Antonio Lasciac (Gorizia, 21 settembre 1856 – Il Cairo, 26 dicembre 1946) è stato un architetto italiano.
Lasciac nasce a Gorizia in Borgo San Rocco, primo di sei figli del conciatore di pelli Pietro e di Giuseppina Trampus. Nato in ambiente friulano, scriveva e comunicava principalmente in italiano e friulano, simpatizzava per l'irredentismo. Si considerava un italiano.
Si laurea in architettura e ancora non compiuti i ventisei anni (9 agosto 1882) firma il suo primo progetto di ristrutturazione e ampliamento di una casa in via Vaccano, 6 per conto di Antonio Rickertzen. L'anno successivo si reca in Egitto ad Alessandria dove realizza la galleria Menasce sul modello della galleria milanese Vittorio Emanuele II.
Nel 1888 torna in Italia, a Napoli, e nel 1891 fissa la sua residenza a Roma, mettendosi in contatto con i grandi architetti locali e partecipando a numerosi concorsi nei quali si metterà in luce. A Roma elabora i progetti per la Chiesa del Sacro Cuore (1891) e di San Rocco (1894), entrambe in Gorizia e mai realizzate per gli ingenti costi di costruzione. Dal 1898 tutta la famiglia prende dimora al Cairo; in quegli anni Lasciac continua a lavorare senza sosta elaborando un numero considerevole di progetti tra i quali si deve citare anche la monumentale fontana-obelisco di Piazza San Rocco a Gorizia, inaugurata il 25 aprile del 1909. Fu un evento fondamentale ed epocale per il Borgo e la città di Gorizia che non inaugurava fontane dalla metà del Settecento (l'ultima fu quella dell'Ercole di Nicolò Pacassi 1755). Scrive il Corriere Friulano del 26 aprile 1909:
«l'aria deliziosamente primaverile armonizzava con l'esultanza popolare, piazza San Rocco era tutta pavesata a festa, ogni casa sfoggiava drappi e fiori, e fra esse spiccava il verone di casa Bertòs con i colori di Gorizia, a rendere quasi più palese ed affettuoso il legame fra i borghigiani e il Comune. La gente si era raccolta fittamente intorno alla fontana formando un animato quadrilatero. Alle 10 precise arrivarono, nella carrozza di gala, il podestà Giorgio Bombi con i dottori Vittorio Cesciutti e Achille Venier, accolti dalla banda civica diretta dal maestro Bianchi, e dai maggiorenti e membri del comitato sig.ri Sbuelz, Pietro Bertos, Giuseppe Bisiach, on. Carlo Rubbia, Francesco Pauletig, Giacomo Picciulin, Michele Culot e Gianvittorio Quaini. Ebbe luogo quindi la benedizione del monumento da parte del parroco di San Rocco, don Carlo de Baubela, coadiuvato da don Eugenio Volani. Fecero seguito i numerosi discorsi di ringraziamento indirizzati all'architetto Lasciac ed a tutti coloro che avevano cooperato alla realizzazione dell'opera, dimostrando di possedere un animo educato al sentimento dell'arte e del bello, capace di contraddistinguere le nazioni più civili…»
Nel 1907 su commissione egiziana costruisce il Palazzo Chedivè a Istanbul e il Palazzo Tahra. Viene così nominato Architetto capo dei Palazzi chediviali e ottiene il titolo onorifico di Bey. Nel 1899, in previsione di un suo definitivo ritorno a Gorizia, si fa costruire un'avveniristica e fantasiosa villa in stile moresco, sul Colle del Rafut, ma non vi prenderà mai dimora. Durante la Prima guerra mondiale si stabilisce a Roma.
Nel 1917 disegna un Piano di regolazione e ampliamento per la città di Gorizia, questo piano, seppur non accolto e condiviso globalmente, sarà alla base di quello successivamente elaborato dall'architetto Max Fabiani. Negli anni venti del XX secolo ritorna al Cairo dove vedrà morire entrambi i figli maschi. Nel 1929 diventa Accademico di San Luca. Ormai anziano, dopo una trentina di altre peregrinazioni tra l'oriente e Roma, nel 1940 decide di stabilirsi definitivamente a Gorizia. Tuttavia verso la fine del 1946 fa ritorno al Cairo, ma vi muore il 26 dicembre dello stesso anno.
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Si è a lungo ipotizzato che l’architetto si
fosse trasferito in Egitto perché a Gorizia non
riusciva a trovare committenza, per via delle
sue convinzioni di irredentista italiano in una
città allora situata all’interno dell’Impero
asburgico, senz’altro sinceramente lealista nei
riguardi dell’Imperatore Francesco Giuseppe.
Forse tale motivazione può essere confermata dall'opuscolo nazionalista e fortemente apologetico scritto da Lasciac a Roma, dove si era rifugiato dopo la partenza dall’Egitto occupato dagli Inglesi nel 1914, e dopo la conquista di Gorizia da parte
dell’Esercito italiano: «Come l’impronta del Leon di S.Marco si trova sul Castello di Gorizia»
Il fascicoletto di quindici pagine, pubblicato presso la tipografia Danesi, riporta in fondo la datazione a stampa: Roma, 20 agosto 1916, mentre il formato spartano, la copertina in carta del tipo da riciclo, come pure le pagine interne, inducono a pensare che la pubblicazione fosse autofinanziata, ancorché il frontespizio rechi la citazione:
«A beneficio delle opere pie di Gorizia e
dell’Asilo dei profughi delle Zone di Guerra in Roma.»
Il testo, in analogia alla guerra in atto in quel momento (1916) tra il Regno d’Italia e l’Austria-Ungheria, racconta i contrasti tra
l’Impero di Massimiliano I d’Asburgo e la Repubblica di Venezia nel periodo a cavallo
tra il XV e il XVI secolo, sfociati poi nella
guerra della Lega di Cambrai con la città di
Gorizia occupata dal 22 aprile del 1508 al 4
giugno del 150910 dalle truppe mercenarie
di Bartolomeo d’Alviano al soldo della
Repubblica marciana, si conclude così:
Il Leone di S. Marco, scolpito dal De Campioni,
trasportato nel Museo Provinciale per volontà
di benemeriti cittadini goriziani, dopo esser
stato abbandonato per secoli sotto le mura del
Castello, dal quale l’avevano fatto togliere gli
austriaci, torna oggi, in omaggio alla storia,
gloriosamente al suo posto a consacrare anche
la nuova data della riconquista di Gorizia
all’Italia.
Lo stesso spirito, l’anno seguente 1917,
per il tramite dell’Unione Economica Nazionale per le Nuove Province d’Italia, esprime il dono di Lasciac alla Gorizia “redenta” del “Piano regolatore generale per la ricostruzione della città”, piano citato in svariati documenti ma del quale si è persa ogni traccia, se si eccettua uno
stralcio della Zona Centrale pervenuto in
riproduzione fotografica.
Il Sindaco Giorgio Bombig (1852-1939)
ringraziò l’architetto per il dono ricevuto:
«Chiarissimo Signor Architetto,
Ella con cuore affettuoso di figlio e con mente
geniale di artista, ideò ed elaborò il progetto
d’un piano regolatore per la nostra amata
Gorizia, affi dandola alla benemerita Unione
economica regionale per le nuove provincie
d’Italia in Roma, che ne volle fare offerta a
questa cittadinanza.
All’inestinguibile riconoscenza per l’ente
donatore, io, interprete del generale sentimento
cittadino associo la perenne gratitudine per
Lei, sempre disinteressatamente sollecito e
intensamente operoso per i suoi concittadini
che sentendosi da Lei onorati, con giusto
orgoglio, Le tributano ammirazione e plauso.
Alla ricostruita Gorizia il nome Suo sarà
indubbiamente legato, in guisa duratura, così
come sarà duraturo il Suo esempio d’altre virtù
patrie e di nobile civismo.
Con profondi ringraziamenti e con tanto
ossequio, devotissimo: »Il Sindaco però non diede seguito al progetto di Lasciac, malgrado la petizione del 10 settembre 1919, sottoscritta dall’architetto assieme a 1215 illustri concittadini e inviata al Sindaco col proposito di ricordare le proposte del suo Piano regolatore e sollecitare la ricostruzione del Castello:
«Illustrissimo Signor Sindaco, La nostra Gorizia
amata, dopo secoli di servaggio, dopo centinaia
di anni di lotte titaniche sostenute per la sua
nazionalità, è stata per volere del popolo e per
virtù dell’eroico Esercito Italiano redenta per
sempre alla Madre comune, all’Italia nostra.
I nostri concittadini, dopo aver mantenuto
saldo per lunghi secoli il carattere latino nella
loro lingua, nelle loro opere, nelle loro case,
nelle vie, nelle piazze della nostra bella città, nell’auspicato momento in cui i prodi Fanti
d’Italia abbattevano le insegne dell’Austria al
malnato confi ne politico, ripeterono con enfasi
avanti a Dio al mondo tutto il loro giuramento di
fede per l’Italia Una e Grande e consacrarono col
loro grido di gioia il voto santo.
Il voto si è compito. Il Leone di San Marco
protegge l’ingresso al Castello. La bandiera
gloriosa garrisce in ogni dove. E sopra la città
dilaniata dalla guerra, che sta per rinascere a
nuova vita, immantinente risorgerà l’invitto
Castello unitamente alla sua leggendaria
cittadella, che al pari e più d’ogni altro rione
cittadino seppe difendere e mantenere, con viva
fede, il suo carattere latino. Il Colle è divenuto
per noi il Colle sacro, come per la città eterna
è sacro il Colle che protegge il Foro con le sue
basiliche, i suoi templi, i suoi archi di trionfo e di
Gloria romana.
Nei palazzi capitolini si raccolsero i più
magnifi ci cimeli del nuovo rinascimento italiano;
prendiamo esempio e senza tardare, destiniamo il
nostro Castello avito a museo del Risorgimento
nostro. Ma per compiere il nostro voto solenne di fede incrollabile nei destini della Patria, le mura
diroccate dalla guerra per la redenzione, la
cappella costruita dai fiorentini Rabatta,
malmenata dagli ultimi barbari, le case nostre
danneggiate dai terribili bombardamenti, le vie
e le strade che portano al Colle sacro reclamano
una sollecita riparazione: bisogna ricostruire,
si devon ampliare e sistemare i piazzali risorti
dalle rovine, si devono riattare le vie e renderle
meno incomode, piantare i giardini, allontanare
le catapecchie resesi inservibili, restaurare le
case storiche e costruire nuovi viali carrozzabili
in giro al Colle, demolire in Riva Castello i muri
che rinserrano il bel viale e non permettono al
passeggero di godere con lo sguardo il magnifico
scenario che il brutto sipario tiene celato.
Oggi: I sottoscritti cittadini chiedono al
Comune l’apertura di almeno una delle strade
convenienti che dovrebbero portare al Castello.
Questa via potrebbe dipartirsi dalla Piazza
Grande e precisamente a fianco della cappella
arcivescovile, oppure dal terreno della casa Pace
totalmente distrutta, per sboccare a valle o di
fianco dell’asilo infantile di Riva Castello.»
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