Un caso specifico della slavizzazione compiuta dall'impero Asburgo ovvero la slavizzazione forzata di clero e liturgia in Venezia Giulia e Dalmazia (1866-1914)
La slavizzazione forzata in Venezia Giulia ed in Dalmazia progettata e portata avanti dall'impero asburgico si sviluppò notoriamente in una pluralità di forme e modi, che compresero attività di polizia e giudiziarie, deportazioni, immigrazione in massa di slavi dall'interno, propaganda politica, misure scolastiche ecc. Uno degli strumenti di cui l'autorità imperial-regia si servì per slavizzare queste regioni fu il clero nazionalista sloveno e croato, per il cui tramite si cercò di realizzare una slavizzazione massiva della chiesa cattolica locale in tutti i suoi aspetti, in contrasto all'identità nazionale e religiosa degli Italiani cattolici che vi vivevano.
1) L'austroslavismo
Il cosiddetto austroslavismo indicò una corrente politica largamente diffusa (anche) presso Sloveni e Croati che si prefiggeva il conseguimento dei propri obiettivi nazionali e nazionalistici all'interno del regime asburgico e con la sua collaborazione. L'austroslavismo era diffuso presso varie popolazioni slave dell'impero, come i Cechi. Ciò che qui interessa è la sua presenza presso gli “slavi del sud”. La finalità di tale movimento, beninteso piuttosto variegato, era per i suoi aderenti Sloveni e Croati quello del “trialismo”, ossia la costituzione di un terzo “regno”, accanto ad Austria ed Ungheria, che avrebbe dovuto comprendere Sloveni e Croati ed appagare le loro aspirazioni.
L'austroslavismo fu, è bene ripeterlo, alquanto variegato al suo interno. Molti politici sloveni però suggerivano la creazione d'una nuova unità amministrativa, posta all'interno dell'impero asburgico, che avrebbe dovuto comprendere assieme la Carniola, la Stiria meridionale, la Carinzia meridionale, ma anche terre in cui gli Italiani erano maggioranza, come il cosiddetto Litorale (la Venezia Giulia), quindi Trieste, l'Istria, la contea di Gorizia e Gradisca, nonché la Dalmazia. Si giungeva persino a rivendicare territori italiani al di là dell'Isonzo, come parte della valle del Natisone. I confini di questa nuova unità amministrativa avrebbero dovuto ricalcare in buona misura quelli elaborati già alla metà del secolo XIX da Peter Kozler. Questi era un geografo sloveno, ma d'origine tedesca e favorevole all'impero asburgico, che aveva creato nel 1848 la prima mappa della “Slovenia”, in cui venivano attribuiti ad essa anche molti territori che non erano per nulla a maggioranza slovena.
Il “terzo regno” avrebbe inoltre dovuto includere anche la Croazia, la Slavonia, la Bosnia-Erzegovina. Il destino degli Italiani e dei Serbi all'interno di tale nuova costruzione statale sarebbe stato, nelle intenzioni di molti dei nazionalisti Sloveni e Croati, quello dell'assimilazione forzata, quindi della loro slovenizzazione e croatizzazione. Si sarebbe dovuto quindi trovare un modus vivendi con il potere centrale ed il gruppo etnico austriaco, cercando invece di snazionalizzare le minoranze italiana e serba all'interno della nuova costruzione amministrativa.
Questi nazionalisti speravano di poter realizzare i propri progetti di riforma statale in senso trialistico ricorrendo all'alleanza di settori dell'establishment imperiale, in particolare l'esercito. Infatti, lo stesso capo di stato maggiore, Conrad von Hötzendorf, noto italofobo (propose l'attacco all'Italia per ben due volte, dopo il terremoto di Messina e durante la guerra di Libia) ,simpatizzava per le posizioni austro slaviste. Questo era il caso inoltre dell'erede al trono Francesco Ferdinando, non casualmente in ottimi rapporti con von Hötzendorf.
L'austroslavismo incontrò la simpatia ed il sostegno di settori consistenti della classe dirigente austriaca e fu sostenuto da personaggi cruciali del nazionalismo slavo, che erano, particolare sintomatico,tutti ecclesiastici: J. J. Strossmayer, vescovo di Dakovo; J. Dobrila, vescovo di Parenzo e di Pola; Janez Evangelist Krek, sacerdote, professore di teologia al seminario di Lubiana, leader ed ideologo spicco del Slovenska Ljudska Stranka “Partito popolare sloveno”, che chiese l'unione di Sloveni, Croati, Serbi, “sotto lo scettro degli Asburgo” ed auspicava di trovare degli alleati all'interno dei circoli militari per poter attuare i suoi piani di riforma statuale; Anton Mahnic, vescovo a Veglia. (1)
Infatti, il clero sloveno e croato rappresentava la guida politica del movimento nazionalista di questi due popoli, causa la debolezza culturale di tali popolazioni e l'assenza di una classe dirigente aristocratica o borghese od intellettuale che potesse sostituire gli ecclesiastici. L'alleanza fra il potere imperiale asburgico ed i nazionalismi sloveno e croato in funzione antitaliana ebbe modo di trovare la sua saldatura proprio nell'austroslavismo ed i suoi rappresentanti politici nel clero slavo.
Il Concordato del 1855 fra Vienna e Roma aveva attribuito alla Chiesa cattolica una serie di funzioni pubbliche, che erano già state cancellate all'epoca di Giuseppe II. La Chiesa si vedeva assegnare l'anagrafe, il potere di repressione di reati previsti dal diritto canonico, competenza in materia matrimoniale, autorità di censura e d'influenza sull'intero settore dell'istruzione. In cambio però la Chiesa doveva accettare di ridurre i propri membri ad una condizione di parziale sottomissione al potere politico, poiché gli ecclesiastici erano ritenuti di fatto funzionari pubblici dello stato e l'imperatore poteva esercitare un'estesa influenza sull'amministrazione ecclesiale, in particolare sulle scelte dei vescovi. Questo rese possibile un'azione di slavizzazione della popolazione ad opera dei nazionalisti slavi ecclesiastici sia all'interno dell'ambito chiesastico in senso proprio, sia anche nell'ambito pubblico loro attribuito.
2) La slavizzazione del clero
Il governo viennese si preoccupò di far nominare in Venezia Giulia, regione a maggioranza italiana, unicamente vescovi slavi e di spostarvi dai Balcani sacerdoti slavi, in modo che superassero numericamente quelli italiani autoctoni.
Malgrado gli Italiani fossero la maggioranza della popolazione in Venezia Giulia, a detta degli stessi censimenti austriaci, e la quasi totalità in alcune aree, i vescovi, per espressa volontà governativa, furono tutti prescelti fra slavi, con la sola eccezione di quello di Parenzo, che però aveva ottenuto la carica in quanto del tutto prono ai voleri viennesi. I due capi del nazionalismo slavo in Venezia Giulia non erano laici, ma vescovi: il vescovo Dobrila nominato a Trieste (città a stragrande maggioranza italiana) ed il vescovo Vitovic a Veglia (isola anch'essa a stragrande maggioranza italiana). La slavizzazione delle cariche episcopali fu poi seguita, a cascata, da quelle dei sacerdoti.
Scrive al riguardo Attilio Tamaro in Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia (Roma, G. Bertero, 1915):
“ Cooperavano a questo sistema di snaturamento dei lineamenti storici ed etnici della Regione Giulia e della Dalmazia i preti. I vescovi delle provincie, fuorché quello di Parenzo, ligio però con cieca devozione al Governo austriaco, erano tutti slavi, per espressa volontà di Vienna. Come tali, per mezzo dei seminari vescovili e per mezzo delle loro relazioni con le provincie dell'interno, aumentarono con grande intensità la produzione di sacerdoti slavi e, approfittando dello scarso numero di preti italiani che le provincie potevano dare, empirono con quelli tutte le parrocchie, anche le italiane. ”Il capitolo cattedrale di Trieste fu slavizzato anch'esso,poiché ogni volta che un seggio restava vacante veniva ad essere nominato uno slavo, abitualmente neppure triestino. Accadde così che nel 1891 su 14 canonici, che fra effettivi ed onorari costituivano il capitolo della cattedrale di S. Giusto, uno solo, un semplice canonico onorario, fosse italiano, mentre gli altri tredici erano tutti slavi, fra cui otto originari della Carniola: questo malgrado la città tergestina fosse a schiacciante maggioranza italiana, come dimostravano gli stessi censimenti austriaci. Alla stessa data, si trovavano nella diocesi di Trieste 92 preti originari dalla Carniola, 16 dalla Boemia, 14 dalla Carsia, 6 dalla Stiria, 5 dalla Dalmazia, 5 dalla Croazia, 2 dalla Moravia, 1 dalla Polonia. Nell'anno 1900 nella diocesi di Trieste-Capodistria vi erano 100 preti italiani contro 189 slavi, neanche la metà dei quali originari, ma fatti venire dalle regioni interne della Slovenia o della Croazia nell'intento di slavizzare anche religiosamente la regione. Nel 1892 all'interno della diocesi di Parenzo-Pola (a netta maggioranza italiana) operavano 81 sacerdoti, fra cui 56 slavi, tutti provenienti da altre regioni, anche molto lontane, come era il caso di ben 11 boemi.
La situazione era tanto grave da suscitare persino le proteste dei comuni. Il Consiglio cittadino di Trieste il 29 dicembre 1886, dopo aver esposto nel dettaglio la situazione riguardante il clero locale, dichiarava:
“ Il Consìglio della città ravvisa nel complesso dì codesti atti una manifesta opera di propagazione dello slavismo, non compatibile coll'uffìcio della Curia vescovile, dannosa alle nostre scuole, del pari che alla religione ed al governo della publica cosa, ingiusta verso i giovani italiani che si vogliono dedicare alla professione sacerdotale, pericolosa alla pace ed al benessere della città, offesa gravissima al carattere nazionale del paese, al sentimento de' suoi abitanti ed alle forme del secolare suo incivilimento. Epperò il Consiglio della città altamente protesta contro il complesso di codesti atti, e nel mentre si riserva di provvedere entro il limite dei mezzi e delle sue attribuzioni, incarica l'illustrissimo sig. Podestà di dar atto dell presenta risoluzione tanto all'i. r. Governo, che alla Curia vescovile. ”Si associarono alla protesta del Consiglio di Trieste anche i municipi istriani di Capodistria, Pirano, Isola, Muggia, Buie, Cittanova e Portole.
3) L'istigazione all'ostilità contro gli Italiani
Le autorità imperiali ebbero anche cura di fomentare il nazionalismo slavo in funzione italofoba. Un esempio di questo è l'operato del l'imperial-regio commissario in Istria, tale Fodransperg. Questi nel settembre 1848, inviava a diversi parroci istriani un articolo di propaganda politica a favore dell'appartenenza slava dell'Istria. Esso era in modo solo apparentemente paradossale in lingua italiana: in verità l'italiano era la lingua di cultura della Venezia Giulia e della Dalmazia da secoli, accanto al latino, cosicché gli slavi stessi se ne servivano abitualmente (basti dire che il quotidiano dei nazionalisti croati di Dalmazia era scritto in italiano e si chiamava “Il Nazionale”!).
La lettera del commissario recitava:
“ Molto Reverendo Signore,Questa missiva, inequivocabile forma di propaganda a favore del nazionalismo panslavista, era stata scritta e firmata da un alto funzionario imperiale e trasmessa ad una serie di parroci dell'Istria:
Reputo di fare a Lei cosa gradita colla comunicazione dell'annessa italiana traduzione di un articolo fondamentale scritto sulla nazionalità slava dell'Istria, a confutazione di tanti infondati, insulsi e passionati altri articoli, con cui certuni Italiani tentano sopprimere questa slava nazionalità a vantaggio della gente italiana.
Credo poi di non recare a Lei molestia col pregarla di volere possibilmente divulgare questa traduzione e di spiegarla in slavo alli di Lei parrocchiani, onde venga istruita del suo diritto di nazionalità e sappia fare valere in ogni evento contro la gente italica, che, ospite sul suolo istriano, si arroga dei diritti a lei non competenti. Spero non essere lontano il tempo in cui l'Istria slava otterrà giustamente li vantaggi di vera sua nazionalità sotto il glorioso vessillo dell'amatissimo nostro Imperatore costituzionale, ed unita fraternamente alle altre fedeli provincie tedesche e slave, sarà un leale e forte sostegno al di Lui avito trono.
Dopo averne presa una copia di detta traduzione, vorrà Ella gentilmente spingerla avanti con sollecitudine, onde circoli nel modo qui sotto indicato.
Pinguente li 24 settembre 1848
„Födransperg“, i. r. Comm. ”
“ Al molto Reverendo Signor Parroco di Sovignacco.Furono moltissimi i sacerdoti slavi che predicarono l'odio e l'ostilità verso gli Italiani, oppure che li discriminarono in vari modi ed intrapresero campagne politiche contro di loro. Il nazionalismo sloveno in Venezia Giulia sorse con l'appoggio determinante del clero slavo. Questo risulta già nel periodo cruciale 1867/1870, nella fase che i nazionalisti sloveni chiamano “l'epoca dei tabor”. I tabor erano grandi riunioni pubbliche di sloveni, in cui venivano ammaestrati da oratori nazionalisti, fra cui comparivano frequentemente sacerdoti.
Ricevuta li 19 e promossa li 21 settembre 1848 (Zimmermann, Parroco di Sovignacco).
Ricevuta e promossa li 24 settembre a. c. (Novak, Parroco di Verch).
Ricevuta li 4 e promossa li 5 ottobre 1848 (Podobnik, Parroco di Terviso).
Ricevuta li 13 ottobre 1848 (Sacher, Parroco di Socerga).
Ricevuta li 7 e inoltrata li 8 ottobre 1848 (Kodermann, Parroco di Valmovrasa). ”
Questi incontri promuovevano molte richieste nazionalistiche ed estremistiche: la costituzione di un Land asburgico comune della Slovenia, che però doveva comprendere tutta la Venezia Giulia, incluse le aree a stragrande maggioranza italiana, quali Gorizia, Trieste, Istria veneta, Friuli orientale; gli oratori sloveni, fra cui appunto preti, arrivavano ad esortare le donne slovene a non “contaminarsi” contraendo matrimoni misti con gli italiani, in questo modo dimostrando chiaramente una concezione razzista; si giunse al punto, come avvenne in tabor svoltosi sul Collio goriziano, di chiedere all'impero d'armare gli sloveni contro gli Italiani.
Le idee di cancellazione della presenza degli Italiani esistevano quindi già agli inizi del movimento nazionalista sloveno ed erano espresse con molta chiarezza, accompagnate da teorie razziste basate sul “mito del sangue” e sulla credenza di diversità biologiche alla base di quelle nazionali.
Il movimento dei tabor si sviluppò in Venezia Giulia a partire dall'ottobre del 1868 ed ebbe l'appoggio decisivo del clero sloveno, l'unica classe dirigente degli sloveni all'epoca, poiché l'unica che avesse presso questo “popolo” un qualche minimo livello intellettuale. L'impero aveva favorito in ogni modo la presenza del clero slavo in Venezia Giulia, in funzione anti italiana, al punto da nominare abitualmente vescovi slavi in città e terre abitate a maggioranza da Italiani. Anche se con differenze locali (maggiore prudenza a Gorizia, adesione convinta a Trieste e Capodistria), si può dire che gli ecclesiastici sloveni furono protagonisti del movimento del tabor, sia per nazionalismo, sia per fedeltà verso l'impero, italofobo: l'ostilità verso gli Italiani scaturiva quindi sia dall'aggressività nazionalistica, sia dall'ottemperanza alle direttive imperiali.
Un esempio di che cosa accadesse nei tabor sloveni è offerto dal primo primo Tabor istriano, indetto per l'8 agosto del 1870 a Covedo (Capodistria): fra i partecipanti c'erano 24 religiosi. Uno di loro, il Lavric, si mise con fare esagitato a predicare alle donne presenti di non sposarsi con Italiani, ma solo con Sloveni. Un altro prete sloveno, tale Raunik, tenne una concione in cui sosteneva, del tutto falsamente, che i più antichi abitatori dell'Istria erano slavi, mentre in realtà costoro vi giunsero soltanto nel VII secolo dopo Cristo. Appoggiandosi ad un'affermazione storica totalmente erronea, il Raunik pretendeva per gli slavi il possesso dell'Istria. Presero poi la parola altri due preti sloveni, ambedue parroci. Mentre i vari oratori parlavano, altri sacerdoti slavi in mezzo alla folla cercavano d'infiammare gli animi lanciando grida di battaglia tipo “zivio, hocemo, nocemo”. Fra i nazionalisti sloveni presenti compariva anche don Urban Golmajer il prete che nella località di Rozzo aveva distrutto tutte le lapidi romane rinvenute negli scavi (l'ostilità verso Roma antica era, naturalmente, parte dell'italofobia dei nazionalismi sloveno e croato), suscitando l'indignazione del grande storico tedesco Mommsen: il Golmajer era stato poi candidato alla Dieta locale per conto dei nazionalisti sloveni. L'iniziativa del tabor era stata un'idea di don Raunik e tutte le spese erano state coperte dal clero slavo.
In Dalmazia l'operato del clero croato fu, se possibile, ancor peggiore. Suoi membri giunsero al punto da istigare apertamente alla violenza contro gli Italiani od a partecipare in prima persona ad aggressioni fisiche. Ad esempio, a Zara durante una festa religiosa, quella del Giovedì Santo pasquale (sic!) un nazionalista croato, eccitato dai discorsi anti-italiani di preti e frati croati, sparò su di una folla di fedeli Italiani diversi colpi di pistola, facendo numerosi feriti. Egli fu arrestato dalla polizia imperiale, ma invece di essere processato per questa sua criminale aggressione, venne subito rilasciato. Giusto per ricordare un altro caso analogo, al principio del 1909 un gruppo di pacifici cittadini Italiani di Zara che si stavano recando in barca a Bibigne per compiere un'escursione, non poterono neppure sbarcare, poiché furono aggrediti da una folla di contadini slavi, aizzati dal loro prete, che cercarono di lapidarli.
4) La slavizzazione dei cognomi italiani
I parroci istriani e dalmati, che erano per la maggior parte di etnia slava in seguito alle precisa politica imperial-regia, cominciarono sin dal 1866 una falsificazione anagrafica che andrà avanti per decenni. Poiché nell'impero asburgico, erroneamente ritenuto un esempio di ottima amministrazione, i compiti dell'ufficio anagrafe erano ancora delegati ai parroci (secondo una prassi scomparsa da tempo negli altri stati europei), i sacerdoti slavi poterono intraprendere la falsificazione dei registri di battesimo e di matrimonio, con la slavizzazione dei nomi e dei cognomi latini ed italiani.
Scrive in proposito Attilio Tamaro in Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia, Roma, G. Bertero, 1915:
“ Tengonoi parroci in Austria i registri dello stato civile. Gli slavi, non curanti delle proteste degli abitanti, forti della protezione del Governo, con cui erano organicamente collegati nell'opera e nel fine, slavizzarono i cognomi nei libri delle nascite, in quelli matrímoníalí ed in quelli delle morti. Il fine era di ottenere dei dati statistici, dei documenti ufficiali che, per una dimostrazione necessaria alla politica del Governo, sembrassero comprovare o la non esistenza o la graduale estinzione dell'italianità. ”L'opera di slavizzazione forzata dei nomi e cognomi italiani ad opera del clero slavo, con la connivenza delle autorità austriache, è documentata minuziosamente nello studio di Alois Lasciac intitolato Erinnerungen aus meiner Beamtencarrière in Österreich in den Jahren 1881-1918 (Trieste 1939). Il dottor Alois Lasciac, d'origine austriaca, era stato Vicepresidente della Luogotenenza imperial regia di Trieste ed Presidente della Commissione amministrativa del Margraviato (Marca) d'Istria: egli quindi era stato un alto funzionario austriaco dell'amministrazione asburgica.
Durante la sua attività nell'isola di Lussinpiccolo egli poté testimoniare che il clero locale, tutto croato nonostante la popolazione fosse in grande maggioranza italiana, falsificava i nomi e cognomi degli abitanti. Egli dedica un intero capitolo della sua opera proprio a tale argomento: Verstümmelung der Familiennamen in den Pfarrmatriken (Storpiatura dei cognomi nei registri). Lasciac segnala che l'antichissimo uso delle forme latine e venete per designare i nomi e cognomi degli abitanti locali era stato intenzionalmente sovvertito dai sacerdoti croati nei registri delle nascite, i matrimoni, le morti, slavizzando l'onomastica degli Italiani di Lussinpiccolo. Egli, che all'epoca era commissario imperial-regio, impose il ripristino della grafia originari, al che i nazionalisti Croati risposero facendo ricorso al governo centrale viennese. Lasciac conclude la sua narrazione di questa vicenda dicendo che l'intervento del parlamento di Vienna concesse tolleranza a questa arbitraria modifica dei nomi e cognomi, che negli archivi parrocchiali, aventi nell'impero funzioni di anagrafe statale, vennero ad essere trasformati in forma slava, in contrasto con la loro esistenza plurisecolare in forma italiana.
Furono numerose le pubbliche denunce dell'operato del clero slavo, compiuto con la tolleranza con l'aperto sostegno delle autorità asburgiche. Nel 1877 il deputato istriano al Parlamento di Vienna Francesco Sbisà presentò un'interrogazione denunciando la slavizzazione di nomi e cognomi italiani. Nel 1897 il linguista rovignese Matteo Bartoli parlò di 20.000 nomi modificati, in particolar modo nelle isole di Cherso, Lussino e Veglia, quasi totalmente abitate da italiani. Nel 1905, nel corso di una seduta alla Dieta Istriana, il deputato albonese, avvocato Pietro Ghersa, denunciò, attraverso una vasta documentazione derivante da lunghe ricerche, l'opera del governo che aveva fatto connivenza per la slavizzazione di circa 20.000 cognomi italiani nell'intera provincia istriana. Si noti che le ricerche di Bartoli e Ghersa erano state separate fra loro e chele prime riguardavano principalmente le isole del Carnaro, le seconde invece la penisola istriana, per di più in due periodi differenti. La cifra di 20.000 cognomi italiani slavizzati, segnalata da entrambi, deve quindi essere riferita ad aree per lo più differenti e risultare pertanto inferiore al totale delle sole regioni dell'Istria e del Carnaro.
Si noti comunque che i dati sopra segnalati, riguardanti i cognomi italiani slavizzati a forza in Istria, sono largamente incompleti per questa regione stessa, poiché numerosi altri furono modificati senza essere poi ripristinati nella forma originaria. Inoltre, queste pratiche avvennero anche nelle altre parti della Venezia Giulia, in Dalmazia e, tramite germanizzazione, in Trentino ed in Alto Adige.
5) La liturgia glagolitica
L'aspetto più visibile e più sentito da larga parte della popolazione italiana di tale operazione di slavizzazione fu l'introduzione forzata d'un rito in lingua slava in diocesi a maggioranza italiana.
Occorre una premessa. La chiesa di Roma ammise, al momento dell'evangelizzazione degli slavi, solo tre lingue per la liturgia: ebraica (di fatto non utilizzata), greca (impiegata solo in aree cattoliche di lingua greca) e latina (praticamente universale).
Nell'area slava della Dalmazia e della Croazia la missione evangelizzatrice latina-cattolica dovette competere non solo con i missionari bizantini, ma anche con la sopravvivenza, dopo l'adesione dei Croati all'ecumene cattolica facente capo a Roma, con la sopravvivenza dei rito slavo. (2) Il concilio di Spalato (925) rafforzò il processo di latinizzazione dell'area, cercando di limitare il più possibile l'uso dello slavo nella liturgia, che ormai appariva sempre più connesso alla tradizione bizantina. Si cominciò così a delineare un confine, segnato in primo luogo dalla circolazione dei libri liturgici in alfabeto latino e in alfabeto cirillico, che emarginarono progressivamente il glagolitico, progettato come alfabeto per tutti gli slavi. Il patriarcato d'Aquileia e tutte le diocesi giulio-venete di riferimento sono sempre state di rito latino. La cosiddetta “liturgia slava” (termini scorretto: ma si ricordi come in ambito cattolico non sia mai esistito un rito slavo, presente solo nell'Ortodossia: ritus in senso liturgico e lingua d'uso non necessariamente coincidono, e sono comunque concetti distinti) in area cattolica vedeva delle secondarie diversità sul piano dei vari “officia” e “sacramenta”. Si trattava e si tratta di varianti locali della medesima liturgia, che si serviva del latino come lingua ufficiale liturgica, rimasta in vigore sino al Novus ordo Missae di Paolo VI. (3)
Questo naturalmente non impediva che, in alcune aree, s'avessero delle “sacche” di ritualità in lingua diversa da quella latina, per speciale dispensa, o meglio per tacita accettazione. Le popolazioni slava balcaniche erano di scarsa o scarsissima cultura, in misura minima alfabetizzate, cosicché anche il clero (il basso clero, solo sacerdoti di campagna) talora non conosceva il latino: si trattava insomma di un fenomeno indotto dall'ignoranza (chiedo venia, ma è proprio così) del clero, dinanzi a cui le autorità episcopali, che seguivano il rito latino, mostrarono tolleranza. Nel caso dell'area croata, che parzialmente interessò anche la Venezia Giulia, è il fenomeno detto del glagolitismo, che però interessò solo in misura assai limitata i territori giulio-veneti.
Per valutare l'atteggiamento della Chiesa di Roma nei suoi confronti, si può ricordare ciò che accadde nel secolo XIX, dinanzi alla richiesta dei nazionalisti croati di reintrodurre il glagolitismo (poiché era di fatto scomparso) in area giulio-veneta. Vi si opposero, sia pure con motivazioni diverse, la Curia romana, gli studiosi di storia ecclesiastica e le stesse popolazioni. La Curia pontificia, e per essa Leone XIII e Pio X, richiamarono i sostenitori del glagolitico ai principi del rito latino e li diffidarono dalla “reintroduzione” di tale rito laddove non fosse mai stato praticato. Gli storici, e basti ricordare il sacerdote Giovanni Pesante, lo storico rovignese Bernardo Benussi, l'illustre studioso osserino Francesco Salata e il lussignano prof. Melchiade Budinich, dimostrarono l'esiguità del fenomeno glagolitico e la sua eccezionalità, che era stata appunto tollerata accanto e subordinatamente all'impiego del latino. In ogni caso il glagolitismo, almeno prima del Novecento, ha riguardato solo alcune aree di popolamento croato, ed in alcuni periodi. Basti dire che il più antico documento «vetero-slavo» dell'Istria, il «Razvod Istarski». Compilato da due preti glagolitici è del pieno secolo XVI, mentre l'arrivo di genti slave oltre il monte Nevoso avviene attorno al VI-VIII secolo d.C. Tutti gli altri scritti di simile natura sono di modestissimo valore, annotazioni o poco più, a margine di messali, qualche iscrizione e graffito in poche chiese di campagna, oltre apochi testamenti illegittimi e registri parrocchiali, solo per periodi brevissimi e in località isolate e d'una fascia estremamente delimitata. Per dare un'idea della scarsità della presenza della liturgia glagolitica, basti dire che nel 1650 l'allora vastissima diocesi di Trieste vedeva in tutto e per tutto due minuscole parrocchie che la praticavano, nel solo territorio del Pinguentino (erano quelle di Draguch e Sovignaco, due piccole località). (4)
Nonostante l'opposizione delle popolazioni italiane della Venezia Giulia e la diffidenza del Vaticano stesso, la liturgia romana in lingua slava (anziché latina) finì con l'essere introdotta sotto la pressione convergente del governo asburgico e del clero slavo. L'impero aveva interesse a diffondere la liturgia cattolica in lingua slava come strumento di slavizzazione anche in campo religioso e grazie alla sua stretta e tradizionale amicizia con il Vaticano, acuita dalla “questione romana”, esercitò pressioni presso i pontefici per consentire la reintroduzione di una forma liturgica estinta dall'inizio del secolo XVIII e che aveva interessato solo pochissime località.
La diffusione della liturgia in lingua slava, che si accompagnò anche a prediche, canti ecc. in sloveno o croato, fu un modo con cui questi nazionalisti nemici dell'Italia tentarono di slavizzare a forza le popolazioni italiane. Il culto glagolitico non solo fu reintrodotto, ma venne imposto anche in località che non l'avevano mai conosciuto ed in cui gli abitanti erano in stragrande maggioranza italiani. Fu particolarmente incresciosa la situazione in Istria, terra in cui questo esperimento fu ampiamente esteso ed in cui gli Italiani erano di solito sia patrioti, sia cattolici.
Il malcontento fu naturalmente molto forte fra le popolazioni, che sovente preferirono abbandonare le funzioni religiose in rito glagolitico. Si possono portare alcuni esempi in proposito, fra i molti disponibili. Nel 1888 un sacerdote sloveno, originario della Carniola, introdusse di sua volontà il rito slavonico in una chiesa di Pola, in cui mai si era celebrato, suscitando lo sdegno degli Italiani ed anche di buona parte degli Slavi fra i suoi fedeli. Al ripristino del rito in latino, i giornali nazionalisti slavi si scatenarono contro il vescovo di Parenzo.
L'isola di Neresine fu teatro di ripetuti tentativi di slavizzazione nel culto religioso, in contrasto all'ortodossia cattolica, alle consuetudini ivi vigenti ed all'esplicita volontà degli abitanti. Un frate croato, tale Smolje, pretese di celebrare la messa in glagolitico nella parrocchia di Neresine, la domenica 22 settembre 1895, determinando l'abbandono della cerimonia da parte di tutti i presenti e l'inizio di un vero tumulto. Questo stesso sacerdote pretendeva d'impartire il battesimo in croato, in modo da slavizzare i nomi, rifiutandosi di farlo in latino anche qualora fosse direttamente richiesto dal padre del bambino. Il padre guardiano del convento francescano di Neresine, Luciano Lettich, pretese d'imporre il croato alla cerimonia di sepoltura delle salme dei coniugi Sigovich, Antonio e Nicolina Sigovich, provocando da parte dei parenti e degli altri fedeli l'abbandono volontario del rito. Un altro episodio fra i tanti si potrebbe citare, accaduto nella seconda domenica d'aprile del 1906, un frate croato pretese di celebrare in rito glagolitico nella chiesa di San Francesco di Cherso, isola prettamente italiana di storia e cultura. I fedeli, dinanzi a questa celebrazione, che appariva loro come una busso nazionalistico, abbandonarono in massa l'edificio religioso, lasciando da solo il frate croato.
Dopo queste ed altre vicende simili, gli abitanti di Neresine e di altre località minacciate di slavizzazione forzata (Ossero, Cherso, Lussinpiccolo) s'appellarono inutilmente al vescovo di Veglia, Mahnich. Vista l'inanità dei loro tentativi presso il presule slavo, decisero di fare ricorso direttamente a Roma. La gravità dei fatti riferiti spinse Pio X ad intervenire, rimuovendo Mahnic dal suo incarico di vescovo. Anche in seguito il Vaticano dovette intervenire direttamente per denunciare e condannare sia l'abuso liturgico del ricorso al rito glagolitico, sia l'appoggio diretto di sacerdoti slavi al nazionalismo sloveno e croato, come avvenne ad esempio il 17 giugno 1905, quando il Cardinale Segretario di Stato, per ordine del Papa Pio X, trasmise una lettera severa e preoccupata al Ministro Generale dell'Ordine dei Frati Minori Francescani, con l'ordine preciso d'intervenire in modo energico per porre termine al comportamento dei francescani croati in Dalmazia, che operavano per introdurre il croato nella liturgia.
La stessa chiesa cattolica non vide per nulla con favore la pretesa dei nazionalisti sloveni e croati di ripristinare il rito glagolitico, sia ragioni strettamente liturgiche, sia perché spesso tale richiesta proveniva da panslavisti con palesi simpatie per il cristianesimo greco-ortodosso. I movimenti nazionalisti slavi in Slovenia e Croazia potevano infatti contare su finanziamenti provenienti anche da regioni molto lontane di tutto l'impero asburgico e persino dalla Russia stessa ed anche ecclesiastici teoricamente cattolici anteponevano l'appartenenza nazionale alla fede professata. Un esempio, certo estremo ma comunque significativo, fu un piccolo scisma locale, che riguardò il paese di Ricmanje nella diocesi di Trieste e Capodistria. Il sacerdote del luogo, monsignor Požar, chiese di poter introdurre il messale glagolitico. Essendo stata rifiutata al sua richiesta, la situazione finì con l'evolvere in un vero e proprio scisma, con il passaggio di Ricmanje al rito ortodosso.
In conclusione ed in sintesi, il glagolitismo ricomparso dopo il 1848 ed ammesso addirittura nelle diocesi italiane fu quindi un'innovazione liturgica imposta da nazionalisti slavi con cariche ecclesiastiche, che ferì profondamente i sentimenti sia nazionali, sia religiosi dei cattolici Italiani, i quali si videro obbligati a riti stranieri e di dubbia conformità all'ortodossia cattolica.
6) Il cesaropapismo asburgico: oppressione della Chiesa ed ostilità verso l'Italia
La politica ecclesiastica dell'impero asburgico è stato ben sintetizzato da un ecclesiastico, il Mioni, nato a Trieste nel 1870, storico e giornalista:
“ Sempre uguali gli Asburgo. Il cesaropapismo era loro innato; essi, invece di occuparsi dei vitali interessi del loro stati, diedero sempre noia alla Chiesa. La onoravano esteriormente, ma ne tentavano di incepparne l'attività; s'atteggiavano a suoi tutori, ma la vollero tenere incatenata e aggiogata al carro dello stato. Che monta se le catene sono d'oro; sono sempre catene, e pesano assai più di quelle di ferro. Meglio una persecuzione aperta che il cesaropapismo e la tutela dello stato che vuole esercitare sulla Chiesa. ” (5)Egli riprendeva in questo il giudizio che era già stato, fra gli altri, di Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, che parlava così della politica ecclesiastica imperiale: «Erano protezioni che imponevano catene d'oro; catene d'oro, è vero, ma erano pur sempre catene.»
In sostanza, l'impero asburgico si pretese “protettore” della Chiesa, in questo modo però rivendicando da parte delle istituzioni ecclesiastiche una certa subalternità ai voleri ed alle imposizioni del potere politico. Giuseppe II, che giunse a pretendere di fissare quante candele dovessero essere accese nelle chiese e che diede il suo nome ad una politica religiosa cesaropapistica (anche un'eresia), il giuseppinismo, è soltanto il più noto rappresentante di tale linea politica abituale nella Vienna asburgica. Durante il Risorgimento, le autorità asburgiche non esitarono affatto a perseguitare ed uccidere ecclesiastici Italiani, perché patrioti. A detta degli stessi ufficiali imperiali, il clero del Lombardo-Veneto era di idee patriottiche. Ad esempio, scriveva il barone von Aichelberg:
“ Giorno per giorno, quasi ora per ora, la rivoluzione guadagnava terreno in tutte le province (. . .) I preti si comportavano peggio degli altri, manifestando con incredibile insolenza alla testa del movimento rivoluzionario: sono loro i massimi responsabili dell'incitamento e dell'influenza sulle classi inferiori, sui contadini in particolare. (. . .) I ricconi come i mendicanti, il vescovo così come le più orribili scimmie, tutti portavano la coccarda italiana. ” (6)
Anche per questo, furono molti i sacerdoti uccisi od imprigionati durante la repressione di Radetzky. Il caso più celebre (non l'unico!) fu quello di don Enrico Tazzoli, che fu torturato dalla polizia imperiale, ritualmente sconsacrato (su ordine speciale di Pio IX, in seguito alle pressioni del governo imperiale asburgico, il che avvenne mediante scorticamento delle dita) impiccato a Belfiore ed infine seppellito interra non consacrata. Durante la prima guerra mondiale, l'impero non esitò a deportare nei suoi lager anche molti sacerdoti trentini, mentre monsignor Celestino Endrici, l'arcivescovo di Trento, fu incarcerato nella fortezza di Heiligenkreuz.
Oltre a questi atti di persecuzione, la politica asburgica in campo ecclesiastico fu di solito ostile nei confronti degli Italiani a partire dal 1848. L'imperatore fece in modo che nelle sedi episcopali in Venezia Giulia, regione a maggioranza italiana, fossero nominati vescovi slavi, tutti quanti accesamente nazionalisti e che fecero giungere un gran numero di sacerdoti sloveni e croati dall'entroterra per slavizzare le chiese locali. Questi vescovi imposero mutamenti radicali nella liturgia locale, adottandone una detta “glagolitica”, che prevedeva l'uso dello slavo ecclesiastico, e propugnando talora idee vicine allo scisma da Roma e decisamente filo-ortodosse: questo però non modificò la politica imperiale. In Trentino-Alto Adige l'impero, formalmente “cattolico”, permise l'attività d'associazioni pangermaniste di tendenze protestanti ed anticattoliche (è il caso specialmente del Tiroler Volksbund), suscitando la reazione e lo sdegno del vescovo di Trento, Celestino Endrici appunto, e dei politici cattolici trentini, fra cui Alcide De Gasperi (ad esempio, un editoriale della Voce cattolica del 1° febbraio 1906 recitava «Difendiamoci contro chi insidia alla italianità della nostra terra»), che coglievano l'aspetto assieme anti-italiano ed anti-cattolico di tale indirizzo politico.
Infatti, per molti slavi e per molti altoatesini, esistevano una connessione fortissima fra italianità e cattolicesimo in considerazioni dei legami storici (il cattolicesimo è inconcepibile senza l'eredità romana), cosicché l'opposizione all'Italia intesa come nazione prendeva anche l'aspetto dell'ostilità verso la chiesa di Roma.
L'alleanza fra il potere imperiale ed i nazionalisti jugoslavi in funzione anti italiana trovò una delle sue manifestazioni più evidente nella slavizzazione forzata delle istituzioni, dei riti, delle attività della chiesa cattolica in Venezia Giulia ed in Dalmazia, con esiti pesantissimi uno stato in cui alle istituzioni ecclesiastiche cattoliche erano riconosciuti poteri e competenze di natura pubblica.
Note
1. cfr. Moritsch A., “Der Austroslawismus. Ein verfrühtes Konzeptzur politischen Neugestaltung Mitteleuropas”, Wien 1996.
2. M. Lacko, “I Concili di Spalato e la liturgia slava”, in A. Matanić (a cura di), Vita religiosa, morale e sociale ed i concili di Split (Spalato) dei sec. X-XI. Atti del Symposium internazionale di storia ecclesiastica, Split, 26-30 settembre 1978, Padova 1982, pp. 443-482.
3. Jedin (a cura di), Storia della Chiesa, volume IV, 1978; M. Uhlirz, Jahrbücher des deutschen reiches unter Otto II und Otto III, Berlin 1954; H. Ludat, Slaven und Deutsche im Mittelalter, Köln-Wien 1982; M. Gallina, Potere e società a Bisanzio, Turin 1995, pp. 167-1740.
4. cfr. Vittorio Fragiacomo, “La liturgia glagolitica in Istria”, Pagine Istriane, gennaio-giugno 1986, Rivista trimestrale di cultura fondata a Capodistria nel 1903 (Genova, 1986), p. 49-51; J. Martinic, “Glagolitische Gesànge Mitteldalmatiens”, Regensburg 1981.
5. Ugo Mioni, Pio VI: il pellegrino apostolico e il suo tempo, Alba, Pia Societa San Paolo, 1933, p. 60.
6. Sked, Le armate, cit., pp. 116-117.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.