Uno degli argomenti polemici impiegati dai separatisti e dai nazionalisti slavi o tirolesi contro l’Italia è quello della presunta italianizzazione dei cognomi che sarebbe avvenuta durante il fascismo. In realtà, la comprensione di ciò che è accaduto necessita, anche in questo caso, di risalire indietro nel tempo sino agli ultimi decenni dell’impero d’Austria.
Il concordato sottoscritto fra Vienna e papato concedeva al clero cattolico diversi privilegi, pagati al prezzo di una subordinazione all’imperatore. Il potere imperiale favorì intenzionalmente l’imposizione di un clero slavo in terre italiane, sapendo che i vescovi ed i sacerdoti sloveni e croati erano abitualmente dei nazionalisti italofobi ed assieme fedeli all’impero, due aspetti collegati fra di loro.
I parroci sloveni e croati cominciarono così sin dal 1866, se non prima, una falsificazione anagrafica che andrà avanti per decenni. Poiché nell’impero asburgico, erroneamente ritenuto un esempio d’ottima amministrazione, i compiti dell’ufficio anagrafe erano ancora delegati ai parroci (secondo una prassi scomparsa da tempo negli altri stati europei), i sacerdoti slavi poterono intraprendere la falsificazione dei registri di battesimo e di matrimonio, con la slavizzazione dei nomi e dei cognomi latini ed italiani.
Scrive in proposito Attilio Tamaro in “Le condizioni degli italiani soggetti all'Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia”, Roma, G. Bertero, 1915:
«Tengono i parroci in Austria i registri dello stato civile. Gli slavi, non curanti delle proteste degli abitanti, forti della protezione del Governo, con cui erano organicamente collegati nell'opera e nel fine, slavizzarono i cognomi nei libri delle nascite, in quelli matrimoníalí ed in quelli delle morti. Il fine era di ottenere dei dati statistici, dei documenti ufficiali che, per una dimostrazione necessaria alla politica del Governo, sembrassero comprovare o la non esistenza o la graduale estinzione dell'italianità.»
L’opera di slavizzazione forzata dei nomi e cognomi italiani ad opera del clero slavo, con la connivenza delle autorità austriache, è documentata minuziosamente nello studio di Alois Lasciac intitolato Erinnerungen aus meiner eamtencarrière in Österreich in den Jahren 1881 – 1918 (Trieste 1939). Il dottor Alois Lasciac, di cui è superfluo segnalare l’origine straniera e non italiana, era stato Vicepresidente della Luogotenenza imperial regia di Trieste e Presidente della Commissione amministrativa del Margraviato (Marca) d’Istria: egli quindi era stato un alto funzionario austriaco dell’amministrazione asburgica.
Durante la sua attività nell’isola di Lussinpiccolo egli poté testimoniare che il clero locale, tutto croato nonostante la popolazione fosse in grande maggioranza italiana, falsificava i nomi e cognomi degli abitanti. Egli dedica un intero capitolo della sua opera proprio a tale argomento: Verstümmelung der Familiennamen in den Pfarrmatriken (Storpiatura dei cognomi nei registri). Lasciac segnala che l’antichissimo uso delle forme latine e venete per designare i nomi e cognomi degli abitanti locali era stato intenzionalmente sovvertito dai sacerdoti croati nei registri delle nascite, i matrimoni, le morti, slavizzando l’onomastica degli Italiani di Lussinpiccolo. Egli, che all’epoca era commissario imperial-regio, impose il ripristino della grafia originaria, al che i nazionalisti Croati risposero facendo ricorso al governo centrale viennese. Lasciac conclude la sua narrazione di questa vicenda dicendo che l’intervento del parlamento di Vienna concesse tolleranza a questa arbitraria modifica dei nomi e cognomi, che negli archivi parrocchiali, aventi nell’impero funzioni d’anagrafe statale, vennero ad essere trasformati in forma slava, in contrasto con la loro esistenza plurisecolare in forma italiana.
Anche nella saggistica più recente questa operazione di slavizzazione forzata è segnalata, come fa, fra altri, Woersdoerfer nella sua opera “Il confine orientale” (Bologna, il Mulino, 2009). Egli ricorda che già sotto il dominio asburgico accadeva che i cognomi fossero arbitrariamente modificati, ad esempio trasformando quelli che terminavano in –ich (di origine latina, italianissimi) in –itsch (germanizzandoli) oppure –ic (slavizzandoli).
Ma furono numerose le pubbliche denunce dell’operato del clero slavo, compiuto con la tolleranza o l’aperto sostegno delle autorità asburgiche. Nel 1877 il deputato istriano al Parlamento di Vienna Francesco Sbisà presentò un’interrogazione denunciando la slavizzazione di nomi e cognomi italiani. Nel 1897 il linguista rovignese Matteo Bartoli parlò di 20.000 nomi modificati, in particolar modo nelle isole di Cherso, Lussino e Veglia, quasi totalmente abitate da italiani. Nel 1905, nel corso di una seduta alla Dieta Istriana, il deputato albonese, avvocato Pietro Ghersa, denunciò, attraverso una vasta documentazione derivante da lunghe ricerche, l'opera del governo che aveva fatto connivenza per la slavizzazione di circa 20.000 cognomi italiani nell'intera provincia istriana. Si noti che le ricerche di Bartoli e Ghersa erano state separate fra loro e che le prime riguardavano principalmente le isole del Carnaro, le seconde invece la penisola istriana, per di più in due periodi differenti. La cifra di 20.000 cognomi italiani slavizzati, segnalata da entrambi, deve quindi essere riferita ad aree per lo più differenti e risultare pertanto inferiore al totale delle sole regioni dell’Istria e del Carnaro.
Si noti comunque che i dati sopra segnalati, riguardanti i cognomi italiani slavizzati a forza in Istria, sono largamente incompleti per questa regione stessa, poiché numerosi altri furono modificati senza essere poi ripristinati nella forma originaria. Inoltre, queste pratiche avvennero anche nelle altre parti della Venezia Giulia, in Dalmazia e, tramite germanizzazione, in Trentino ed in Alto Adige.
Lo stato italiano nel 1918 si trovò così dinanzi alla richiesta di molti nuovi cittadini di poter ripristinare il proprio cognome nella forma originaria, quella italiana. I due decreti emanati anni più tardi erano diretti proprio a sanare un abuso compiuto dalle autorità imperiali in combutta con i nazionalisti tirolesi e slavi. Il primo era il Regio Decreto del 10 gennaio 1926, n. 17, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 11 del 15 gennaio 1926, che concedeva il ripristino della forma italiana dei cognomi germanizzati forzatamente nel Trentino ed in Alto Adige. Il secondo era il Regio Decreto 7 aprile 1927, n. 494, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 22 aprile 1927, che concerneva invece la restituzione della grafia italiana dei cognomi slavizzati nella Venezia Giulia, a Fiume ed in Dalmazia.
Il cognome fu modificato a chi presentò domanda, quindi su base volontaria. I casi di famiglie che si videro cambiato il cognome contro la propria volontà ebbero luogo, ma furono del tutto eccezionali. Infatti, dopo la seconda guerra mondiale fu nuovamente concesso, a chi lo volesse, di riportare il proprio cognome alla grafia anteriore al 1918: eppure, pochissimi si avvalsero di questa possibilità, a dimostrazione del fatto che (tranne un numero davvero limitato di abusi) i cambiamenti nell’onomastica avvenuti negli anni ’20 e ’30 furono volontari e rivolti a sanare lo stravolgimento, esso sì frutto di coercizione, accaduto sotto l’impero d’Austria.
Avvenne pertanto con l’onomastica quanto successe con la toponomastica. La famosa operazione promossa da Ettore Tolomei per i toponimi dell’Alto Adige si limitò, nel 90 % dei casi, a riportare in auge forme italiane o latine che erano state cancellate durante la dominazione austriaca, limitandosi quindi ad un ripristino della toponomastica originaria ovvero anteriore alla germanizzazione forzata.
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