Il 9 ottobre 1802 nasceva a Sebenico, in Dalmazia. Figlio del commerciante Girolamo e di Caterina Chevessich, Niccolò studiò dapprima con uno zio frate e frequentò poi il seminario, prima a #Spalato e poi a #Padova, per iscriversi alla facoltà di legge, non senza aver approfondito gli studi classici, dedicandosi con profitto e passione alla loro traduzione.
Gli incontri determinanti con Antonio Rosmini (del quale sarà anche ospite a Rovereto) e con Antonio Marinovich lo indirizzarono agli studi classici e filosofici, tanto che, una volta laureato in giurisprudenza, decise di non esercitare la professione per vivere di attività pubblicistica e letteraria. Dopo aver collaborato al "Giornale sulle scienze e lettere delle province venete", pubblicò varie edizioni di testi per l’editore Antonio Fortunato Stella, che raggiunse a Milano, dove incontrò anche Alessandro Manzoni.
Affinati gli studi di lingua e letteratura italiana formandosi un’idea della funzione morale cristianamente intesa della poesia, fu fra i collaboratori della "Antologia" di Giovan Pietro Vieusseux e si trasferì a Firenze, dove entrò a pieno titolo negli ambienti cattolico-liberali e strinse amicizia con Gino Capponi e Raffaello Lambruschini.
Celebri invece i contrasti con Giacomo Leopardi per l’inconciliabilità di due opposte visioni della poetica e del mondo in generale. I sentimenti antiaustriaci che animavano i suoi scritti sulla "Antologia" allertarono la censura, che in breve chiuse la rivista, e lo costrinsero nel 1834 a riparare in Francia, dove si legò ad Alessandro Poerio, esule anch’egli, ed entrò in contatto con Félicité-Robert de Lamennais.
Durante l’esilio parigino pubblicò scritti pedagogici, politici e filosofici, accanto a testi poetici, tutti permeati da un forte senso religioso. Dopo un periodo a Nantes come direttore di un istituto di studi pratici e un soggiorno in Corsica, amnistiato, nel 1839 ritornò in Dalmazia, lasciandola quasi subito per Venezia, dove avrebbe trascorso i successivi dieci anni.
Oltre a vari scritti filosofici, linguistici e d’occasione, la tipografia del Gondoliere gli pubblicò le prime due edizioni del romanzo "Fede e bellezza". Senza mai rinunciare a lavori politici e di storia civile o pedagogici di ammaestramento morale, considerando superiore a quella colta l’autentica forza espressiva della lingua e della poesia popolare, stampò quattro volumi di canti popolari e un volume di poesie in lingua serba e croata. Confidando nel nuovo papa Pio IX e nella sua capacità di rinnovamento etico della Chiesa, lo spronò per iscritto ad abbandonare le smanie temporali per una dimensione religiosa tutta spirituale, e venne gratificato di un’udienza personale.
Essendosi pubblicamente espresso contro la censura, fu incarcerato nel 1848 e liberato durante l’insurrezione del 17 marzo, che diede origine alla Repubblica di San Marco, di cui sarebbe stato ministro della Pubblica Istruzione e ambasciatore in Francia.
Caduta la repubblica, nel 1849 riparò a Corfù, dove mise su famiglia. Trasferitosi a Torino nel 1854, ottenne una cattedra in un istituto di commercio e scrisse una biografia di Antonio Rosmini, con cui non aveva mai perso i contatti.
Nel 1859 si stabilì a Firenze, dove in collaborazione con Bernardo Bellini lavorò al celebre "Dizionario della lingua italiana, pubblicato dalla UTET a partire dal 1861, che non sarebbe tuttavia riuscito a vedere compiuto.
Nonostante gravi problemi alla vista e una situazione economica non florida, continuò fino all’ultimo a lavorare senza posa, spaziando dalle memorie autobiografiche agli studi danteschi, dagli scritti politici alle traduzioni dei vangeli, dai consigli di bello stile agli ammaestramenti di costume, dalla storia civile alla produzione poetica, oltre a divenire membro della Società promotrice degli studi filosofici e letterari di Terenzio Mamiani e Domenico Berti. Contro le teorie evoluzioniste di Alessandro Herzen pubblicò dieci lettere su L’uomo e la scimmia, pubblicato a Milano dalla libreria editrice di Giacomo Agnelli, con un discorso sugli urli bestiali datici per origine delle lingue.
Niccolò Tommaseo morì a Firenze nel 1874.
Pubblico una parte della lettera che Niccolò Tommaseo inviò a Cesare Cantù nel 1837 in merito all'italianità della Dalmazia:
"Io sono italiano perché nato da sudditi veneti, perché la mia prima lingua fu l'italiana, perché il padre di mia nonna è venuto in Dalmazia dalle valli di Bergamo. La Dalmazia, virtualmente, è più italiana di Bergamo, ed io, in fondo, son più italiano dell'Italia. Rome n'est plus dans Rome. La Dalmazia, ripeto, è terra italiana per lo meno quanto il Tirolo, certo più di Trieste, e più di Torino. La lingua ch'io parlai bambino è povera, ma francesismi non ha: ed è meno bisbetica de' più tra i dialetti d'Italia. Ma tutto codesto non prova nulla. Dante dice che il Quarnaro Italia chiude... Dante m'esilia me, il disgraziato. Iddio gli perdoni: e' non sapeva quello che si facesse".
Nel 1861, scrive in una delle sue lettere pubbliche ai Dalmati, nelle quali negava per fierezza di spirito regionale, fattosi più ombroso nella sua avversione alla politica unitaria del Cavour, poter "la Dalmazia farsi oramai coda all'Italia", ma anche ne oppugnava fortemente l'annessione alla Croazia:
"Dopo ciò, mi sarà lecito, io spero, soggiungere ch'io amo l'Italia, e chiedere licenza ai Croati d'amarla. L'amo perché i miei maggiori, che pure sentivano la carità della terra natale, la amarono; l'amo perché il padre mio ebbe madre una donna d'origine italiana; l'amo perché Italiani e Dalmati da più secoli sono uniti per gioie e dolori non ingloriosi, partecipati fraternamente, e, meglio che i matrimoni, congiunsero i sangui loro le ben combattute battaglie, e, più che il sangue infuso ne' figli, gli ha apparentati il sangue versato nel nome della patria e di Cristo. Amo gl'Italiani, perché dalle due lingue loro ebbi luce all'ingegno, e ineffabili consolazioni dell'anima; perché le due lingue loro furono e devono essere, e voglio credere che sempre saranno ai Dalmati care, e gli aiuteranno a più potentemente scrivere e più sapientemente stimare la propria; gli amo perché gli è uno de' più illustri e civili popoli della terra, e lo sconoscerne i pregi mi parrebbe barbarie; gli amo perché sono stati e sono e saranno assai tempo ancora infelici; gli amo, perché ho, se non fatto, qualcosa patito per essi".
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