lunedì 16 ottobre 2023

In lode di Nazario Sauro – Antonio Palin, 1918.

Mentre la guerra immane travolge il mondo con veste di fiamma, quando sotto il suo soffio possente gli uomini curvano il capo, tale che sembri oscillare o spegnersi la lampada della nostra fede, giova di certo rievocare a conforto e ad ammoni mento gli spiriti di coloro che brandirono alta la fiaccola fin sul patibolo.

Or è un anno, forse sul clivo Capitolino, forse sul San Michele, da dove Dante serutò con gli occhi profondi la gran distesa sepolcrale e pose il Quarnero a limite di nostra gente, forse su altro romano rudero di Pola si rizzava il legno, dal quale doveva pendere Nazario Sauro. E ai suoi piedi stava la madre dolorosa.

Ancora una volta adunque un martire vedeva dall'alto della croce il cielo aperto, ancora una volta era necessario che il pallido fiore dell'idea s'inaffiasse di lagrime e di sangue.

Poichè Sauro mi fu condiscepolo nella giovinezza, spesso compagno di navigazione nell'adolescenza e amico nell'ultima vigilia d'armi, sia lecito a me oggi, nel triste anniversario, rievocare la sua grande anima semplice di sognatore e di eroe.

Se il passato è radice del divenire, se nel seme esiguo della ghianda sta l'immensità della quercia, nella terra dov'egli sta confitto con radici profonde, nella gente con la quale ha comune il sangue e lo spirito e nel tempo che vide svolgersi e spegnersi la sua breve vita giovine, si deve ricercare la completa significazione dell'uomo che oggi da noi si commemora.


Istria nobilissima, 


dolce ninfea affiorante sull'onde, scudo e fortezza protesa sul mare a guardia di nostra gente, madre ubertosa di vini, di ulivi, di biade e d'eroi, figlia primogenita di Roma, sorella di Venezia, o sposa del mare, con reverenza e amore di figlio, io qui t'invoco e saluto, qui nell'Urbe, da dove un giorno spiccarono il volo l'aquile romane a rapirti per aggiungere alla corona imperiale la gemma più preziosa. Noi, figli strappati al tuo grembo, o Madre, portiamo nel petto la tua anima dolorante e negli occhi la tua grande bellezza...

E tutto di te ricordiamo: i tre golfi verso maestrale, quasi conchiglie trascoloranti, con nel grembo ognuna la perla: Muggia, Capodistria, Pirano. In alto, più addentro, appollaiate sui colli, vegliano le tre scolte: Buie, Montona, Pinguente, coronata di torri. Vegliano le tre scolte acchè il minaccioso torrente schiavone non trabocchi da Borea a mare giù per val di Risano, di Sicciole e del Quieto. Ecco da punta di Salvore, verso mezzogiorno, fino al promontorio estremo staccarsi la verde collana di città, di porti e di isole: Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola. Sempre in alto, su cime digradanti le scolte vigili Pisino, Canfanaro, Gimino, S. Vincenti e Dignano. Il vento di levante reca ai navigatori il profumo del timo: accenna, or si or no, tra gli ulivi e sul giallo delle mura merlate, il lauro e il cipresso. Leoni veneti guatano con occhi umani, il libro aperto tra le zanne: par tibi, Marce, evangelista meus. Agili campanili bianchi si lancian nell'azzurro. Grave di secoli e di romanità l'Arena di Pola apre sul mare il triplice giro dei grandi occhi, accanto all'arco dei Sergi che profila le sue sagome perfette per i modelli di Michelangelo.


Il tempio d'Augusto, saldo ancora sul marmo delle colonne, attende che un pontefice lo riconsacri a Roma immortale. Attorno a Pietas Iulia, edificata da un imperatore alla bellezza di una donna, ecco l'agro romano, tutto rovine, sepolcri e ipogei.

Il boaro che vi passa con l'aratro sente alitarsi in volto su dai solchi aperti lo spirito degli avi romani. Qui nell'angolo più bello d'Italia, nella decima regio italica» riparava agli ozi e alla pace l'opulenza di Roma.

Ma già mormora capo e profondo il Quarnero, pieno d'insidie e di minacce. Vi s'affacciano Albona e Fianona pronte a ributtare gli scocchi al mare e gli imperiali al monte. Assiepate di mirti e di lauri ecco Laurana, Volosca e Apriano inonnondar di profumi col vento di ponente la vecchia sorella Fiume, ultima scolta del «limes italicus tracciato da Roma sulla Tarsia.


Alto nei cieli il Monte Maggiore prospetta la sua maestà sui due golfi e sui due mari.

Oltre il canale di Faresina spiccano il breve volo le aquile di Cherso appostando gli aironi migranti dalla costa vicina, e di fronte alla minaccia del Velebit e delle Dinariche le altre absirtidi, Cherso, Veglia, Arbe e Lussino si stringono a coorte, come sorelle trepidanti: chè il vento dell'ostro porta sovente i gemiti della dalmata Suora dolorante, che si dibatte con le mani e con l'anima protese verso la Madre d'occidente.

I miti e le storie narran di popoli vaganti dall'Indo al l'Atlantico e soffermati nel lungo cammino sulle sponde ridenti, nel cuore dell'Adria. E passaron forse i biondi Celti, i Veneti giganteschi, i Traci aspri e rapaci. Il manto purpureo della tragedia avvolge l'ultimo re. Sconfitta Roma, nell'ebrezza della vittoria e del dolce vino della sua terra, è sorpreso e travolto. Ma il re degli Istri non s'arrende. Assieme al suo popolo ribelle egli muore con la libertà della patria. Dalle mura crollanti di Nesazio gitta le donne ed i fanciulli trucidati e nel rogo ardente in di se stesso la fiaccola più grande. Poco discoste, le sorelle minori, Faveria e Mutila si struggono dello stesso ardore. Pie as Iulia non è sorta ancora nel golfo lunato per i vezzi della bella Cenide.

Passano quindi per il mare e sulla terra con traccia indelebile i segni di Roma, eretti alla potenza e alla bellezza, sull'estrema propagine della stirpe. Tra il verde dei colli e nel sole delle spiagge sorgono le città e le castella dell'Istria. Solcan la terra rossa i grandi bovi istriani e ne germoglia il dolce vino di rose, l'olio profumato, le bionde spighe del grano. Boschi immensi danno il legno tenace per impalcature e madieri: le cave racchiudon pietra più bianca e più soda del marmo.

Corrono il mare le vele latine a portare sui mercati del mondo le ricchezze della terra, e dal fecondo connubio della vanga e della vela si rinsalda il giusto e perpetuo dominio sull'Adria. Per Cassiodoro «Questa terra è bella così da formare a ornamento d'Italia».

Ma la gran quercia romana si stronda e stramiazza grave di secoli e di peccati. Sul mare nostrum affacciano Germani e Slavi. 


«Conturbor quia per Histriae aditum jam in Italiam intrare corperant».

Datti animo, o melanconico papa Gregorio, la porta Orientale è ben custodita. Palpitano già nell'aure di maggio sulla piana del Risano i vessilli delle città e delle castella istriane coi sacri gonfaloni delle chiese; per le valli e sul mare vicino, al cospetto del franco Duca Giovanni, risuonerà la più bella protesta «Italica del jus romanum» contro il feudalesimo degli Unni e la barbarie degli Slavi: «nos cos ciciamus foras».

Ma già mette zanne ed artigli il leone di S. Marco. I dugento remi del Bucintoro battono l'onde dell'Adria e il Doge in segno di giusto e perpetuo dominios, getta l'anello nel mare. La Dominante spinge le sue galere nei cento porti istriani e le navi onerarie portano alla nuova regina il pingue tributo.

Pronte all'agguato stanno le agili navi corsare degli schiavoni Uscocchi, per correre all'arrembo e al sacco, Albona ributta gli assalitori e il suo Giovan Battista Negri ne mena strage terribile. A Fianona Gaspare Calavani è preso e scorticato vivo. E poiché nello strazio el grida viva S. Marco, l'uscocco carnefice gli mangia il cuore.


Anche l'aquila bicipite scende dal monte coi primi voli.

Grifagna e rapace: la preda è così bella. Ma Orazio Scampicchio, tra Albona e Fianona, alto nel pugno il gonfalone di San Marco, le rompe l'ali sui campidi Chersano e la fa starnazzare al monte. Il malo uccello si rimpiatta allora a picco sulla Foiba, attendendo paziente l'ora della grande rapina. Quando la Dominante, sazia d'ozio e di carnevali, scende ignava giù per l'abisso, invano l'Istria le offre sempre navi, ciurme e tesori.

Anche il suo destino è ormai stretto dall'esile man giovine del pallido Corso che le riversa sul corpo vizzo l'onta di Campoformio. 

Non invano ha atteso sul castello di Pisino l'aquila bicipite. Ella stende al volo le grandi all, sì che l'ombra sinistra ricopre la terra e il mare. E cantan tuttavia le donne al sole per le spiagge istriane:


«Viva S. Marco e viva i Veneziani, viva Santa Maria della salute».


Gli uomini corrucciati ripongon sotto gli altari il gonfalone veneto, aspettando che qualcuno lo rilevi, quando che sia.


E l'attesa fu lunga assai. 


Gli avi nostri, l'occhio fisso verso occidente, spiavano se dal mare lontano sorgessero sagome di navi e di bandiere conosciute.


Sì, venne un giorno alfine, in cui il vento dall'ostro portò dalle rive un lontano fragore. Era di luglio e i naviganti d'Istria, quelli che l'Ammiraglio austriaco, salpando da Pola non aveva portati sulle sue navi di legno, susurravan col cuore alla gola, sulla battaglia imminente. Avevan visto tutte e due le armate e sebbene su quella d'Austria le ciurme fossero di gente d'Istria e di Dalmazia, sebbene stessero di fronte figli dello stesso mare e della stessa razza, la vittoria non poteva arridere che al naviglio più formidabile. Ma venne l'annunzio sull'ali della vergogna.

Il mare aveva cangiato il suo colore, la terra il suo sapore. Da quel giorno comincia il calvario di nostra gente. Sulle doline del Carso, giù dalle cime del Velebit e delle Dinariche s'inturgidisce minacciosa la marea barbara a investire le città trepidanti e sole lungo la costa. Le scolte avanzate nell'interno sentono la violenza dei primi frangenti: «Forza San Marco! forza San Zorzi, forza, per Dio e per tutti i Santi veneti!» Tutto non è ancora perduto, si muniscon gli spalti, s'apprestan catapulte e feritoie... «Zivjo» urlan gli slavi dagli altipiani: «A mare gli italiani, gli italiani a morte ». 

«Eljen» urlan gli ungheresi dalla altura di Fiume. «Tengerre, magyar», «Al mare, o magiaro».


«Zivjo» gridano ancor i cavalieri serbi battendo con le sciabole l'onde dell'Adria. 


L'aquila bicipite guata incitando e colpendo col rostro e coll'artiglio i difensori. Nei cantieri che la sapienza delle nostre maestranze fan risorgere a Trieste, a Muggia, a Pola, a Fiume si costruiscon le navi per la battaglia e per la navigazione alla conquista della potenza imperiale. Tutta la costa si fa irta di cannoni e tutte le strade s'avviano ad alimentare i centri di guerra e si subordinano all'arte strategica. Si fucina la rete lucente per la difesa dedalea e lo sperone acuto per l'offesa formidabile contro il nemico sull'altra sponda. Ma ogni segno del passato, ogni vestigio di nostra gente deve sparire. E lavorano gli scalpelli a scheggiare dalle facciate dei palazzi le tavole di Roma e i Leoni di San Marco. Si trafugano o bruciano le tele che han segnato l'onta dell'impero a Salvore, la Legnano dell'Istria sul mare. 

Si stracciano le pergamene antiche e nuove che contengono le forme spirituali della razza. E poiché l'idioma è il più puro che risuoni su labbro veneto, si tenta corromperlo e strozzarlo.

Ma come nella preistoria d'Istria per le vette dei colli, dal Castelliere degli Elleri, di faccis a Giustinopoli, giù, giù fino a punta di Promontore ardevano i fuochi in lunga teoria, a segno di vigilanza contro i nemici, così ora lo spirito della nazione fiammeggia da uno stremo all'altro a sommo delle torri e delle anime.


Le coscienze si temprano nella lotta diuturna, aspira, diseguale. E quando dalla capitale giunge per la prima volta al popolo d'Istria la lusinga di mandare chi presenti all'imperatore l'ossequio sudditale, l'assemblea, con gesto epico, risponde: «NESSUNO».


Ai vecchi nemici se ne aggiungono nuovi, pieni di scherno e di veleno: e se alcuno di noi volge lo sguardo verso occidente, invocando dalla terra o dal mare il liberatore, sente l'ambascia della solitudine e dell'abbandono.

Sembra che tra noi e la madre ci sia il deserto: sembra che tra le due sponde il mare sia tramutato in una lama di ghiaccio; invece dell'Adria c'è l'Antenora.

E tuttavia non disperiamo. Sfiniti dalla lotta, sanguinanti per le ferite, noi portiamo nel cuore una fiamma che non può morire che con noi. Sappiamo che sopra la volontà degli uomini si svolge l'ordine superiore, la trama misteriosa della storia.


Il gran fiume degli avvenimenti si può avvicinare e correggere, ma nelle grandi direzioni, nell'economia del mondo, essi segue il suo corso con logica irrefrenabile. Prima o poi, i nodi insolubili con la sapienza si recidono con la spada.


Certo per chi vive racchiuso in ammuito studio avvocatile o in qualche angiporto parlamentare è facile fessere ambagi e sproloqui politici, tagliando a cuore leggero la veste dei martiri gettandovi i dadi della sorte. Per quello il destino di un popolo non è che lo spostamento a settentrione o a meriggio, a oriente o a occidente della striscia colorata che marca il confine sui morti brani di una carta murale.

Ma chi ha combattuto sugli spalti fino all'ultimo per la propria libertà con la faccia nel vento dell'uragano, chi ha sofferto l'ansia dell'attesa nella lunga vigilia d'armi, sente il distacco come lacerazione di carne viva. E perciò quando l'ora fatale portò l'attimo decisivo della liberazione, gli uomini di buona fede gridarono commossi: «arrestati, o momento, sel bello!»

Che se l'aquila bicipite dovesse ancora stendere l'ombra torbida delle sue ali sul golfo di Venezia, meglio si levi il mare a sommergere gli uomini e la terra per sempre.


Storia d'Istria, adunque, è storia di Roma e di Venezia. Nella pietra o nel metallo sulla faccia delle case e degli uomini, impronta di rostro romano e di artiglio veneto. Questa terra e questa gente diede il sangue e lo spirito a Sauro.

La sua giovinezza è il fiore da cui si formerà il frutto maturo, e l'aurora delicata a cui seguirà il giorno fiammeggiante. Certo la sua è pianta di gente aspra e rude, nutrita di sole e di salsedine. Egli ha nel sangue il ritmo delle onde, nel petto l'ampio respiro oceanico, nello spirito la vastità degli orizzonti marini. Mal sopporta quindi la ferula del pedagogo nell'angustia della scuola. Dalle finestre aperte sul mare ei vede nel bel golfo giustinopolitano vele rosse, spiegate in croce come farfalle, bianche vele latine, come grandi ali a fior d'onda. Una brama nostalgica lo spinge all'azione. E tende l'orecchio alla Storia e alla leggenda per cui è famosa la sua città natale. Queste gli raccontano: «Giustinopoli ha il suo Fieramosca e suo Pietro Micca: ha guerrieri e artisti, navigatori e scienziati, uomini di toga e di spada. E la loro fama passa l'ombra del campanile»,


Santo Gavardo, cavaliere di re Ladislao di Napoli, insultato da Rossetto da Capua come barbaro istriano, lo sfida a singolar tenzone e lo vince tra gli applausi e gli onori della corte.

Biagio Zuliani, capitano del castello di S. Teodoro a Canea, prima di arrendersi ai Turchi irrompenti, da fuoco alle polveri e travolge se medesimo coi Veneziani e coi Turchi nella stessa rovina. Gli narra ancora la storia che nella battaglia di Lepanto il sopraccomito Domenico del Tacco guida la Econa con mazza di Capodistria, e vede nel palazzo del concittadino illustre il fanale strappato alla nave turchesca arrembata.


Sente che Lucrezio Grarisi, solo sopra la galera di Cristoforo Veniero, sfida gli Uscocchi e li mette in fuga. Sa infine che per la grande sapienza dei due Vergeri, di Girolamo Muzio e di Gian Rinaldo Carli, per la squisita grazia del Carpaccio, la sua città si chiama l'Atene dell'Istria.


Però egli ha un modo tutto proprio di leggere le cose e di assimilare le forme. Egli non vuol vedere che coi suoi chlari occhi infantili, plasmare la sua anima al suo grande sogno. E non è, come altri disse, senza averlo mai conosciuto, uomo di mezzana coltura nè gli mancano particolari doti d'ingegno. Delle cose e delle idee, della coltura e della lingua egli ha una concezione sua propria, originale. Sfronda tutto ciò che gli sembra falso, accademico, inutile: sorvola le oscurità e assimila soltanto la sostanza e il midollo.

E dalla Storia apprende i corsi e i ricorsi della potenza dei popoli: come si acquistano gli imperi, come si mantengono e come si perdono. Dalla figurazione della terra egli legge le grandi vie segnate agli uomini per la conquista del dominio.

Ma più in particolare egli sa che l'Adria è stata sempre il liquido ponte fra l'Oriente e l'Occidente, la via dei grandi mercati, la chiave della potenza mediterranea, il crogiolo dove ribollirono i germi di civiltà diverse. Nel cuore di questo golfo sta la sua terra, che all'intensità del movimento culturale e politico di questo mare ha dato il ritmo fondamentale.


E Sauro, fin dalla prima giovinezza è invaso da un grande sogno, da una fede ardente, da una speranza incrollabile in una realtà stupenda.

E tale sogno, egli lo va materiando con lenta tenacia e vi sottomette i suoi sentimenti, gl'impulsi, le energie, tutta la sua vita. Esso sta a sommo della sua anima come la schiuma sta a vertice dell'onda.


Sul mare sta la sorte della sua patria asservita, dal mare sarebbe venuto il liberatore, al quale si deve preparare la via. Egli sente però l'anima del precursore, l'ardore dell'antesignano. E come altri si temprò e si purificò per la missione nella solitudine del deserto, così Sauro mette se per l'ampio mare. Naviga giovanetto con la vela che tempra il cuore e i tendini e impenna l'ali al sogno. Corre per il mare nostrum nel viaggio che Dante immagina compiuto in folle volo dal vecchio Ulisse e che per Sauro ha avuto sempre una potenza di suggestione e di fascino meravigliosa. Passa quindi tra Ceuta e Siviglia e sente l'ampio respiro oceanico.

Ma egli porta con sé la sua libera anima piena di nostalgie che mal risuona tra la rude volgarità della ciurma con la quale va navigando.

Son le Sirene della sua terra che lo invitano a ritornare e al dolce canto non sa resistere a lungo. 

Troppo lontano lo ha portato l'oceano e in più breve spazio egli vuol tendere la trama della sua vita giovine. L'Adria ha il giusto ritmo per il suo sangue, il vero colore per le sue pupille, il respiro che risponde al suo petto. In questa conchiglia esigua s'è sviluppata la perla della sua anima.


E ritornando però egli vede l'ombra dell'aquila bicipite stendersi più torbida e più sinistra sul suo mare. Corron veloci fra l'una e l'altra sponda le navi dell'Impero, superbe per lusso e grandezza, mentre, or si or no, spuntano sull'orizzonte pavide e meschine le navi d'Italia.


Vede navigatori di Chioggia, solerti e industri formiche del mare, i soli che rappresentino nell'antico golfo italico la meravigliosa tenacia marinara di nostra gente, avviliti, scherniti, accoltellati nella caccia che si dà all'italiano sull'altra sponda, pur all'ombra del tricolore.

Sente le voci di sfida spavalda dell'austriaco Flottenverein che, nel viaggio rituale sulle coste dalmate, fa deviare la nave verso l'acque di Lisa a celebrarvi la vittoria passata e a ben augurare per quella veniente.


Verrà un giorno il liberatore a scancellare l'orrenda contaminazione? Egli spera e a questa fede dà in olocausto tutto il suo avvenire.


E comincia a preparare la via con ardore inestinguibile. Fruga da sommo ad imo tutte le acque del golfo, dai banchi sabbiosi di Grado alle tortuose profondità della Dalmazia. Egli sa che le carte marine del nemico sono false di proposito e però non si dà pace finché non abbia portato all'Ammiraglio d'Italia le misure sondate con proprie mani. I profili delle coste, i punti di riferimento, la posizione del fari, il linguaggio dei segnall, la direzione delle correnti, il capriccio dei venti, le sagome delle navi, le profondità dei golfi, delle rade, dei porti, tutta insomma la trama insidiosa, tessuta dagli uomini e dalla natura a difesa dell'altra sponda egli conosce e svela.


Spesso lo affascina il desiderio di congiure e concepisce macchinazioni che san di follia: far saltare le navi austriache di stazione nei porti e strappare all'ancora qualche torpediniera per trascinarla in porto italiano: fare, agire egli vuole pur di turbare il sonno a chi dovrebbe vigilare sull'altra sponda. E quando l'atto non sia vano, issa la bandiera d'Italia sulla sua nave, perché l'austriaca per lui non è bandiera di mare.


Con l'occhio acuto di chi ha scrutato a lungo i vasti orizzonti egli vede ciò che i politici non videro che tardi e male. E dirà la Storia che quando i Mirditi ei Malissori di Albanis erano ancora nel regno delle favole, Sauro, che ben conosceva le antiche e le nuove vie della ricchezza e della potenza, approdava nei loro parti, correva per le loro pianure, saliva le loro montagne a diffondersi il timore e l'amore per l'Italia. Egli ben sapeva allora nel fondo di che mare eran sepolte le chiavi del golfo di Venezia e soleva strapparle agli artigli dell'aquila vigile per darle al leone dormente.


Ogni suo pensiero ha una luce, ogni suo atteggiamento ha un significato, ogni sua azione ha un simbolo. E tutto però egli riveste di una semplicità scherzosa da fanciullo. Per maggiore schiettezza e per dare viva espressione al sentimento a quel modo che ditta dentro egli parla e scrive il suo dialetto fresco e colorito: quel dialetto istriano che Dante noverò fra i quattordici d'Italia e al quale l'onda dell'idioma virgiliano ha raddolcito la originaria rozzezza e, più tardi, Venezia ha prestato la duttilità degli ambagi diplomatici, la gravità dei decreti senatoriali, l'imperiosa sonorità del comando navale, l'iridescente leggerezza del decadimento.


Inoltre quello è il dialetto del mare adriatico che l'Austria ha tentato di sostituire nella manovra navale con i barbari idiomi della Babele imperiale. Ma invano: le vele non portano, il timone non poggia alla banda, le gomene non scorrono, le ghinde e le drizze non si tendono, la nave sta per inalissarsi nell'uragano, Allora il vecchio idioma di San Marco comple l'incantesimo: chè il mare e la nave per secoli hanno obbedito alla sua sola voce imperiosa. 

Tale e non altro può essere il vernacolo di Sauro.

Come tutte le anime pervaso da fede profonda egli ha l'istinto e l'amore per il rito e per gli oggetti che gli ricordino sensibilmente il suo fantasma sacro. Nell'intimità della sua camera egli conserva un ramo di

pino colto presso il capanno dove morì Anita Garibaldi. E quando il capanno brucia egli vi accorre addolorato, come un sacerdote a cui sia distrutto il suo tempio. 

Così l'Eroe del mare s'accosta all'Eroe della terra con un gesto che l'epopea futura certamente farà eterno...

Egli raccatta poi con mano tremante e conserva come sacra reliquia il fiammifero che ha acceso la lampada votiva offerta da Trieste a Dante nella tomba di Ravenna.

Quella piccola face egli l'aggiunge alla grande fiaccola che dovrà accendere luminosa nel giorno futuro. Dopo le estenuanti peregrinazioni sul mare, rientra in porto, ma non si dà pace.


Egli sente la febbre della vigilia e s'accorge che ogni giorno in ozio sarebbe perduto irreparabilmente. Intorno a sé quindi educa e plasma a sua immagine una schiera di giovani, nei quali infonde il suo fuoco animatore. Saranno quelli i futuri commilitoni che insieme a lui apriranno al liberatore le vie della terra, del mare e del cielo.


Insegna loro l'aspra disciplina del corpo che si deve temprare per la lotta mortale e quella più aspra ancora dell'anima che deve apprestarsi alla gloria immortale.


E i giovani lo seguono e ne sentono il fascino, Ogni uomo ha intorno a sé un'atmosfera dove compone il ritmo dei movimenti, l'onda dei suoni. In gamma dei colori che lo fanno diverso da tutti gli altri, creando il vario valore della persona.


Ma la figura di Sauro emana un fascino veramente straordinario. Essa è come avvolta da una trama Iucente, tale che la sua vicinanza intona alla calma e alla gioia, ricompone lo spirito all'armonia con sé e col mondo. La sua parola erompe dalla bocca sana come un'onda fresca e rinsalda subito la fede vacillante dei dubbiosi. Sembra che passi il vento di mare. Per questo i giovani lo seguono sempre, e gli adulti vacillanti amano stargli vicino. Ma oltre ogni spirito di fazione particolare e piccina egli guarda alla meta luminosa. Così vivendo, con umiltà e purezza disdegnosa, nel sacrifizio diuturno e oscuro della sua energia vitale, questo popolano non conosce di certo il lustro né le prebende dei politici illustri. Il suo nome, come altri disse, è oscuro e non è scritto in alcun libro.

È vero: prima era scolpito solo nel cuore del giovani e de puri: ora sta scritto a lettere d'oro nel libro degli Immortali. 

Il giorno che sull'Europa divampano i primi bagliori sanguigni egli passa subito il mare.

Certo è questa la rosa aurora del gran giorno: nel cielo tutti i segni forieri sono augurali. E trascina con sé i suoi giovani e li prepara a morire. 

Chi sono costoro?


Umili eroi di cuore ardente ma con le tasche vuote. Accanto a loro, adesso e sempre, i politici passano con lo sguardo della compassione, talvolta del disdegno.

Gli eroi sono belli dopo morti e offrono trama feconda a discorsi sonanti. Più grande è la caterva dei loro cadaveri e più alta batte l'ala dell'orazione. Gli argomenti stanno in ragione dei patiboli. Ma guai all'eroe vivo, sprovvisto di viatico per il suo viaggio doloroso. Niuno darebbe un soldo al vagabondo.

«Ah, morire è niente, anzi è bello morire», scrive Sauro a un amico nell'accoramento dell'attesa, «ma combattere questa guerra è duro assai».

E la guerra più dura è quella piena di silenzio, avvelenata di dubbio, abbrutita di scherno. 

Dovunque porte di bronzo serrate, inaccessibili.

Poichè l'onta sale fino a soffocarlo, egli pensa di morire coi suoi giovani in qualche impresa disperata: sbarcare sull'altra sponda, passare il confine o combattere in terra di Francia. Ma la fede, oscurata per un istante, risfavilla ancora ed egli resta e attende...

Sulle rovine di Avezzano, industre e multiforme come Ulisse, porta la freschezza del suo spirito, la bontà del suo cuore e la robustezza del suo braccio. E doveva giungere alfine la primavera italica e portare: sull'aure di maggio la grande novella: 

l'Italia, la bella dormente s'è risvegliata, pronta a segnare nel granito dei secoli il suo destino con la spada.

L'Eroe cinge l'armatura e con gesto semplice addita alla sua schiera le tre vie della morte: la terra, il mare e il cielo. 

Egli sceglie quella del suo elemento e parte verso l'insidia oscura nella lotta senza gesto e senza colore, per il duello. Tra le tenebre della notte negli abissi del mare. Non più bandiere palpitanti al vento, non più armi sfavillanti al sole, non più il grido della battaglia: «Iddio salvi l'Ammiraglio». 

Le forme si sono irrigidite nella macchina, i colori sono impalliditi nella tenebra dell'intrico sotterraneo e subacqueo. E i tendini e le fibre umane debbono foggiarsi nella tempra del metallo non per l'audacia dell'arrembo o per l'impeto dell'assalto ma per l'attesa paziente e per il maneggio di un sottile intrico meccanico. E anche per questo è foggiata la sua carne ed il suo spirito.


E nei giorni di caccia, affiorando la superficie, egli vede alti nel cielo gli aquilotti istriani fare buona guardia. Ernesto Grammaticopulo, il discepolo prediletto, il più giovane e il più ardito di tutti, precede la schiera e avvolge in larghe spire Il dolce nido materno nel bel golfo giustinopolitano.


Lontano, sulla vetta tignosa del Podgora, l'altra schiera dei morituri ben vigila alle porte d'Italia, nella trincea ancora mal costruita. Sta con loro Pio Gambini, pallido di ribellione e di genio precoce, Ettore Uicich, duro e aspro come il macigno della sua Foiba. Vico Prendonzani, a cui la fede è più grande del cuore: tutti sono stretti in un fascio, come fiaccola ardente. 

Ma un giorno l'audace navigatore dell'aria, colpito al cuore, piomba dal cielo sul suo mare e spira nelle braccia paterne. La falange del Podgora s'immola tutta al sacrificio di un'ecatombe di quaranta e muore perché la patria viva.


Sauro sente nella triste novella uno oscuro presagio. Troppe volte ha fissato la morte negli occhi terribili, e la morte ha già tesl l'agguato a una delle creature più stupende della vita. 

Troppe audace ha osato per insinuarsi con tenacia disperata fra i tentacoli innumeri della piovra a spaccarle il cuore.

Il mostro lo avvolge e lo impiglia nel viluppo mortale dei suoi grovigli. Sauro potrebbe prendere il veleno che porta sempre con sé e sparire nelle onde pur di sottrarsi all'infamia che lo attende. Ma ben sa quanta fronda germoglia dal legno del patibolo e vi s'avvia con animo sicuro. Forse non è senza significazione recondita che egli sia catturato a piedi d'un faro luminoso, e solitario, nel mezzo del Quarnero, sul liquido confine di nostra gente.

E l'eroe s'incammina per la via della croce. Sul triste corteo, impallidiscon le stelle nella notte di mezz'estate e il mare, come per l'eroe shakespeariano, si commuove a tramutare questo suo splendido figlio in qualche cosa di diverso e di grande.

Il 18 agosto, nell'anniversario dell'imperatore a solleticare con sadica raffinatezza il palato ottuso del vecchio feroce, si vuole temperare al vino l'acredine del sangue, agli osanna dei cortigiani il rantolo di un moribondo e il pianto d'una madre, alle ghirlande di fiori il patibolo d'un martire. 

Ma la misura è ricolma e nell'onda di sangue il turpe vegliardo, muore soffocate. «Maledizione a lui, ora e nei secoli!»


Altri martiri ed eroi più illustri si formarono sullo studio dei filosofi, sull'esempio dei grandi antichi, nutrendo la propria anima con midolla di leone e sviluppandosi in un'atmosfera elevata satura d'impulsi e di stimoli.

Sauro invece è l'espressione più genuina del popolo d'Istria, è l'essenza più pura della sua anima con le fresche ingenuità e con la tenacia incrollabile.

Ribolle in lui di certo l'aspro sangue trace dei nostri antichi padri istriani, che sull'ultimo rogo della libertà trucidano i congiunti e sé stessi e incendiano la patria. Ma il suo spirito ha quegli atteggiamenti di austera compostezza, per cui non fu vana la secolare civiltà di Roma sulle nostre terre.

C'è in lui l'audace intraprendenza di Gaiolo che rapisce le spose di Venezia e le trascina per nave nei porti istriani; ma l'ardore si tempera alla dolcezza veneta acquisita nella lunga comunione spirituale con la Dominante. 

Egli è il tipo perfetto di quei navigatori che il suolo d'Istria esprime e dai quali levarono la ciurma le armate di Roma, di Bisanzio, di Venezia e infine quelle dell'impero d'Austria.

È l'espressione della razza industre e intraprendente da cui si formano quegli armatori di navi che corrono oggi gli oceani alla conquista dei mercati, temuti rivali dei popoli navigatori più antichi e più potenti.

Sull'altra sponda questa gente aspetta di salpare la prora: con sui pennoni la bandiera che affermi sui mari la rinnovata grandezza d'Italia, che apra al genio antico di nostra razza le nuove vie del mondo. 

Ma a più alto significato a più vasta rappresentazione di umanità si eleva il simbolo di Sauro.

Egli è foggiato nella materia e nella stanza di quegli Eroi che incarnano il fuoco e l'argilla umana «sub specie eternitatis». Egli è uno di quelli che pongono oltre la vita il proprio segno: «navigare necesse est, vivere non est necesse».

Per loro il sangue ha un ritmo diverso e lo spirito ha luminosità che trascendono l'ordine comune. La loro vita materiale non è che contingenza fuggevole, segno sensibile e morituro dello spirito immortale, forma visibile dell'anima del mondo, tono e numero della Sinfonia Universa.

Certo quando i figli del Sole passano per le vie della terra lasciando dietro a sé un solco di luce, gli uomini guardano a loro con occhi attoniti. Gli umili e i semplici di cuore si prosternano e adorano: «numen adest».

I superbi presuntuosi li scherniscono, li mettono in croce, li avvelenano, li bruciano sui roghi. E nel discernimento bestiale credono distruggere tutto con la materia.

Ma c'è qualche cosa fra cielo e terra che la nostra umana sapienza non può intendere. Sono gli spiriti dei trapassati che aleggiano nell'atmosfera del superstiti, numi presenti e tutelari, vivi perpetuamente nel ricordo, nel rimpianto, nell'ammonimento.

E la forza spirituale che, oltre lo sfacimento e la trasformazione della materia, dura nel secoli con vitalità immortale. 

Non sono i fatti che danno significazione alla storia, ma lo spirito che li informa e l'Idea che li trasfigura.  gesto e l'atto sono contingenti, l'Idea che li suscita invece li colora di eternità.


Non il numero e la forza danno ordine alle cose, ma l'dealità superiore, la purezza spirituale che le anima. E questa guerra balzata dall'impeto bruto della materia ha cozzato nel suo cammino contro il puro diamante dello spirito, Ormai essa è lotta della materia contro lo spirito, della luce contro le tenebre. Ormuzd s'è trovato ancora di fronte ad Arimane e Calilan ha visto con orrore il suo celfo nello specchio. Guai a coloro che vorranno dare ordine alle cose col modulo della violenza! Essi costruiranno il loro tempio sull'arena e il loro nome sarà scritto salle acque.

Da questa aurora a cui il sangue ha colorato i veli e le lacrime han dato le rogiade, sorgerà certo il giorno luminoso. 

Dal labirinto delle tenebre si costruirà la Città del Sole. 

Un grande rinnovamento è a fior di terra e dalla straziante lacerazione dei corpi ne usciranno purificate le anime.


«Incipit novus ordo».

Gli uomini curvati ed atterriti sotto il primo irrompere della forza, si ricompongono alla nuova misura e riaprono alla nuova luce gli occhi accecati dalla visione spaventosa della Violenza.

Lo Spirito già impenna l'ali alla vittoria. E quando il giorno trionfale sarà giunto, dalla zolla che ricopre i morti e sul legno della passione dei martiri germoglieranno le fronde e spunteranno i fiori. 

Quel giorno non invano si sarà eretta la croce di Sauro.

Quel giorno sui ruderi di Pola tre volte romana, al cospetto del mare ridiventato golfo di Venezia, lo Spirito di Dante tornerà a confermare il Quarnero e la dalmata sponda a termine di nostra gente.

Segni del limes italicus saranno le croci di Sauro e di Rismondo e le tombe degli altri caduti.



Gloria de l’Istria ’l sacrificio iera 
da Ti compiudo, superbo, fiero;
per afermar ancora che ’l Quarnero 
xe mar d’Italia, italiana la tera.

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