Il 1 febbraio 1902 era stato proclamato a Trieste lo sciopero dei trecento fuochisti delle navi del Lloyd, in quel periodo a terra, che protestavano però anche in nome dei quattrocento compagni imbarcati. La protesta progressivamente s’allargò alle diverse categorie dei lavoratori, sino a divenire uno sciopero generale cittadino.
Tale decisione fu presa dopo che il luogotenente imperiale del cosiddetto Litorale austriaco (unità amministrativa che comprendeva la Contea di Gorizia e Gradisca, il Margraviato d'Istria e la città di Trieste), il conte Leopold von Goëss, aveva chiesto l’intervento delle autorità militari ed imposto l’impiego di fuochisti provenienti dalla flotta da guerra sulle navi del Lloyd, che così avevano potuto riprendere l’attività. Lo sciopero generale fu proclamato mercoledì 12 febbraio ed entrò in vigore nel giovedì del 13.
La giornata seguente, venerdì 14 febbraio, i dirigenti del partito socialista triestino tennero un pubblico comizio al Politeama Rossetti, il teatro più grande della Trieste dell’epoca, a cui parteciparono Carlo Ucekar e Valentino Pittoni ed, in rappresentanza dei fuochisti in sciopero, Ferdinando Castro.
La riunione era stata compiuta con il permesso delle autorità. Dopo i discorsi dei vari relatori, gli scioperanti scesero in un ordinato corteo lungo l’Acquedotto e quello che allora si chiamava Contrada del Corso (oggi Corso Italia).
La manifestazione si svolgeva pacificamente, quando intervennero i reparti della 55° brigata di fanteria agli ordini del generale Conrad von Hoetzendorf. I soldati erano muniti del fucile Mannlicher repetier Gewehr, all’epoca assai moderno, ed erano stati spediti a fronteggiare gli scioperanti con le armi cariche e le baionette inastate. Era stato inoltre proclamato lo stato d’assedio, ossia imposta la legge marziale.
Le truppe avevano avuto l’ordine d’impedire ad ogni costo che i manifestanti giungessero sino a quella che allora si chiamava piazza Grande (l’attuale piazza Unità di Trieste), in cui sorgeva il palazzo del governo. Un primo assalto si ebbe quando i reparti caricarono alla baionetta i dimostranti presso la vicina piazza della Borsa.
Questo fu soltanto l’antefatto degli eccidi che seguirono, mediante violente scariche di fucileria tirate ad altezza d’uomo e nel mucchio degli scioperanti. Il primo massacro avvenne all’imboccatura di piazza Grande, con il fuoco aperto da una compagnia comandata da tale capitano Köppel, pare su ordine del luogotenente del Litorale, il conte von Goëss.
Un’altra scarica fu fatta partire da un altro reparto asburgico nella vicina piazza Verdi, dove parte della folla che scappava dalla compagnia del capitano Köppel aveva cercato scampo: i soldati qui spararono proprio sui fuggiaschi.
Durante la notte, avvenne un scambio di telegrammi fra il luogotenente governatore Goëss ed il governo austriaco. Il potere centrale temeva che si potesse avere una saldatura fra il socialismo triestino, che sebbene internazionale di tendenze era comunque egemonizzato da italiani nei suoi vertici ed abbastanza aperto verso le tematiche irredentiste, e gli irredentisti veri e propri. Es dringt ein Exempel statuiren: «Bisogna dare un esempio».
Con questa frase, che era un ordine esplicito, Vienna aveva chiuso le sue comunicazioni con Trieste nella notte del 14 febbraio.
La mattina di sabato 15 febbraio erano giunti in città altri reparti militari asburgici, inclusa cavalleria, provenienti da Klagenfurt, Villaco e Lubiana: significativamente, si fecero affluire rinforzi da lontano e da località in cui non vivevano italiani, anziché dalle ben più vicine Istria e Gorizia. Furono addirittura messa alla fonda nel porto tre corazzate giunte in tutta fretta da Pola, mentre al largo incrociavano altre unità navali minori.
Gli ufficiali avevano avuto istruzioni di far fuoco senza preavviso, il che avvenne ancora una volta presso piazza Grande, con altri morti fra gli scioperanti. Poi le truppe ricevettero l’ordine d’occupare militarmente parte di Cittavecchia, in direzione di San Giusto, all’epoca un quartiere poverissimo, il che avvenne mentre gli abitanti cercavano di resistere gettando sassi e mattoni. Anche qui l’esercito sparò sui cittadini triestini e si ebbero altri morti.
Il numero delle vittime fu imprecisato: almeno 14, poiché questi furono quelli registrati fra gli scioperanti in conseguenza delle violenze della truppa, ma la cifra non è completa e risulta certamente inferiore al vero, non tenendo neppure conto di quelli che perirono successivamente per le ferite riportate, per non parlare dei feriti.
Secondo alcune stime, il totale generale dei morti ammontò a molte decine e quello dei feriti a diverse centinaia. Naturalmente s’ebbe una sequela di arresti ed a molti capidella protesta fu imposto di lasciare la città. La polizia si scatenò fra l’altro in una sorta di caccia agli anarchici, approfittando del fatto che erano molto più deboli politicamente dei socialisti stessi.
Lo stato d’assedio in tutta Trieste (con sospensione, fra l’altro, del diritto di riunione e di manifestazione) rimase in vigore a lungo, precisamente dal 14 febbraio 1902 sino al mese d’aprile dello stesso anno. La città si trovò presidiata militarmente, poiché von Hoetzendorf organizzò diverse pattuglie armate di due uomini, generalmente costituite da un marinaio e da un fuciliere o da un poliziotto, che percorrevano le vie di Trieste giorno e notte.
Il carnefice dell’impero, il boia Josef Lang, (lo stesso che poi impiccò Cesare Battisti) fu spedito a Trieste con i suoi aiutanti e con i suoi strumenti di morte, qualora vi fosse stato bisogno del suo intervento.
I timori delle autorità imperiali per un collegamento fra il grande sciopero e l’irredentismo non erano dovuti soltanto alla loro italofobia. In verità, l’irredentismo è sorto repubblicano, non senza simpatie per il socialismo.
I suoi fondatori furono Matteo Renato Imbriani (a cui si deve il conio del termine irredenti impiegato in riferimento agli italiani ancora sottoposti alla dominazione asburgica) e Giuseppe Avezzana, ambedue repubblicani.
La Società Italia Irredenta ebbe per presidente un garibaldino, appunto il generale Avezzana, ed ottenne l’appoggio di Giuseppe Garibaldi stesso e di Saffi.
La prima fase dell’irredentismo appare infatti egemonizzata da repubblicani d’ispirazione mazziniana (oltre ad Imbriani ed a Avezzana, comparivano Felice Cavallotti, Salvatore Barzilai, Aurelio Saffi, il Carducci stesso ecc.), che hanno in Garibaldi il proprio punto di riferimento ideale. Un irredentismo piuttosto diverso s’affianca (ma non si sostituisce!) a partire dalla firma della Triplice Alleanza (1882).
Un grande storico, Gioacchino Volpe, in una sua opera monumentale ha ricostruito un quadro d’insieme complessivamente corretto dell’evoluzione dell’irredentismo e della sua diversificazione interna, legata alle particolarità locali ed alle differenze politiche.
Il Volpe è senz’altro condizionato in qualche misura dalle sue personali posizioni ideologiche, ma la sua ricostruzione dell’irredentismo, a cui dedica un intero capitolo del suo capolavoro sulla storia nazionale italiana (il capitolo secondo del III volume, oltre a buona parte del sesto del medesimo volume) è onesta intellettualmente. Ciò che qui interessa è che questo illustre maestro delinea chiaramente come il movimento irredentista nasca repubblicano e politicamente spostato a sinistra: il Volpe non esita a riconoscerlo apertamente, pur essendo un monarchico vicino al fascismo.
Il socialismo nella Venezia Giulia era assieme cosmopolita e patriottico, nel senso che la sua ideologia di per sé internazionale conviveva con la difesa la componente nazionale italiana (maggioritaria nella regione ma minacciata dall’azione di snazionalizzazione promossa da Vienna, tesa ad imporre una sua germanizzazione e slavizzazione forzate), quale necessario ambito d’emancipazione anche sociale e civile. Questo binomio fra cosmopolitismo e patriottismo italiano, per nulla negatore dei diritti della minoranza slava, affiancava il socialismo giuliano a quello del Trentino, guidato e rappresentato da Cesare Battisti.
Per portare un altro esempio, il giornale socialista “La terra d’Istria” si batteva a favore dell’istituzione d’un ginnasio di lingua italiana a Pola, città che stava subendo invece un processo di snazionalizzazione artificiale, orchestrato dalle autorità governative. Nei comizi, nei giornali, nei manifesti, i socialisti usavano l’italiano, malgrado molti degli iscritti ed elettori fossero slavi, tanto che nel 1902 tutti i gruppi socialisti locali dell’Istria erano affiliati alla Sezione italiana adriatica.
D’altronde le elezioni comunali a Trieste erano sempre regolarmente vinte dal partito liberal-nazionale italiano, che era notoriamente irredentista per quanto non potesse dichiararlo in modo aperto, per cui Vienna paventava una saldatura fra il socialismo e l’irredentismo in senso stretto, ossia che lo sciopero generale finisse per diventare un’insurrezione aperta contro il potere imperiale.
La netta maggioranza della popolazione triestina era infatti costituita da italiani, sebbene il loro numero fosse andato calando in seguito alle politiche dell’impero tese a slavizzare la città.
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