domenica 22 ottobre 2023

LUIGI FEDERZONI — L’ORA DELLA DALMAZIA. BOLOGNA 1941-XIX

"Traù.

Figuratevi una vecchia dama decaduta, la quale ritenga ancora talune linee della tramontata bellezza, e nelle vesti di seta a sbrendoli mostri il ricordo del fasto d’un tempo ma sopra tutto l’impossibilità di farsi altri abiti anche più dimessi, e si sia ormai avvilita nell’umiltà di faccende servili, e fatta insensibile alla sua stessa miseria: tale vi si presenta Traù, cittadina ch’ebbe una storia insigne e un patriziato ricco e operoso, e che ospitò regalmente re Bela IV d’Ungheria, e che da artisti eccellenti fu ornata di monumenti mirabili.

Ella pigia i suoi palazzi diroccati e le sue chiese cadenti in una minuscola isola, entro un breve cerchio di mura turrite. A chi vi giunga dal mare — due ponti la uniscono alla terraferma e alla maggiore isola di Bua — pare una di quelle imagini di città stilizzate e convenzionali, simili a dolci ingegnosamente architettati, che gli antichi pittori ponevano su un piatto e davano da reggere ai santi patroni. 

Ma scendete alla banchina, addentratevi nel labirinto delle viuzze tortuose, anguste, incorniciate di volte buie: da per tutto, silenzio e desolazione. Qualcuno vive qui? È l’ora del desinare, e le scarse botteghe sono chiuse, ma qualche viso torpido si affaccia dalle finestre al passaggio dei forestieri.... Ah, finalmente, una tabaccheria aperta: entrate, con la scusa di comprare un sigaro, per fare il solito esperimento politico di domandare in italiano per sentirvi rispondere, apposta, in slavo. Perdinci, chi l’avrebbe supposto? Vi si risponde cortesemente, in italiano, e di più con un inconfondibile accento pugliese che, dati il luogo e il momento, vi suona all’orecchio soave come una melodia. Il tabaccaio è un molfettano, ma buon patriota, non rinnegato come i Pugliesi di Ragusa e di Curzola; ed è appunto l’unico esercente di Traù così laborioso da non chiudere bottega a quest’ora. Egli racconta che gli immigrati dal Regno sono assai numerosi, qui e nei dintorni, scalpellini e muratori la maggior parte, meridionali e lombardi, e vivono in buona armonia con gli Italiani della città. Taluni anche qua si slavizzano, ma meno frequentemente che altrove. 

Conflitti con gli Slavi scoppiano spesso, violenti se non micidiali. 

È recente il caso d’un giovane operaio italiano, un tal Bulgheroni, preso a sassate e ferito piuttosto gravemente perchéfischiettava la marcia dei bersaglieri.

Del resto Traù par fatta apposta, con la sua tipica struttura di città medievale, per questa continuità di lotte faziose; tutta angiporti, e archi oscuri, e rivellini, e postierle, e rientrature, quasi disposte ad arte per agguati e scalate. Ma ogni cantuccio nasconde almeno una briciola della magnificenza che fu: dove una deliziosa biforetta, dove uno stipite decorato di fregi lievi e perfetti, dove una balaustrata solenne, e un poggiuolo incantevolmente veneziano, e una véra di cisterna che sembra tolta all’ombra d’un campiello; e su ciascuna cosa la muffa dei secoli e le tracce della devastazione.

Gli Slavi spadroneggiano a Traù; gli Slavi e gli Italiani rinnegati, che si chiamano Madirazza, Guidotti, Moretti, Gindro, Sentinella, Rubignoni, Paladino.... Non si può pensare senza amarezza che questa ignota e squallida San Gimignano adriatica, ora data in preda alla violenza oltraggiosa dei barbari, fu per lunghissimo ordine di tempi centro di una splendida tradizione umanistica. Qui il civico statuto del 1316 proibiva l’uso di altra lingua, nei pubblici uffici, che non fosse l’italiana; qui Giovanni Lucio scriveva nel suo adorno latino la storia della Dalmazia; qui Marino Statileo rinvenne nella biblioteca di Palazzo Gippico il testo della « Cena di Trimalcione »; qui nacque l’ultimo dottissimo commentatore di Dante, Antonio Lubin. Ora l’italianità, già così fulgente regina anche a Traù, vi si è appartata come intimidita dalla tracotanza dei nuovi dominatori. Le superstiti famiglie patrizie, ancora fieramente italiane, non possedendo ormai più che i loro grandi nomi e i loro vetusti palagi, si sono ritratte e chiuse nell’ombra dei vasti saloni fatiscenti, entro i recinti muti dei vecchi giardini abbandonati. 

La cittadetta è gentilmente pittoresca, ma — grazie all’amministrazione slava — un po’ troppo sudicia. Eccezione, la piazza del Duomo. Questa somiglia al salotto di certe case della piccola borghesia: è il solo ambiente pulito e ben tenuto, perché nessuno vi abita. Celebre, il Duomo di Traù, e bellissimo, il più celebre e il più bello della Dalmazia, di puro stile romanico italiano, col suo portale vagamente istoriato di fantastici rilievi, col prodigioso mausoleo di San Giovanni degli Orsini, scolpito da Andrea Alessi e da Alessandro Vittoria, con l’altissimo campanile così veneziano anch’esso, per la sua forma cuspidata e i suoi preziosi trafori, con la loggia maestosa su la quale il rosone stellante brilla come una gemma in un castone massiccio.  

Un’altra loggia veneta, che accoglie sotto le sue arcate aeree l’antico banco dei magistrati, chiude la piazza, insieme col lombardesco palazzo del Comune, rimesso a nuovo da un recente e non felice restauro. Ma l’orgoglio degli Slavi spadroneggianti in Traù non è in questi monumenti d’un passato che non appartiene loro. Essi prediligono e ammirano un grosso edificio appena compiuto, unica stonatura moderna e modernistica fra tanto scenografico medioevo: il palazzo delle scuole. Veramente sarebbe piaciuto di più, agli Slavi spadroneggianti in Traù, come era stato costruito dapprima, in pretto stile «Secession» viennese, chè avrebbe conferito un’impronta un tantino più austriaca a questa città la quale si ostina a conservare un aspetto italiano non ostante la nazionalità e i sentimenti di una parte dei suoi abitatori.  

Senonchè capitò a Traù, l’anno scorso, l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando; e naturalmente fu condotto a visitare il palazzo di cui si stava terminando la costruzione. Non so se Sua Altezza Imperiai Regia sia uomo di buon gusto: certo, in quell’occasione, ne dimostrò più dei suoi fedeli sudditi traurini, perché senza tanti complimenti impose al Comune di demolire almeno la parte superiore dell’edificio e di rifarla innestandovi motivi architettonici veneziani. L’ordine fu a malincuore eseguito, e il palazzo è riuscito più brutto che mai, perché le sue linee non discordano più soltanto da quelle degli edifìci vicini, ma anche fra di loro, indescrivibilmente. Auguro ai Traurini che l’arciduca non ritorni tanto presto da queste parti: altrimenti, potrebbe accadere ch’egli facesse buttar giù un’altra volta il palazzo, sempre — s’intende — a spese del Comune.

Ma il carattere originario della città non si modifica neppure con questi delitti estetici. Su tutte le torri, da tutte le facciate dei templi e dei palazzi il povero leone di San Marco allarga ancora le ali a ritentare un volo impossibile. 

Uno di questi leoni, anzi, scolpito su la Porta Marina, ha inspirato una stranissima leggenda. I suoi artigli stringono il libro chiuso: narrasi che il libro fosse rappresentato, come di consueto, aperto; ma che — caduta la Repubblica di Venezia — miracolosamente da sè si chiudesse. Malinconica e ingenua leggenda, nata dall’ignoranza o, piuttosto, dall’oblio, giacché i Veneziani solevano figurare così il simbolo del loro dominio nelle terre di confine, ove le armi non trovavano mai tregue nè riposi, ove, cioè, sarebbe stato fallace e sconveniente il motto: «Pax tibi, Marce...... Egiusto è che là su la Porta Marina sia rimasto il santo libro perennemente chiuso, poiché pace è parola priva di senso in queste terre del dolore e dell’odio."



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