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2. IL CONFINE GEOGRAFICO
Al tempo dei Trattati di pace del 1919 e del 1947, l'Italia sosteneva che la sua frontiera orientale era costituita dalle Alpi Giulie; lo stesso Wilson, nel suo messaggio al popolo italiano dell'Aprile 1919, aveva accettato tale affermazione. (1) Giudicherei fuori posto, in questo libro, una trattazione del tema, data l'esistenza di un ampio volume che si occupa specificamente del problema dei nostri confini orientali e fa riferimento ad una ricchissima bibliografia. (2) Secondo la Jugoslavia, ripetendo, essa pure, le identiche argomentazioni nelle due epoche citate, i nostri confini si fermavano al fiume Isonzo o, forse, anche al Tagliamento. Si trattava di piegare la geografia alla politica, dimostrando che, in questo campo, anche gli spartiacque, le valli, le montagne, i fiumi, i valichi non costituiscono realtà geografiche, ma soltanto opinioni politiche, tra l'altro — come ho detto e ripeterò più volte — allora perfettamente inutili perché i rappresentanti delle grandi nazioni barattavano i destini di un piccolo popolo vincitore e quelli di una grande popolazione vinta, usandoli come merce di scambio nelle trattative che riguardavano altre nazioni o interessi di ogni genere. Né giustizia, né equità entrarono, nemmeno di straforo, nel Trattato di pace, come noi e gli jugoslavi avevamo sperato, sia pure con opposti desideri. (3)
3. I PRIMI ABITATORI DELLA ZONA E L'EPOCA ROMANA
Nel territorio della Venezia Giulia esistevano insediamenti umani sin dall'epoca paleolitica; (4) ma quando vi arrivarono i romani nel 178-177 avanti Cristo vi trovarono delle genti fierissime (Carni, Istri, Liburni e Giapidi) ed abbastanza numerose, che non si rassegnarono presto al loro dominio, come si erano rassegnati i Veneti, pur di stirpe e di lingua tanto affini ai popoli ora ricordati. Trieste, dallo storico Artemidoro, è chiamata “villaggio carnico” e nel 53 a.C. fu saccheggiata dai Giapidi. La romanizzazione linguistica e culturale di quelle popolazioni fu raggiunta appena nell'età augustea (nel 49 a.C. fu data ai triestini la cittadinanza romana) e fu attuata ed attuabile per il fatto che, dal 181 a.C., anno della sua fondazione, Aquileia ebbe la funzione di attrarre tutte le popolazioni della zona dapprima con il suo prestigio politico, militare, commerciale, industriale e, poi, con la sua forza di centro religioso, dopo l'avvento del cristianesimo. L'influenza di Aquileia durò per quasi sedici secoli e nessuno dei popoli vicini ne restò immune.
I romani crearono nuovi insediamenti o ampliarono quelli autoctoni già esistenti. Da ogni parte sorsero, di conseguenza, agglomerati urbani, per allora molto popolati, come Tergeste, Pietas Julia (Pola), Parentium e quasi tutte le cittadine istriane che hanno, oggi, un nome derivante da quello romano o da una corruzione latina del precedente. Poco o nulla si conosce della civiltà delle genti autoctone della Venezia Giulia, perché quella romana permeò completamente il tessuto etnico locale facendo scomparire le tracce delle culture anteriori. Lo stesso era avvenuto per tutto il resto dell'Italia, man mano che Roma andava assoggettandola, sicché il processo della romanizzazione della Venezia Giulia si svolse esattamente come quello delle altre regioni italiane: lento e quasi insensibile attraverso le generazioni successive, che furono ben cinque o sei nella «decima regio Venetia et Histria».
4. DALLA ROMANITÀ ALL'ITALIANITÀ
Né diverso che nel resto dell'Italia fu il passaggio dalla romanità alla italianità, verificatosi nella Venezia Giulia. Si può solo osservare che esso si svolse attraverso una tenace difesa dei valori della civiltà latina, condotta da genti più esposte agli assalti dei barbari, dopo che le loro immense orde si erano impadronite della Pannonia, del Norico, della Dalmazia. Quei territori, durante il periodo romano, avevano costituito il cuscino ammortizzatore delle spinte dei vicini e turbolenti popoli ancor primitivi, in rapido sviluppo demografico. Come sempre avviene — e com'era avvenuto con l'assorbimento delle civiltà anteriori da parte di quella romana — la cultura superiore assimila quella inferiore. Perciò la Venezia Giulia assorbì facilmente i pochi barbari che vi si fermarono. E fu cosa agevole appunto perché essi erano pochi, dato che la regione costituiva soltanto una zona di transito per tutte le invasioni barbariche; essa era una terra povera, ben diversa dalla pingue pianura padana, verso cui i popoli in movimento si dirigevano. Inoltre, in quell'epoca, la Venezia Giulia era completamente e compattamente romanizzata ed i discendenti degli antichi popoli autoctoni (come risulta dal loro cognome) coprivano altissime cariche nell'amministrazione civile e militare dell'impero. Il passaggio dalla romanità alla italianità si era verificato, quindi, come in tutte le altre regioni italiane, gradualmente ed insensibilmente, come già si è detto. Ciò era stato reso possibile e favorito dal fatto che la popolazione era molto numerosa e non divisa da ostilità tribali, linguistiche o razziali ed era vissuta in una regione che, nella pace e nella tranquillità dei secoli fiorenti dell'impero romano, era riuscita ad amalgamare le sue genti, perché facevano parte dell'Italia ed erano lontane dai confini, avendo al di là, fino alla Sava ad al Danubio, altri immensi territori saldamente romanizzati. Dalla romanità all'italianità, nella Venezia Giulia, (5) si passò quindi — è bene ripeterlo — attraverso il medesimo processo verificatosi in tutto il resto dell'Italia. Strano era stato soltanto il fatto che, nella zona, la civiltà romana aquileiese non avesse saputo esprimere alcun grande letterato.
L'italianità della Venezia Giulia non è dovuta, perciò, ad una immigrazione dalla penisola italiana, ma è autoctona. Essa si crea spontaneamente o in genti vissute colà da prima della venuta dei romani e poi romanizzate, oppure in discendenti dai coloni romani che erano presumibilmente poco numerosi, data la fertilità della zona sin da allora ben modesta e perciò non certamente atta a richiamare forti immigrazioni. (6)
Ora, la difesa della romanizzazione e la sua trasformazione in una forma culturale italiana avviene tanto più tenacemente — per ragioni elementari, istintive, senza consapevolezza etnica o storica — in quanto si passa da un lungo periodo di pace ad un periodo di eventi disastrosi, cominciati con la venuta dei visigoti di Alarico, al principio del V secolo. Per la popolazione tutta romanizzata della Venezia Giulia, si tratta di difendere la propria indiscutibile superiorità civile di fronte ai barbari, anche per ovvio spirito di conservatorismo, di orgoglio, di xenofobia. E tale difesa è tanto più tenace in quanto, com'è noto, ciò che viene contrastato più fortemente si afferma. Inoltre, conquistati i territori periferici dell'impero da parte dei barbari, la Venezia Giulia comincia ad assumere quella funzione di zona di confine e di terra d'incontro tra popoli diversi, che tuttora mantiene.
Tra i barbari, di tante stirpi eterogenee, gli unici a stanziarsi nella zona, ma in gruppi molto piccoli, furono gli ostrogoti (Teodorico fu entro le mura di Trieste nel 568 d.C.); né essi alterarono, per il loro scarso numero, la fisionomia etnica della regione, che rimase sempre unita ed appartenne dal 539 al 787 all'impero romano d'Oriente, salvo un breve intermezzo longobardo, sotto gli ultimi re, quando Trieste fu rasa al suolo. Furono i longobardi che, per primi, spezzarono l'unità regionale, aggregando le valli del Vipacco e dell'Isonzo al Ducato del Friuli. La frattura si consolidò per tutti i secoli successivi (salvo la breve riunione nel periodo napoleonico) e, mentre nella parte conquistata dai Longobardi la romanità fu quasi distrutta, spopolando la zona ed aprendola, così, agli invasori àvari e slavi, essa continuò, invece, floridissima nei territori sotto il dominio di Bisanzio, a Trieste e nell'Istria, dipendenti dall'esarcato di Ravenna e difesi dal cosiddetto “numerus tergestinus”, una milizia confinaria creata dai bizantini, che nel 611 d.C. respinse gli slavi. Nel sesto secolo, verso la parte posseduta dai longobardi, si erano già affacciati gli àvari, che avevano al loro seguito gli slavi; premevano anche i franchi. I longobardi li respinsero e ricacciarono gli slavi nella valle della Drava. Le genti romanizzate delle valli prima ricordate si erano già rifugiate, intanto, nella zona lagunare, e, assieme ad altri esuli, da zone diverse, avevano cominciato a costruire le nuove cittadine lagunari, tra cui Venezia.
L'interscambio culturale tra l'Istria e l'esarcato fu molto intenso e l'Istria stessa non fu mai grecizzata. Un istriano, Massimiano, fu addirittura arcivescovo di Ravenna e grandi famiglie dell'Istria emigrarono, in quell'epoca, verso le lagune stabilendosi anche nella nascente Venezia. Fu quindi la sponda orientale, con i suoi abitanti romanizzati, a colonizzare quella occidentale, se così si può dire, e non viceversa. Ciò favorì il successivo rivolgersi delle cittadine istriane verso Venezia, quando l'esarcato si indebolì e la difesa dagli attacchi dei longobardi e di altri barbari divenne inefficace, specie quella contro i pirati slavi che, dal 640 circa, cominciarono a correre il mare ed a piombare sulle cittadine istriane, dai loro covi situati in Dalmazia.
Ma, con il passare del tempo, nel secolo VIII, dato che pure i longobardi si erano raddolciti sul suolo italiano, i territori istriani sotto dominio bizantino cominciarono ad intessere ottimi rapporti con questi dominatori loro confinanti e non più barbari. Le più strette relazioni con i longobardi e quelle con la sponda ravennate spinsero ancor più i territori della sponda orientale dell'Adriatico a gravitare verso il mondo occidentale, togliendo ogni influenza culturale all'Oriente bizantino. Questa inserzione definitiva nella vita dell'Occidente si accentua ulteriormente sotto il dominio dei franchi, che ha anche il merito di includere tutta la Venezia Giulia nell'unità politico-amministrativa costituita dal regno franco d'Italia. Salvo brevi e temporanei spostamenti amministrativi, la zona rimase sempre parte dell'entità politica italiana e gli sviluppi successivi fino al secolo XIV ed oltre non furono che la conseguenza della sistemazione originariamente messa in atto dai franchi. Si formarono i primi grossi nuclei feudali a Gorizia, a Pisino, a Duino. Anche il Patriarcato di Aquileia aveva carattere feudale. Le cittadine costiere istriane si diedero, invece, un reggimento comunale nello stesso periodo e nello stesso modo dei Comuni delle altre parti d'Italia. È questa l'epoca in cui dal latino — probabilmente imbastardito, già nell'epoca romana, dalle originarie lingue locali — si passa al volgare romanico o romanzo, come avviene nel resto dell'Italia ed in molte altre zone dominate, un tempo, da Roma. Prova indiretta ne è il fatto che i dialetti ancora sopravviventi a Rovigno, a Valle, a Dignano ed il veglioto, studiato dal Bartoli, derivano dal latino senza passare attraverso il veneto, a differenza delle parlate delle altre cittadine costiere, che, invece, traggono origine dal veneto stesso. Anche sotto questo aspetto, oltre che sotto quello politico, la Venezia Giulia rimase legata all'Italia.
5. L'INFILTRAZIONE DELL'ELEMENTO GERMANICO
La zona aveva avuto contatto con gruppi etnici germanici già al tempo delle prime invasioni dei visigoti e degli ostrogoti; ma esse, data l'esiguità dei gruppi fermatisi, non avevano lasciato alcuna traccia di carattere etnico. Ci si riferisce qui, invece, all'elemento tedesco vero e proprio, quello che assume una chiara fisionomia tra le altre stirpi germaniche e giunge in Italia, in particolare, con e dopo gli Ottoni, attraverso la nuova organizzazione politico-giuridico-amministrativa medioevale, data dal feudalesimo. L'unico che non sia feudatario di nessuno è l'imperatore; gli altri fanno parte di quella catena che a lui fa capo e si divide in infiniti rami ed in anelli sempre più piccoli. Questa specie di rete, che si estende sopra la realtà etnica, economica e politica dei popoli autoctoni di qualsiasi zona, è costituita, nella Venezia Giulia, da dominatori quasi tutti di stirpe tedesca. Per quanto essi portino con sé milizie della loro stessa nazionalità, non riescono a mutare il carattere etnico della zona per varie ragioni: quella che lo snaturamento etnico di un territorio si ottiene solo trasportandovi grossi nuclei familiari e ciò non si verificò; quella che, trattandosi di una casta di dominatori di altra lingua, doveva risultare difficile una commistione con l'elemento etnico locale; quella che, essendo essi dominatori stranieri, venivano considerati sempre come un inviso corpo estraneo nel tessuto demografico dei dominati. Del resto, negli ultimi secoli, malgrado tutti i possibili sforzi, l'Austria non riuscì, ad un millennio di distanza dai primi arrivi dei feudatari d'oltralpe, a rendere tedesca nemmeno la perla marittima della corona asburgica: Trieste. (7)
Rimasero sempre indenni o quasi-indenni dal feudalesimo le cittadine che si reggevano nella forma di libero comune, in particolare quelle della costa istriana. Nel resto della zona, come ovunque avveniva, gli imperatori nominarono quali loro feudatari sia gli ecclesiastici che i laici. Tra i primi il più importante fu il patriarca di Aquileia, tra i secondi i marchesi d'Istria, preceduti dai conti d'Istria fino al 1209; furono tutti membri di grandi casate tedesche, come tedeschi erano moltissimi dei patriarchi di quel periodo. L'autorità di questi ultimi, fino al 1420, rimase estesa, almeno in teoria, su tutta l'Istria ed i marchesi erano i loro luogotenenti; come erano “advocati” dei patriarchi quei conti di Gorizia i quali, discendenti da varie altre famiglie tedesche prima, appartennero poi alla sola casa dei Lurngau-Heimföls, dal XII al XVI secolo. Tra i feudatari laici erano da annoverarsi anche i signori di Duino — i Walsee — ed un ramo istriano dei signori di Gorizia che, sgretolando il potere temporale dei vescovi di Parenzo — come gli altri stavano sgretolando quello dei patriarchi — avevano creato una loro signoria con centro in Pisino, ribattezzata in Mitterburg. Primo ad estinguersi nel 1374 fu il ramo goriziano di Pisino; seguirono nel 1466, i Walsee; seguirono ancora, nel 1500, i Lurngau-Heimföls. L'eredità di queste famiglie estinte, di solito attraverso matrimoni dinastici, passarono tutte agli Asburgo, i quali crearono così un loro dominio feudale che da Gorizia andava alla Liburnia ed all'Istria interna e si raccordava ai loro precedenti possessi della Carniola. Di questa, essi estesero i confini a spese delle zone ereditate. Nel 1382 anche Trieste si diede agli Asburgo (dopo un primo atto di dedizione del 1369), sicché fu raggiunta una perfetta continuità territoriale del nuovo, grande ed unico dominio.
6. LA VENUTA DEGLI SLAVI E LA LORO DIFFUSIONE
Ben altra importanza, ai fini della ormai più che secolare (e non terminata, per quanto perfettamente inutile) discussione tra italiani e slavi sulla Venezia Giulia, ha il problema della venuta degli slavi stessi nella regione. Bisogna tenere nettamente separati gli sloveni dai croati, non solo per quanto riguarda le loro zone di insediamento, ma anche per quanto concerne il modo in cui penetrarono nella Venezia Giulia. Gli sloveni costituiscono uno dei «popoli senza storia», (8) secondo la definizione di F. Engels. Essi erano, cioè, un popolo inserito in complessi più vasti, come il regno franco o quello degli Asburgo, e sempre dominato da altre genti; un popolo mite, rurale, laborioso, appartenente, anche da un punto di vista antropologico, ad una razza diversa da quella dei croati. (9) Questi ultimi crearono complessi politici e militari ed ebbero una storia certamente non pacifica. Esiste, ancor oggi, un confine etnico corrispondente, più o meno, alle attuali repubbliche slovena e croata, il quale, partendo dalla valle del fiume Dragogna (che sbocca nel golfo di Pirano), sale all'altipiano carsico poco a sud di Castelnuovo e prosegue fino al bivio di Ruppa a sud del Montenevoso. Vi sono propaggini slovene nel Pinguentino e nell'alta val d'Arsa e vi furono propaggini croate nella valle del Natisone, come risulta dal dialetto paleo-croato che vi si parla.
Anche in relazione alla loro indole ed al loro status, gli sloveni vennero pacificamente nella Venezia Giulia, già nel VII secolo, al seguito dei bellicosissimi e feroci avari, penetrando nelle alte valli lasciate libere dalla popolazione romanizzata, che si era rifugiata nelle lagune. Poi, quando i longobardi riuscirono a distruggere gli avari rendendo libere, così, le genti slave da una specie di schiavitù, (10) essi s'infiltrarono lentamente e con propositi pacifici, dalle valli della Brava e del Gail, in quelle dei fiumi Resia, Torre e Natisone e, dalla valle della Sava, verso quelle dell'Idria, del Vipacco, del Timavo e nella Carsia. Ma i loro insediamenti si estesero, seppure isolatamente, anche nel medio e basso Friuli e giù verso l'Istria. Nel notissimo placito del Risano, dell'804, i rappresentanti della popolazione autoctona romanica ebbero a lagnarsi, contro il duca franco Giovanni, con i missi dominici inviati da Carlo Magno, circa la penetrazione slava e la assegnazione di terre a questi non bellicosi, ma intrusi, ospiti. (11)
Si trattava, da parte del duca, non certo di favoritismi politici o razziali, ma di una pura questione di spostamenti demografici nell'ambito del dominio franco che, in quell'epoca, andava ben al di là della Venezia Giulia. E, poiché la popolazione romanica doveva essere in pessime condizioni demografiche, egli era certamente ben lieto di trovare gente disposta a lavorare in una regione spopolata. Evidentemente, se la situazione demografica si fosse trovata in condizioni opposte, il gruppo romanico avrebbe potuto espandersi nel vasto spazio ad Est della Venezia Giulia facente parte del regno franco, esattamente come, molti secoli prima, era avvenuto durante l'impero romano, che aveva portato la propria civiltà ben lontano, verso Oriente. La penetrazione slovena fu dovuta, quindi, ad un fattore demografico-economico e l'elemento delle campagne non fu mai in grado, nei secoli successivi, di riconquistare le posizioni perdute, né in Istria né altrove, con esclusione di quella parte del basso e medio Friuli dove, degli sporadici insediamenti slavi, non rimane che qualche traccia nella toponomastica.
Note
1. A. D'Alia, La Dalmazia, Casa editrice Optima, Roma 1928, p. 217.
2. G. Valussi, Il confine nordorientale d'Italia, LINT, Trieste 1972.
3. Anche J.C. Campbell, Successful Negotiations: Trieste 1954. An Appraisal by the Five Participants, Princeton University Press, Princeton 1976, p. 8, dice: «né l'Italia, né la Jugoslavia ebbero una influenza significativa sulle trattative che erano nelle mani delle tre grandi Potenze». Pure nel suo volume poco noto, forse perché eccellente ed obbiettivo, già prima citato, D.I. Rusinow, op. cit., p. 330, osserva che il confine fissato dal Trattato di pace del 1947 «fu il risultato di un compromesso fra gli scopi politici di un esercito alleato e le necessità militari di un altro: «the Italians had no say». A p. 396, sottolinea il fatto che non fu tenuto alcun conto dell'opinione delle popolazioni interessate. A p. 401, dice: «non importava; il corso dei negoziati aveva poco da fare con i meriti della causa italiana o di quella jugoslava». Vedi anche p. 405.
4. Per la bibliografia vedere il volume Valussi, Collana di Bibliografie, cit., p. 93 e segg. I Traci del Kandler costituiscono un ricordo di tipo letterario.
5. Tutti sanno che il nome “Venezia Giulia” fu dato, alla regione, dal famoso glottologo Graziadio Ascoli, nella seconda metà del secolo XIX. È poco noto, invece, che il nome delle Alpi Giulie data dall'epoca romana, come quelli di Forum Julii (Cividale) — da cui "Friùli" — Pietas Julia (Pola), ecc.
6. Stupisce che un uomo della cultura di Vladimir Velebit (Campbell, Trieste 1954, cit., p. 78) asserisca che i confini tra italiani e slavi sono posti sul fiume Isonzo, da quando gli slavi entrarono in Europa e cioè dal VII secolo; che colonie italiane furono stabilite da Venezia nell'Istria e nella Dalmazia e che Trieste, tre o quattro secoli or sono, era «un villaggio peschereccio abitato da una mescolanza di pescatori sloveni e, può darsi, da qualche pescatore veneziano». Forse avrebbe potuto riflettere sui cognomi locali, molti dei quali sono prettamente romani o latini (Petronio, Apollonio, De Castro ecc.) e sono portati da famiglie la cui origine si perde nella notte dei tempi.
7. Basti vedere i seguenti dati, tratti da S. Somogyi, “Alcuni dati statistici sulle popolazioni della Venezia Tridentina e Giulia secondo la lingua d'uso degli abitanti”, in «annali di statistica», serie VIII, vol. II, p. 25. La percentuale della popolazione tedesca nella circoscrizione amministrativa austriaca di Trieste, presenta, negli anni segnati, le seguenti variazioni: 1846: 9,96%; 1857: 7,81%; 1880: 4,27%; 1890: 5,25%; 1900: 5,88%; 1910: 6,21%.
8. Un'ottima definizione del termine, che non è affatto spregiativo, è data da I. Rusinow, Italy's Austrian Heritage, cit., p. 22: «Gli sloveni del Litorale erano una delle nazioni tradizionalmente considerate “non storiche” (unhistorical). In pratica ciò significava che fino alla metà del secolo decimonono questi popoli erano poco consci del loro patrimonio ereditario nazionale e vivevano in una relazione patriarcale con una élite che culturalmente (anche se non razzialmente) rappresentava una nazione "storica", in questo caso predominantemente italiana».
9. Gli sloveni, con capelli di colore biondo-grigio, occhi grigio-azzurri, brachiprosopi, mesocefali o brachicefali, di statura medio-bassa, appartengono ad un ramo della razza baltica; i croati, alti, bruni, con occhi scuri, brachicefali, dolicoprosopi, dolicoscelici, costituiscono un ramo della razza dinarica che si estende, sulla costa adriatica, dall'Albania ad Ancona, con punte verso l'interno, che s'infiltrano fino all'Ungheria.
10. Alcuni sostengono che il rapporto tra le due stirpi fosse esattamente l'opposto ed il dominio fosse degli sloveni sugli avari.
11. Il Cartolare di P. Kandler, cit., pp 59-60, riporta, dal codice diplomatico istriano, l'intero placito del Risano. Per quanto riguarda la questione degli slavi, i romanici dicono: Insuper sclavos super terras nostras posuit: ipsi arant nostras terrai et nostra; runcoras, segoni nostras pradas, pascunt nostra pascua, et de ipsas nostras terras reddunt pensionem Joanni. Il Duca Giovanni, con una certa autocritica, come oggi si dice, risponde, alla presenza dei missi dominici: De sclavis autem unde dicitis accedamus super ipsas terras, ubi resedunt, et videamus, ubi sine vestra damnietate valeant residere, resideant: ubi vero aliquam damnietatem faciunt sive de agris sive de silvis vel de roncora aut ubicumque, nos eos ejiciamus foras. Si vobis placet, ut eos mittamus in talia deserta loca, ubi sine vestro damno valeant commanere, faciant utilitatem in puhlico sicut et caeteros populos. In occasione del placito del Risano venne restituito a Trieste l'antico statuto municipale. Dai Carolingi fu mantenuto in vita anche il numerus tergestinus e fu impiegato a combattere contro i croati. Cecovini, op. cit., p. 24.
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