lunedì 16 ottobre 2023

LA STRAGE DELLA NAVE LINA CAMPANELLA


Era la notte del 20 maggio 1945. Gli jugoslavi spadroneggiavano a Pola da qualche settimana e le carceri erano piene: almeno 500 persone erano rinchiuse in quelle di via dei Martiri. Si trattava di gente comune, italiani arrestati per strada o prelevati da casa.

Poco prima di mezzanotte, dopo una lugubre chiamata, 350 persone si ritrovarono nel cortile attorniate dai mitra dei partigiani: ad ognuno dei prigionieri vennero legate le mani dietro la schiena con il filo di ferro. Passarono due, tre ore finché un capoccia titino, in un italiano approssimativo, annunciò che i prigionieri sarebbero stati spostati a piedi in altro luogo. Li fecero alzare e mettere in fila, poi passarono alle istruzioni: “Dovete fare silenzio, guai a chi parla…. Se uno di voi tenterà di fuggire sarà ammazzato sul posto. Se qualcuno intralcia o resta indietro verrà giustiziato e lasciato sulla strada”… Poi la colonna si mosse, iniziando un lungo cammino, dieci chilometri e più, prima attraverso Pola, immersa nell’oscurità e nella paura. Uscirono dalla città dell’Arena, passarono oltre la ferrovia, entrarono nel bosco di Lisignano ed andarono più in là ancora, finché apparve Fasana. La ricordavano poetica ma quella notte era tetra, immersa nel silenzio.

La colonna raggiunse il porticciolo: molti sanguinavano, alcuni avevano i polsi spezzati dai fili di ferro stretti con cattiveria e rabbia, altri stentavano a reggersi in piedi per le botte subite coi calci di fucile. Qualcuno, rimasto indietro, era stato ammazzato per la strada, come i titini avevano promesso. I prigionieri vennero divisi in tre gruppi e fatti salire in tre diversi viaggi su una piccola nave, la Mont Blanc che fece la spola per imbarcarli sulla Lina Campanella, una vecchia nave cisterna, nera e arrugginita, di cui gli slavi si erano impossessati qualche tempo prima con un’azione piratesca in Adriatico e che li attendeva fuori dal porto.

Finito il trasbordo dei prigionieri, questi ultimi furono messi a sedere tutti assieme sopracoperta, in modo di poter essere sorvegliati a vista. I partigiani piazzarono due mitragliatrici a poppa e due sul ponte di comando, puntandole sul gruppo degli stessi. Loro, silenziosi, attendevano in silenzio di capire dove li avrebbero portati: intanto i miliziani si aggiravano sul ponte, con le armi puntate, in una sorta di eterna ispezione, tra minacce, bestemmie e qualche calcio a chi ingombrava il loro passaggio. 

Terminato l’ultimo giro di controllo, il capo dei partigiani comandò che la nave partisse: la Lina Campanella, scricchiolando e sbuffando, levò le ancore e fece rotta verso sud. Passato Capo Promontore e attraversato il Golfo di Medolino, puntò l’imbocco del Canale dell’Arsia; uno dei prigionieri, che ben conosceva quel tratto di mare, fece appena in tempo a gridare “qui saltiamo sulle mine!” che un enorme boato si udì da sotto la prora. Poi fiamme, fumo, urla. La nave sbandò, la prua ferita si rituffò sulle onde, molti caddero in mare, altri vi si gettarono immaginando una possibilità di fuga.

La mitragliatrice cominciò a sparare mentre il capitano decise, dopo lo scoppio a prua, di allagare due compartimenti stagni per riequilibrare la nave. Alcuni dei partigiani di guardia si buttarono su una scialuppa, sparando a chi cercava di raggiungerla, ma non sapendo calarla a mare, ne finirono travolti e schiacciati con altri prigionieri. 

Mentre il mare brulicava di naufraghi, dalla Mont Blanc, che seguiva a mezzo miglio con a bordo i capi partigiani, si restò a guardare. Un incidente marittimo era buona cosa per giustificare una strage “fortuita” di centinaia di italiani e qualche partigiano morto sarebbe comunque finito nell’albo degli eroi... 

La Campanella però riuscì a rimanere a galla e finì spinta dai motori su un banco sabbioso, mentre centinaia di uomini e donne cercavano di salvarsi lottando tra i flutti contro la morte. Molti annegarono, alcuni raggiunsero la riva a nuoto, altri furono raccolti e salvati da qualche barca di pescatori. Questi umili uomini di mare furono gli unici, accanto solo ad una barca della Società Carbonifera dell’Arsia, ad andare a raccogliere i naufraghi.

I morti della Lina Campanella furono 161 e per chi si salvò il calvario era tutt’altro che finito. A riva li aspettavano i titini, armati, che li arrestarono nuovamente e li portarono, dopo giorni di digiuno e sevizie, nel carcere di Fiume: da lì vennero poi smistati ancora in altre prigioni, uccisi, deportati. Sparirono quasi tutti. 

La nave, pur ferita, fu recuperata e nel 1947, dichiarata “bottino di guerra”, divenne proprietà della Jugoslavia che la conferì alla neo costituita compagnia di navigazione “Jugolinija” di Fiume. Ma, ritenendo la sua riparazione troppo costosa, fu demolita nel 1949 nei cantieri di Spalato.

Tra i pochi superstiti del naufragio della Campanella c’erano Carlo Bacchetta, che scrisse il suo memoriale su quei fatti, conservato all’Ufficio Storico della Marina, ed il commendator Cozza, (quello che aveva gridato “qui saltiamo sulle mine”): non volle mai più parlare di quella tragedia e lasciò scritto: “Affidiamo tutto alla memoria della Patria e di Dio”.


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