Così era ridotto Portole d'Istria, un piccolo comune all'interno dell'Istria settentrionale, ancora nel 1998, cinquant'anni dopo l'esodo. Cinquant'anni dopo!
Dalla brulicante vita italiana alla desolazione. Dalla vita alla morte.
E i tanto sbandierati slavi autoctoni lì presenti da mille anni dov'eran finiti?
La bella Istria divenne desolata quando divenne slava. Prima, sotto gli austriaci, almeno c'erano gli italiani, i Veneti-italiani che si ribellavano e cercavano di reagire fin dai tempi del Risorgimento. Dunque era viva. Era ben viva quando il patriota istriano Carlo Combi scrisse, nel 1866, il suo appassionato “Appello degli Istriani all'Italia”. A quel tempo gli sforzi e i sacrifici erano infatti tutti concentrati contro l'Austria, il pericolo slavo restando sullo sfondo, non ancora messo a fuoco. E mai e poi mai gli Istriani di allora avrebbero immaginato che un giorno l'Istria sarebbe potuta diventare slava e su quelle terre si sarebbero consumati tanti atroci delitti contro gli italiani per mano slava, un'unghiata mano venuta da fuori, naturalmente.
La bella Istria con gli slavi perse i suoi colori, i suoi profumi, la sua stessa essenza, per divenire cosa morta, un'insensatezza, una contraddizione in termini, una rinnegazione vivente: desolata come un guscio vuoto, come una spiaggia abbandonata sferzata di pioggia, come una terrazza disabitata percorsa da un vento gelido, come una strada buia oberata di nebbia, come un cimitero senza fiori popolato di fantasmi.
È uscito recentemente un libro intitolato “Bora”, scritto da due donne istriane, Anna Maria Mori e Nelida Milani, la prima fuggita in Italia come la stragrande maggioranza degli italiani, l'altra rimasta in quell'affliggente rovina. La nonna non aveva voluto scappare, si può capire, per i vecchi il cambiamento costituiva un doppio strazio, una doppia devastazione dell'anima, non tutti ce la facevano.
All'origine di ambedue la medesima tragedia di un popolo e di un territorio, anzi di una nazione, l'Italia, ma delle due quella che mastica tuttora dolorosamente dentro di sé più rabbia, rivalsa e sordo rancore, più tormento e dibattimento, è inaspettatamente quella rimasta, proprio perchè è stata più repressa e compressa: dalla paura, dall'impotenza, dalle angherie degli usurpatori in agguato dietro la sua porta e talvolta entrati dentro casa a minacciare, addirittura in sfrontata e arrogante attesa sul marciapiede che si liberassero le case degli italiani per occuparle. Venuti da fuori, naturalmente: da altrove. Altro che Istria da sempre slava.
Occorrerà aspettare forse un secolo perché certe verità vengano a galla? A parer mio non verranno mai a galla, soprattutto nelle miserevoli condizioni in cui versiamo. Infatti, nonostante l'istituzione del giorno del ricordo, a cui invero ben pochi partecipano, troppo forte e radicato da troppi decenni è il mainstream detentore del monopolio mediatico, della cultura a senso unico nelle scuole e nelle università, l'opposizione essendo poco meno che nulla, lo abbiamo visto in questi ultimi tempi e lo vediamo in questi giorni in cui pian piano ci stanno conducendo all'idea, in sé stessa inaccettabile, della terza guerra mondiale, come nulla fosse, come fosse un dovere per tutti noi morire per qualcosa che non sia l'Italia.
Ebbene, dalla bocca di Nelida Milani, la rimasta, viene fuori il terrificante racconto di ciò che subì suo zio Aurelio ad opera dei “liberatori”, così li chiama lei: “Fu arrestato sul sagrato della chiesa e portato al comando slavo di Pola insieme ad altri civili e militari italiani. Fu rinchiuso in una cella di 3 metri per 4 con una trentina di altri prigionieri, stretti come sardine, boccheggianti per la mancanza d’aria e tutti con le mani legate dietro la schiena col fil di ferro. Li avevano legati così fin dall’inizio e non li avrebbero mai liberati, nemmeno durante le torture. Morivano di sete e solo dopo molte imploranti richieste un militare diede loro un fiasco di urina. […] L’unica colpa che avevano era di essere italiani.” “Prima li hanno conciati per le feste, torturati per tutta la notte.” (p. 119)
In quanto alle foibe su cui la congrega dei mascalzoni spicca ironie più o meno velate nelle sue concioni tra amici, conoscenti e pigmalioni, ammantando le sue fesserie di serietà storica, la Milani riferisce ciò che anche un bambino capirebbe: “Ma da sempre gli abitanti dei dintorni li conoscevano, anche se non ne avevano mai parlato con nessuno. I contadini li avevano individuati subito, uno per uno, a causa dei lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose. Raccontarono che a lungo avevano sentito provenire dalle viscere della terra richiami e invocazioni d’aiuto, i gemiti della troppo lunga agonia di coloro che erano rimasti vivi e anelavano ancora alla vita pur nel terrore della fine certa, terrore che si concludeva con il rantolo della morte.” (p. 118) Il che tradotto in termini generali significa che la gente del posto sapeva e vedeva eccome, vedeva tutto o quasi, ma non poteva parlare sennò faceva la stessa fine degli infoibati. E mentre le nostre due maggiori attrici di cinema, sospinte dalla beata ignoranza generale (e l'ignoranza è sempre beata proprio perchè ignorante), andavano a omaggiare il satrapo di Belgrado e consorte, l'una cucinandogli gli spaghetti, l'altra lusingando la sua ben nota vanità con servizi fotografici e amabili conversari, le angherie contro gli italiani -quelli rimasti come Nelida Milani- si sprecavano, protraendosi ben oltre gli anni quaranta. Per non parlare di coloro che erano chiusi nei campi di concentramento jugoslavi dove la parola concentramento è un eufemismo.
È una storia tutta da scrivere quella dei rimasti, soltanto una minoranza dei quali lo fece perchè credeva o sperava nel comunismo, e anche tra coloro che inizialmente rimasero annebbiati e infatuati dal suo diabolico fumo, molti si pentirono, ma era troppo tardi. Numerosi furono i suicidi, al termine di situazioni insostenibili, quali le persecuzioni della polizia sempre dietro l'angolo, le spie dell'Ozna annidate ovunque, incarcerazioni per nulla, arresti improvvisi cui facevano seguito segregazioni in buie celle senza finestre per giorni interi senza sapere perchè, magari per aver detto una frase sbagliata, un no al posto di un sì, un sì al posto di un no, o per aver insistito a parlare italiano o aver azzardato una critica. Ricavo ciò da un libro interessante e prodigo di notizie di molti anni fa: “Fratelli d'Istria” di Guido Rumici, da cui ho tratto anche la fotografia scattata da lui stesso. E' un libro che si concentra proprio sui rimasti, anche loro vittime di una tragedia nella tragedia, diventati stranieri in casa propria, estraniati a forza da sé stessi e dalle proprie radici, nonostante lo sbracciarsi di coloro che, chiamateli collaborazionisti o con altro nome più incisivo, volevano convincerli e convincersi che si stava bene in quella Jugoslavia dove tutto scarseggiava tranne i ritratti del dittatore, si stava bene a essere-non essere, né italiani né slavi, a meno non si decidesse di esser solo slavi come non pochi infine decisero per forza di cose, perchè sennò nella migliore delle ipotesi perdevano il lavoro.
Il mio non è che un modesto spunto, s'intende, per ulteriori riflessioni, sempre amare, su questa tragedia di cui non si vede mai la fine, e in cui sempre nuovi tasselli si aggiungono a un mosaico storico sconosciuto perchè volutamente lasciato immerso nell'ombra dove “occhio non vede cuore non duole”.
— Maria Cipriano
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