Elisabetta di Baviera, ma la città si manteneva abbastanza indifferente all’accaduto e la vita sociale continuava senza particolari segni di cordoglio. Per “punire” Trieste, i membri di una società detta “Austria” in accordo con la polizia decisero di provocare dei tumulti, sobillando i nazionalisti sloveni ed il sottoproletariato urbano. Il risultato furono saccheggi di proprietà italiane ed assalti a sede di associazioni liberal-nazionali.
Sovente le squadre che assalivano gli italiani erano costituite da associati al Sokol (Falco). Si trattava di una rete di associazioni teoricamente ginniche, ma di fatto politiche e nazionalistiche, attive presso gli slavi. La prima associazione del Sokol sorse a Praga nel 1862 e ben presto ne nacquero di analoghe in altri regioni abitate da slavi, inclusi gli sloveni ed i croati. I suoi membri furono talora coinvolti in azioni teppistiche in Venezia Giulia ed in Dalmazia contro gli italiani. Un caso siffatto avvenne nel settembre del 1906, quando si era tenuto un congresso dei Sokol a Zagabria.
In quell’occasione erano transitati per Fiume alcune centinaia di membri di questa associazione per Fiume e la vicina Sussak, che furono invase da torme di croati, che inalberavano loro bandiere e gridavano “Questa è Croazia”. La polizia, anche in questo caso, si dimostrò debole se non connivente nei confronti degli slavi, da cui essa era per lo più composta. Si ebbero devastazioni e vandalismi delle proprietà italiane, come i caffè Europa ed Il Centrale, ed aggressioni agli italiani. Fu assalita anche l’abitazione del podestà di Fiume, Francesco Vio.
Le devastazioni ed i saccheggi coinvolsero nella circostanza anche italiani cittadini del regno d’Italia, oltre che italiani sudditi dell’impero, per cui lo stato italiano in questo caso poté discretamente e diplomaticamente protestare nei confronti dell’“alleato” austriaco, sollecitando quel che nella nota diplomatica era definita una «espressione di rammarico» da parte del governo imperiale, la punizione dei colpevoli delle violenze ed il risarcimento dei danni. Pur avendo dovuto insistere, l’ambasciatore italiano a Vienna infine ottenne dal governo imperiale una sua espressione di “rincrescimento” per l’accaduto e l’assicurazione della punizione dei colpevoli. Ciò fu possibile solo per la presenza fra le vittime di “regnicoli” ossia cittadini dello stato italiano. Era diverso il destino degli italiani ancora sudditi dell’imperatore d’Austria.
Il 23 maggio del 1915, il giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia, Trieste fu nuovamente colpita da un tumulto diretto contro gli italiani. Un’orda proveniente per lo più dai quartieri di Barriera, san Giacomo e Cittavecchia assalì, devastò ed incendiò locali pubblici frequentati dagli italiani come i caffè San Marco, Edison, Chiozza, Fabris e Stella polare, le sedi della Lega Nazionale e della Ginnastica Triestina e quella del maggiore giornale triestino Il Piccolo. Ancora, il monumento a Giuseppe Verdi fu preso a martellate, negozi di proprietà italiana furono saccheggiati, italiani aggrediti e picchiati. Si ebbe anche un morto nella sede della Ginnastica triestina.
Anche se la folla di facinorosi era eterogenea per composizione sociale ed etnica, il suo nocciolo era costituito da squadre paramilitari organizzate dai comandi militari, che poterono agirono indisturbate perché la polizia non intervenne. Ad esempio, l’assalto ad Il Piccolo, il maggiore quotidiano di Trieste ritenuto “colpevole” d’essere italiano e di esprimere idee che erano quelle della maggioranza dei cittadini ossia nazionali e liberali, fu ben concertato e preparato. Gli aggressori circa un centinaio di persone, fecero irruzione e scacciarono i giornalisti ed i tipografi, quindi collocarono bombe incendiarie (che non potevano che essere state preparate in precedenza) e diedero fuoco all’edificio. Quando accorsero i pompieri furono respinti dai violenti, mentre la polizia in pratica restava a guardare. Le squadre di vandali ed incendiari provenivano dalla cosiddetta “Lega patriottica giovanile”, che era un’associazione favorevole alla dinastia asburgica comprendente elementi accesamente italofobi. Le autorità coinvolte cercarono anche di nascondere la propria corresponsabilità, distruggendo i documenti più compromettenti prima che la guerra finisse e producendo relazioni mistificatrici sul tumulto.
Gli atti di violenza più gravi contro gli italiani, come gli omicidi, ricevevano talora condanne sproporzionatamente lievi. Una guardia comunale uccise a Spalato un pescatore di Chioggia con una pistola, ma si vide riconoscere l’infermità mentale evitando così il carcere. Un austriaco assassinò a Frangart, nei pressi Castel Firmiano (Sigmundskron) un giovane diciassettenne di Mori, di nazionalità italiana. L’omicida fu condannato a soli 15 mesi di detenzione, poiché gli fu riconosciuta l’attenuante d’aver ucciso per l’odio e l’ira che gli sarebbero stati provocati dalla presenza dell’italiano. Per fare un confronto, l’odio razziale od etnico quale causa d’un omicidio sarebbe ritenuto attualmente, dalla legislazione italiana e da moltissime altre nel mondo, quale una aggravante.
Al contrario, per la magistratura imperiale ciò fu una attenuante. Questo assassino, dopo la condanna a 15 mesi, ne scontò soltanto 5, prima d’essere rimesso in libertà. Uno sloveno assassinò uno “strillone” originario di Bari, un ragazzo che vendeva giornali per strada, nel quartiere san Giacomo di Trieste ed unicamente perché era italiano.
L’omicidio avvenne trafiggendogli il cuore con un coltello. Il tribunale condannò il colpevoli dell’assassinio a soli quattro mesi di carcere. Il 5 gennaio del 1912 a Milnà, cittadina della Dalmazia, un gruppo di croati membri del Sokol assalì con coltelli e bastoni Girolamo Trebotich, che morì con la gola squarciata. L’assassino, tale Babarovic, fu assolto in tribunale a Spalato benché reo confesso e dinanzi ad un pubblico festante.
Può dare un’idea del clima in cui gli italiani erano ridotti a vivere in Venezia Giulia ed in Dalmazia ricordare che un sacerdote giuliano politicamente filo-imperiale ed ostile all’irredentismo, don Bernardo Malusà, fu accusato di essere un agitatore unicamente perché aveva difeso una donna connazionale che era stata aggredita da un gruppo di violenti.
È possibile ora trarre alcune conclusioni da questo elenco, senz’altro incompleto, degli atti di violenza politica contro gli italiani in Venezia Giulia e Dalmazia nel periodo 1866-1915, ossia fra la fine della guerra italo-austriaca del 1866 e l’inizio del conflitto finale del 1915.
Le aggressioni contro gli italiani furono decisamente numerose, compresero anche molti assassini ed ancora più ferimenti, incendi e danneggiamenti di proprietà, specie di istituti e sedi culturali. Esse furono compiute frequentemente da reparti paramilitari, armati ed organizzati, o persino con la connivenza o la diretta partecipazione della polizia o della guardia territoriale. I colpevoli spesso non furono puniti o vennero condannati a pene irrisorie dai tribunali. La sorveglianza poliziesca, occhiuta e severissima nei confronti degli italiani, ai quali bastava indossava abiti con i colori verde, bianco e rosso per incorrere nelle “attenzioni” dei poliziotti, si rivelò assente o debole nei confronti di estremisti slavi. Si può pertanto ipotizzare che alte personalità e gruppi di potere della Duplice Monarchia abbiano adottato nei confronti della popolazione italiana il “metodo galiziano” (già teorizzato e minacciato da Radetzky e Gyulai, favorito dalla decisione dell’imperatore nel 1866 di slavizzare a forza gli italiani), stringendo un’alleanza politica con i nazionalisti sloveni e croati e tollerando di fatto il loro operato.
Il generale Gavrilo Rodich fu nominato luogotenente generale (Statthalter) della Dalmazia nel 1870 e rimase in carica sino al 1881. In questi anni la regione dalmatica fu travagliata da duri contrasti nazionali fra italiani e croati, con il governatore che parteggiò apertamente per i suoi connazionali slavi e promosse la croatizzazione della Dalmazia. Il politico italiano Antonio Bajamonti tenne il 9 dicembre del 1876 nel parlamento austriaco una serrata denuncia dell’azione dello Statthalter, accusandolo di violare la costituzione e di aver trasformato la Dalmazia in una regione in cui regnava l’illegalità, a discapito degli italiani. L’obiettivo di Rodich, dichiarava Bajamonti, era «snaturare la Dalmazia – la quale naturalmente ritrae un carattere misto dalle due stirpi che la abitano – per darle un carattere prettamente slavo». Il professor Luciano Monzali nel suo saggio Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, (Firenze 2011, p. 82) ha osservato in proposito che il tentativo di Bajamonti era destinato ad essere controproducente, poiché il governatore «godeva del totale sostegno di Francesco Giuseppe: attaccare Rodich […] significava, quindi, contestare la politica governativa e lo stesso imperatore».
Gli archivi del ministero degli Esteri italiano riferiscono di casi di violenze, che in questi carteggi concernono abitualmente cittadini del regno d’Italia che vivevano in Dalmazia: Documenti diplomatici italiani, Roma (Libreria dello stato-Istituto poligrafico dello stato) 1953; Documenti diplomatici italiani, a cura del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Segreteria generale. Unità di analisi, programmazione e documentazione storico-diplomatica. Sezione Pubblicazione Documenti Diplomatici, Roma 2014.
Un’ampia collezione di atti di violenza siffatti o di ricostruzione del contesto politico in cui avvennero si ritrova in numerose opere di inchiesta giornalistica o divulgazione storica, di cui qui si possono indicare le principali: Virginio Gayda, L'Italia d'oltre confine. Le provincie italiane d'Austria, Torino 1914; Idem, L’Austria di Francesco Giuseppe, Milano-Roma 1915; Luigi Barzini, Gli Italiani della Venezia Giulia, Milano 1915; Attilio Tamaro, Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma 1915; Idem, Italiani e Slavi nell'Adriatico, Roma 1915; A. Dudan, La monarchia degli asburgo. Origini, grandezza e decadenza, Roma 1915; Luigi Federzoni, La Dalmazia che aspetta, Bologna 1915; R. Deranez, Alcuni particolari sul martirio della Dalmazia, Ancona 1919; P. Foscari, La Dalmazia e l'ultimo dei suoi martiri, Roma 1922. Nonostante lo stile retorico ed una certa faziosità si tratta di lavori che riportano materiale in abbondanza e con minuzia di dettagli.
Notizie utili si possono reperire anche in testi di cronaca o di storiografia letteraria, come: Niccolò Tommaseo, Il Monzambano e Sebenico. Italia e Dalmazia, Firenze 1869; Antonio Bajamonti, Discorso pronunziato alla Camera dei deputati dall on. Bajamonti nella seduta del 9 dicembre 1876, Spalato 1877; Attilio Tamaro, Storia di Trieste, vol II, Roma 1924; Girolamo Praga, Storia della Dalmazia, Padova 1954; B. Benussi, L'Istria nei suoi due millenni di storia, Venezia-Rovigno 1997.
In particolare, sulle “stragi di Galizia” e Radetzky: C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo, 1790-1918, Milano 1976., pp. 356-359; Alan Sked, The Survival of the Habsburg Empire. Radetkzy, the Imperial Army and the Class War 1848, London-New York 1979; Marco Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987, p. 327. C. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, Firenze 1949, cap. III, «Il generalissimo Radetzki, attorniato da uno stato maggiore di teutomani, agognava al momento di far sangue e roba, millantandosi di voler rifare in Italia le stragi di Galizia. Come dubitarne, quando si vedeva comparire nello stesso tempo in Brescia con autorità militare il carnefice Benedek, e con autorità civile il fratello del carnefice Breindl?» Sui fatti dell’istituto Revoltella: cfr. A. M. Vinci, Storia dell’università di Trieste: mito, progetti,realta, Trieste 1997, pp. 88-145.
Saggi storiografici importanti, specialmente per l’inquadramento dei contrasti nazionali, sono; Ernesto Sestan Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Udine 1997; Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia, Firenze 2011; Almerigo Apollonio, Libertà, Autonomia, Nazionalità - Trieste, l'Istria e il Goriziano nell'Impero di Francesco Giuseppe 1848-70, Trieste 2007; Idem, La “Belle époque” e il tramonto dell’Impero sulle rive dell’Adriatico (1902-1918). Dagli atti conservati nell’Archivio di Stato di Trieste (“Fonti e Studi per la Storia della Venezia Giulia”, vol. XXIII, 2 voll., pp. 990, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, Trieste 2014). L’opera, in due tomi, è ripartita in “Gli anni prebellici (1902- 1914)” e “La Grande Guerra (1914-1918)”.
È ricchissima la bibliografia riportata in Mario Dassovich, L'impero e il Golfo: da Lissa a Sarajevo (1867-1914): una ricerca bibliografica sulla politica degli Asburgo nelle province meridionali dell'Impero, Udine 2005.
Testimonianze contemporanee agli eventi sono riportate anche nei giornali dell’epoca, come “Il Dalmata”, “Il Piccolo”, “La Stampa”.
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