Carpano è un villaggetto di poche case, superbo d’avere dato i natali a Matteo Flaccio, uno dei battaglieri campioni del luteranismo rigido dell’epoca della Riforma, e, dal 1558 al 1561 professore di grido nella neofondata università di Jena. Da allora in poi, Carpano non fece più parlare di sé e la desolazione causata dalla malaria pose tanto di suggello al discredito di quella plaga. A trarlo dall’oblio, vennero gli ingegneri del Rotschild, che, verso la metà del secolo scorso, perlustrando il monte S. Bortolo (270 m) situato fra la valle di Carpano ad oriente, ed il fiume Arsa ad occidente, trovarono una miniera di lignite. Il fossile fu messo a giorno su due fianchi: nella valle prossima a Carpano e presso il casale di Vines in sulle alture d’Albona, a duecento metri dal livello del mare. Circa il 1860, la miniera era proprietà dell’ i. r. priv. Riunione adriatica. Come informa il Luciani in una pubblicazione su Albona, nel decennio 1850-1860, Carpano diede più d’ un milione di quintali metrici di lignite, ricercata in quei tempi dalle raffinerie di zucchero di Gorizia, di Udine, di Treviso, di Venezia, di Grottamare, dalle raffinerie dello zolfo di Rimini e di Cesenatico, dai gasometri di Udine e di Venezia e dalla fabbrica di saponi di Mira.
Proprietaria attuale della miniera è la Società delle miniere di carboni di Trifail, che tiene a Carpano un’amministrazione apposita d’ impiegati tedeschi. La sede della direzione è a Carpano, a Vines sorveglia un ingegnere esposto. Da Carpano, i carrelli di materiale sono trainati da una locomotiva lungo il pendio orientale fino al mare, ove allo scalo attende una flottiglia di trabaccoli italiani.
La linea di questa ferrovia a scartamento ridotto, lunga otto chilometri, corre in parte sulle falde ripide del monte,in parte lungo la sponda sulla vecchia strada carrozzabile.
La piattaforma di caricamento, costruita verso il 1860 con una spesa di 85,000 fiorini è l’unico luogo un po’ animato; del resto le pendici d’oriente sono affatto disabitate, e la parte occidentale non ha che qualche casupola alla costa.
Mai come adesso la quiete e la solitudine imperarono sul golfo dell’Arsa. Prima che i Romani conquistassero il paese e facessero dell’Arsa il confine orientale d’Italia, questa regione era ben più densa di gente che adesso.
L'attestano i castellieri delle sponde prospicienti sull’Arsa, sempre più fitti, sempre più serrati quanto più si procede nell’interno della valle.
Albona, capitale della parte liburnica istriana, troneggiante sulla roccia, fu spettatrice d’ogni genere di vicende storiche. V’adduce da Carpano una buona strada carrozzabile che, svolgendosi in curve forti, fra cedui di querce e fra roveti guadagna l’altipiano (217m), ove i pampini screziati si maritano festosi ai rami degli olivi. Un colle a leggère ondulazioni non più alte di qualche metro, tutto pascoli sparsi di ginepri e di eringi ametistini, protegge queste campagne dalla bora. Via via, l’orizzonte s’allarga, il monte Maggiore lento riappare ed alla nostra destra si dispiega un quadro incantevole. Come fata morgana, librata nel firmamento, appare la città nereggiante nelle sue mura e nelle sue torri: Albona. Il sole indora gli orli dei merli e dei tetti: la mite aura mattutina ci porta carezzevoli i suoni delle campane pie. Ancora cento metri e giungeremo in vetta al colle, nella città. Intanto la strada incurvandosi ci porta in vista d’altri campi e d’altri vigneti ben coltivati, e dinanzi al leggiadro castelletto della famiglia Depangher.
Per via s’incontrano i campagnoli che a piccole frottesi recano in città. E la domenica, per cui abbiamo la bella, ventura di vedere ragazzi e giovinotti nei loro abiti da festa. Gli uomini portano calzoni neri di griso lunghi un palmo di sotto al ginocchio, calze di lana bianca e scarpe di pelle nera; attorno al loro corpo gira una cintura di lana rossa; la giacca hanno corta, nera; aperta sul davanti, lascia vedere le risvolte di tela ed i bottoni dorati del panciotto. I ricci corvini si sprigionano da una calotta rossa, o da una berretta di pelliccia, o da un cappello di feltro. I bellimbusti del territorio d’Albona portano cappello di felpa violetto. Le donne vestono una lunga gonna nera o bruna, succinta ai fianchi da una cintura rossa, ed una giacca della stessa stoffa si corta da non toccare i lombi; il fazzoletto da collo ed il grembiule sono di seta, ed a colori non meno sfacciati non meno vari di quelli d’una sciarpa turca. Ma la tinta bruna della carnagione armonizza egregiamente con quei colori intonati sul giallo e sul rosso. Intorno al collo gira una catena d’ oro con un pendente greve; alle orecchie sono appesi cerchioni fregiati di coralli. Tutti i giovanotti portano alla sinistra, un orecchino consimile. Le contadine d’Albona, per la loro corporatura, per la grazia dei loro movimenti, per la natura allegra e vivace fanno argomentare d’essere trattate più umanamente che nelle regioni slave meridionali. Gli uomini sono slanciati e lesti e dai loro occhi sprizza baldanza congiunta ad animo ardito. L'abitante dell’agro-albonese cela alquanto della grandezza spagnola, e non vuole avere niente di comune colle genti slave finitime.
Sotto il vessillo di S. Marco Albona si guadagnò il titolo di « fedelissima » ed ancora adesso sente fino nel fondo dell’anima la sua italianità. Come la maggior parte delle città istriane, anch’essa ha la sua loggia testimonio dell’antica libertà municipale, fregiata del leone di San Marco, simbolo di Venezia protettrice. Le viuzze, tutte di lastrico, salgono e scendono a gradinate e qua e là mettono in mostra qualche muro anteriore al dominio veneto, prova della prepotenza dei battaglieri patriarchi d’Aquileia.
In un viottolo appartato si scorge un arco di finestra con fregi a scacchi, e sotto il davanzale largo spiccano i modioni raffiguranti teste leonine di stile romanico.
In Albona, ben più antiche delle mura sono le tradizioni, fra le quali la più viva è quella che ricorda la prima invasione degli Slavi nell’ Istria. L’avvenimento risale al principio del settimo secolo. Contro le orde selvagge pugnano da eroi Albona, Fianona, Pedena, Pisinvecchio, Verino ed un villaggio presso Cosliaco. Soggiaciono; le loro mura sono atterrate, a mille a mille i cadaveri boccheggiano al suolo e l’Arsa corre sanguinolenta. Ciò malgrado gli Slavi non vi prendono salde radici e si giunge fino all’ottocento e venti prima che i Croati occupino veramente il territorio albonese. Pure tuttavia la città conserva il suo diritto politico romano e per esso combatte poi contro i conti franchi di Pisino e contro il potente patriarca d’Aquileia.
Il patriarca finisce col sottometterla, permettendole però di reggersi come prima secondo il proprio statuto. Come a Venezia ed a Rovigno, così anche ad Albona le famiglie patrizie formano il Consiglio maggiore della città. Alla fine del secolo decimottavo sono ancora undici. Lo statuto, di cui l’ultima codificazione data dal 1341, contiene parecchie disposizioni notabili: Chi ruba « si appichi al collo in maniera che muoia ». Però i ladri di cavalli paghino il sestuplo del valore dell’animale e nella recidiva si puniscano colla recisione d’ un lobo d’orecchio. All’omicida si tagli la testa « in modo eh’ ei muoia ed essa si stacchi dal corpo ». Le donne omicide « si gettino nelle fiamme, fin che muoiano ». Chi viola una donna e non venga ad un componimento coi parenti, sia decapitato; gli incendiari ed i falsi monetari si brucino. I bestemmiatori si condannino a pagare 46 soldi di multa e si leghino alla berlina. Questo statuto è il più antico documento di Albona. Per lo splendore medievale valga un testimonio di ducent’anni più vecchio: Edrisi, geografo arabo, il quale definisce: « Albunah » città popolata.
Albona diventò veneta appena nel 1420, quando il potere temporale della chiesa d’Aquileia trovò la ben meritata fine. Al patrizio veneto fu sottoposta anche la sorella minore, Fianona. Da questo momento in poi gli avvenimenti si scolpiscono più profondamente nella memoria del popolo. Interrogatelo e vi risponderà come in una notte dell’anno 1599 gli Uscocchi, sorprese le guardie, penetrassero nella città, e come i cittadini, riavutisi dal primo sbalordimento, li battessero a sangue respingendoli; interrogatelo quel popolo e vi racconterà pur anco di tempi ben più antichi, di que’ giorni in cui salutava esultante i reduci vittoriosi della gloriosa battaglia di Lepanto.
« Chi per mare, chi per tera — tutti Turchi sotto terra — pin pum ! Viva San Marco! » si gridava giubilando dinanzi alla loggia d’Albona ed ancora pochi anni fa, finita la processione di S. Marco, i fanciulli inneggiavano battendo i muri colle frasche di sambuco.
Sull’altura lucida, solitaria, d’Albona, insieme collo spirito del popolo di Venezia cadde e germogliò qualche seme di coltura intellettuale della università di Padova e di Bologna; sappiamo ad esempio che il Consiglio civico nel 1530 chiamava un maestro da Milano per istruire nelle scienze i figli dei cittadini. Il dotto uomo della città di S. Ambrogio ebbe un successo inaspettato, poiché fra i suoi scolari ebbe ad annoverare quel Matteo Francovich, che, sotto il nome di Flacius illyricus, divenne uno dei sommi teologi della Riforma, e professore di lingua greca a Tubinga. Un altro, non però si fortunato, seguace della dottrina luterana, pure d’Albona, fu il frate Ubaldo Lupetina che, fatto prigione in Venezia, fu dannato al rogo.
Il dottore in ambo le leggi, Giov. Antonio Battiala di Albona, alla fine del secolo decimosettimo si meritò a Venezia l’appellativo di Cicerone istriano. Albona conta pure il suo storico del secolo decimottavo, il farmacista Bartolomeo Giorgini, diligente raccoglitore di patrii ricordi.
Anche in Albona certe faccende non potranno filare diritte come una volta — spira un altro vento; i chicchi di seme invece di cascare da occidente, volano da oriente, ed i germogli minacciano di soffocare le vecchie piante coltivate — senonchè Albona, memore del suo grande passato, sta là ancora salda nella sua fede, e lo dimostrò anche pochi anni fa, quando appendeva corone lacrimate, ad un suo dotto ed illustre concittadino, al patriotta italiano, al suo podestà del 1848, Tomaso Luciani.
Su su aggrappate al monte salgono le scalette delle viuzze, finché ti conducono in cima ad una rupe ove dal bastione domini l’agro albonese, la spianata feconda nutrice della città montanina, che, come riferiva il capitano Nicolò Maria Michiel, vedeva i suoi figli nuotare nel vino e nei cereali.
L’occhio vede in fondo Barbana, Pisino, Pedena ed il monte Maggiore, giù in basso a 800 metri di profonditàil Quarnero scintillante; ad un muovere di palpebra scivola, sulle isole di Cherso e di Veglia fino al nebbioso Velebit.
Da questo panorama superbo e quasi unico per i suoi svariati motivi, a malincuore ci stacchiamo per non perdere il piroscafo, che già era in vista di Rabaz. Giù di ritto, là in fondo sta il porto da cui ancora ci divide una strada nova che si dilunga di cinque chilometri. Discendiamo e ammirando la china scoscesa,' tocchiamo finalmente la spiaggia. Nel fondo della valle, fra i castagneti si cela ancora l’antico sentiero, che all’epoca veneta congiungeva Albona col porto. Alcune case dirute ed abbandonate vi stanno lunghesso.
Già il vaporino fila lungo la costa liburnica, verso Abbazia, ed ancora una volta in fra le rupi appare come una visione Albona. S’assicura il ritorno a Roma quel pellegrino, che si congeda bevendo l’acqua della fontana di Trevi, e l’Albonese vede il ritorno del forestiere, quando può dire: « L’àbevu l’aqua de la cisterna ».
A Roma bevvi l’acqua alla fontana di Trevi, ad Albona l'attinsi dalla cisterna."
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