martedì 9 luglio 2024

Intervista ad un polesan (20/06/2008)

Intervista ad Otello S. del 20/06/2008

1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Io sono nato a Pola il 13 ottobre del 1930".

2) Mi può parlare della sua famiglia di origine?

R.: "Io sono rimasto figlio unico. Mia mamma era figlia di una veneta e di uno slavo dell'interno dell'Istria, per cui ha il cognome [C.]. Ora, si dice che il fascismo cambiava i cognomi... Bon, mia madre ha lavorato per lo stato italiano, è morta con il suo cognome [C.], va ben? Nessuno gliel'ha imposto. Certo, facevano i ricatti: se vuoi lavorare, italianizza il tuo cognome, giusto? Però non era come dicono che cambiavano il cognome. In località dell'interno è un altro discorso, però c'è chi ancora oggi porta il cognome slavo, c'è poco da fare. Perché quella è una zona che, come dire, se il padre era veneto il cognome era italiano, mentre se il padre era slavo il cognome era slavo, c'è poco da fare. Che poi era sempre dell'Istria poi. Perchè il fascismo sì, ha fatto, ma non ha fatto tanto quanto il comunismo. Perché intanto ha cominciato a mandare la polizia segreta a far fuori tutti quelli che avrebbero potuto contestare l'annessione alla Jugoslavia. Ecco perché non c'è bisogno di speleologi, si sa benissimo chi è finito in foiba, va ben? E si sa benissimo anche perché. Ci sono stati parecchi odi personali, ma quello è un altro discorso. Ma quelli son già venuti con l'elenco da far fuori quelli che potrebbero essere gli oppositori all'annessione alla Jugoslavia, va bene? Si, qualche paese è anche slavo, ma nella maggioranza delle cose, la soluzione americana avrebbe dovuto essere il confine etnico più giusto. Trieste ha gli slavi in casa, Gorizia idem, Fiume era una enclave in un contesto slavo, giusto? L'unica provincia che aveva una maggioranza italiana era l'Istria, ed è quella che ha avuto la sorte peggiore, va bene? Ecco perché dico di Pola. I fiumani possono dire quel che vogliono, ma erano una minoranza dentro un mondo slavo, insomma! E i crimini del fascismo... E questi crimini? [mi mostra una foto di Zara bombardata]. Questi crimini li hanno fatti per mandare via gli italiani dalla costa dalmata."

3) Sua mamma quindi aveva questo cognome, mentre suo padre?

R.: "Mio padre era in pratica il figlio di un napoleonico che si è fermato a Pola."

4) E che lavoro faceva?

R.: "Mio padre, boh? Agli inizi lavorava solo la mamma, poi si è messo a fare l'autista. Ma lui era molto per l'osteria! Quella volta era normale, poi in Veneto era normale!"

5) E sua mamma che lavoro faceva?

R.: "Mia mamma lavorava all'Opificio per la produzione di equipaggiamenti militari, indumenti, scarpe e maglie. Lei [lavorava] per le scarpe, per cui lavorava per lo stato. Nel '44, che per fortuna era domenica, [le bombe] han centrato in pieno l'opificio! Il primo bombardamento di Pola."

6) Lei saprebbe descrivermi Pola da un punti di vista economico: cioè cosa faceva la gente, che industrie c'erano, su cosa si basava l'economia cittadina...

R.: "Pola rispetto a Trieste e a Fiume non era una città commerciale. Era una città di piccola borghesia, tipo impiegati di concetto, commercianti, negozianti, eccetera, eccetera. Ma per lo più viveva dei cantieri navali, dell'Arsenale e dei vari opifici. Per cui era una città operaia più che altro, e quindi non poteva essere una città, come dire, reazionaria, una popolazione reazionaria come la si considera al tempo del fascismo. Anche nelle università c'era il gruppo degli studenti. Che io ho avuto un amico mio, per esempio, che era più grande di me, che lui ha avuto dei problemi. Era di origine slava, ma andava all'università con gli altri, e ha avuto dei problemi di salute proprio perché l'han menato. Ma erano episodi. Io del fascismo ho un buon [ricordo]. A parte la guerra. Ho un buon ricordo, vivevo tranquillo, rispettavo chi dovevo rispettare, ero rispettato e bom, basta. Per quanto riguarda i cognomi, chi li ha cambiati lo ha fatto perché voleva andare incontro al posto di lavoro o cose di questo genere, ecco. Che poi tra le altre cose ci sono dei cognomi in Istria di gente come Lazzari, Benci, Gabrieli, cognomi toscani, che son diventati Lazzerich, Bencich, Gabrielich, tutto grazie ai preti slavi dell'Istria. Hai capito? Loro non facevano proclami, non mandavano circolari in prefettura, lo facevano e basta. Io non son mai stato di destra, intendiamoci, son sempre stato equidistante dai due estremi, perché per me i due estremi si toccano. Io ti dico quello che penso io, poi te pensa quel che hai voglia!"

7) Pola come città industriale aveva anche una forte tradizione socialista o sbaglio?

R.: "Si, si, si. Certo, non poteva esprimersi in maniera palese, però nelle osterie si. Guarda, Pola è stata beneficiata da due imperi, quello romano e quello asburgico, tutti gli altri hanno portato via qualcosa."

8) Ne parlavamo prima, anche se in maniera non esplicita, e cioè della composizione della popolazione cittadina [mi interrompe]

R.: "Durante l'Austria, Pola era piazzaforte militare, per cui militarmente era in mano agli austriaci, però il comune era in mano agli italiani che erano la maggioranza rispetto agli slavi, capisci. Per cui voglio dire che [Pola] aveva la sua anima istroveneta, o comunque latina."

9) E com'erano i rapporti tra la popolazione italiana e la componente slava?

R.: "Diciamo... Ti farò un paragone... Per esempio, quelle che venivano a Pola, andavano dalle famiglie benestanti a fare le serve, no? O quelle che venivano da fuori a portare le fascine, o quelle che venivano a vendere le uova, mi spiego? A un certo punto c'era un rapporto, come dire, di mutuo rispetto per ognuno. Ci sono state si anche quelli che dispensavano odio, non lo metto in dubbio, ma sono casi, ad esempio, come Torino coi terroni, capisci? Sono situazioni, però non si può fare di tutto uno solo, come dire. Succedevano cose di questo genere. Però non ci sono mai state...Intanto ti voglio dire una cosa, che gli slavi quando venivano a Pola, si uniformavano talmente bene alla cultura, al modo di vivere della gente di Pola che alla fine diventavano più italiani degli italiani, va ben? Perché il croato, in sostanza, non ha una propria cultura, tranne che quella contadina, per carità. Adesso pensi che si travestono da romani davanti all'Arena! Si travestono da romani per far la sceneggiata a Pula, mamma mia! Pola che è stata chiamata dai greci Polai, che vuol dire città degli esuli - guarda te - poi Polae in latino e poi si, si è chiamata Pietas Julia perché ha preso a parteggiare per i partigiani anti cesariani, no? E allora siccome ha vinto Cesare han dovuto chiedere scusa! E poi poco dopo Gesù Cristo è stata costruita quella piccola arena, per cui è una piccola Roma in riva al mare. Su sette colli, eh! Tutto tra un colle e l'altro!"

10) Parliamo della guerra. Qual è il primo ricordo che le viene in mente della guerra?

R.: "L'annonaria! Si, perché voglio dire, non c'era da mangiare, non c'era da mangiare. E allora siccome mia mamma... Mio padre era stato richiamato, e mia madre continuava a lavorare, fino al '44, quando poi è venuta a casa per il primo bombardamento. E però c'era il razionamento. Mi ricordo - io avevo dodici tredici anni, spilungone ma magro - che un giorno mia madre mi ha fatto da magiare - che schifo! - delle patate lesse con la marmellata. Non gliele auguro a nessuno! E comunque, approfitto di questo anche per dirti questa cosa qua: lei aveva degli zii - fratelli del padre - nell'interno dell'Istria, cioè in quella che era l'ex contea di Pisino, sempre parte dell'Istria, ma zona dei villaggi slavi, dove c'era qualcuno che aveva fatto la scuola e parlava in qualche modo l'italiano, ma certamente il loro dialetto era quello ciacavo, che è un dialetto slavo. E posso dirti intanto che in chiesa si facevano le messe in latino, c'era dei villaggi che era un'altra Istria, che sembrava di essere tornati al medioevo, alla servitù della gleba. Una roba! Non so, tra stalla e porcile era tutto insieme, per cui era una cosa...Noi che eravamo abituati in città, vedere quello lì ci veniva voglia di andare via. E comunque posso dirti che c'era il fascismo, ma quella gente là aveva il catechismo in croato. Allora mi vuoi dire? Eravamo in uno stato comandato dai fascisti, giusto? Nelle osterie veniva qualcuno da fuori, e c'era chi parlava in croato tra di loro, lo slavo, perché era un dialetto come il nostro italiano, ma loro avevano il dialetto slavo, non era lingua croata. Questo nelle osterie di Pola, ma ancora di più in Pisino e dintorni parlavano croato, e c'era il fascismo! E allora, come la mettiamo! Come la mettiamo con quello che scrive Oliva e compagnia? Vedi? A un certo punto non si può scrivere perché si trova un documento, non si può applicare il documento su tutte le cose quotidiane che succedono. Allora, niente, mi chiedevi della guerra. Noi portavamo dei vestiti smessi, per che so patate...Nelle campagne, andavamo nei villaggi di campagna, è ovvio."

11) Quindi c'era una specie di scambio?

R.: "Si, beh, si andava dal parentado per dire. Ci vedevamo solo in quell'occasione. Però è chiaro, perché a un certo punto, come in tutta Italia, c'era il razionamento, ma guarda che c'era il razionamento anche sotto Tito, eh! E forse [era] anche peggio!"

12) E delle bombe cosa ricorda?

R.: "Il primo bombardamento, ripeto, per fortuna son venuti di domenica: gli scolari erano a casa, gli operai erano a casa, per cui si, ci sono stati morti ma non eccessivi. Comunque Pola, essendo un porto di guerra, non ha subito nemmeno la metà dei bombardamenti che ha subito Zara che non c'entrava niente con lo stato di guerra, va ben? Tanto per dirne una. Si, ci sono stati bombardamenti. Ma noi per fortuna sotto i colli - tutta roccia - avevamo le gallerie, e più che qualche sassolino non arrivava."

13) I tedeschi lei li ricorda?

R.: "I tedeschi, i tedeschi. I tedeschi, chi li rispettavano... Si, va beh, poi si davano da fare perché al confine c'era di mezzo anche la resistenza, e quindi a reazione, come dire, corrisponde reazione contraria. Si, ci sono state delle cose. Io ero ragazzo, per cui non entravo in queste cose qua. Però mio padre, per esempio, che è tornato dopo l'8 settembre a casa, ha preso lavoro come autista con un' azienda edile, per cui faceva l'autista. Io so che da una parte aveva gli amici che erano partigiani, dall'altra aveva quelli che erano [fascisti] e, come dire, uno cercava di convivere in maniera da non essere sempre in mezzo. Però bisognava anche dire a un certo punto... Quando si parla che l'Italia ha fatto questo e ha fatto quello, io so che lo han fatto in tempo di guerra, non prima. Prima c'erano, come dire, i luoghi dove mandavano al confino, ma non c'erano i lager, non c'erano i lager. Dopo son venuti i lager, dopo. E quando son venuti i tedeschi è cominciato San Sabba, e compagnia e briscola. Ma prima, prima della guerra, non c'erano cose che poi hanno fatto vedere Tito, Stalin e compagnia. Hitler poi non ne parliamo!"

14) Posso chiederle se si ricorda l'ingresso dei titini a Pola?

R.: "Io non c'ero, però siccome mio padre... E' stato una roba... Quell'ora del pomeriggio me la ricordo perché è stata sconvolgente. Era i primi di maggio - non mi ricordo più - e mio padre era andato con la colonna dell'azienda a Trieste, e mia madre era preoccupata, perché sai, passare nelle zone controllate dai partigiani, non si sa bene come finiva. Perché là era... Anche perché, per esempio, i giovani dovevano prendere partito, o andare da una parte o andare dall'altra, non potevano restare a casa propria e basta, non potevano. E se andavano partigiani, non è che restavano in Istria, a parte il Battaglione Budicin, che però è di Rovigno, non è di Pola, e loro si sono organizzati per conto loro e hanno fatto gruppo. Ma gli altri così, sciolti, li mandavano nell'interno della Jugoslavia. Io conosco uno che è finito in Dalmazia, capisci? Pur di non averli a far la guerra, anche contro i tedeschi, ma via dall'Istria. Proprio per non avere italiani che potessero rivendicare qualche cosa. Anche in quel caso là l'utilizzo dei partigiani italiani, era finalizzato a quel che veniva dopo."

15) E quindi l'ingresso titino a Pola mi diceva che è stato sconvolgente...

R.: " Ah, si, si. Allora, siamo arrivati nei pressi dell'arena, e c'era questi vestiti come potevano - molto, molto divertenti, se vogliamo - che ballavano il kolo dentro l'arena, sa quei balli che ballano loro. Ah, ah!"

16) Immagino che la gente non li abbia accolti molto bene...

R.: "No, no, anche perchè... Anche perché è subentrata la paura: c'è gente che è sparita e nessuno sa più niente, capisce? E beh, insomma... Perché al di là delle forze armate, non erano loro il pericolo, il pericolo era la polizia segreta, l'OZNA, quelli che andavano in cerca delle persone per eliminarle."

17) Le ha anticipate ora con le sue parole, le foibe. Parliamone. Le chiedo se voi eravate a conoscenza della loro esistenza...

R.: "Io delle foibe ne ho sentito parlare nell'ambito [di] quando c'erano gli inglesi, perché c'è stata in piazza Porta Aurea, dove c'è l'Arco dei Sergi, tutta una mostra. Perché, tra le altre cose, i primi infoibati sono andati a tirarli fuori i vigili del fuoco di Pola, protetti dai tedeschi, e allora tutte queste foto così, quando son venuti gli inglesi, han fatto una mostra a Porta Aurea con tutte queste belle fotografie: volti tumefatti... Ma non è soltanto stato per questo, perché Pola in quel periodo era una città amministrata dagli inglesi, però ogni via d'accesso - che so, due o tre chilometri fuori dai sobborghi - c'erano i posti di blocco, perché tutta l'Istria era in mano amministrativamente - e han fatto il bello e il cattivo tempo - agli jugoslavi. Per cui, voglio dire, gli jugoslavi facevano quello che volevano: mandavano i camion con la gente a fare le manifestazioni a Pola: Pola è nostra! Viva Tito! E cose di questo genere. Non erano i polesani; [c']era magari anche qualche polesano, ma insomma.. Tu devi renderti conto che sono andati via poi quattro quinti della popolazione. Io mi sono trovato straniero in casa mia dall'oggi al domani. E io non conoscevo la lingua!"

18) Delle foibe quindi si sentiva parlare...

R.: "Si, si, questo è quello che so io. Quello che so io è che ho visto questa mostra."

19) Molte volte le foibe si raccontano con la sparizione fisica delle persone...

R.: "Eh si, chi conosceva quelle persone non le vedeva più, è ovvio insomma. E le famiglie che correvano di qua e correvano di là per cercare i parenti e poi dopo [non li trovavano]. Che loro son rimasti quarantacinque giorni, dopodichè sono subentrati gli alleati, gli inglesi. E allora tutto si è risolto che cercavano di capire dove erano finiti. Il fatto è che però la mostra, la mostra di cui parlo io, riguardava gli infoibati del '43, dopo l'8 settembre, perché gli slavi sono entrati subito e i tedeschi sono arrivati dopo. Intanto gli slavi si erano ritirati, e avevano fatto la loro brava pulizia, hai capito? Etnica!"

20) Visto che lei è di Pola, non posso non chiederle dell'episodio di Vergarolla.

R.: "Ah si, ecco, bravo, perché è importante questo! Perché un mese o due fa si è saputo anche chi, materialmente, ha fatto scoppiare quelle mine. Noi l'avevamo sempre pensato - saputo no - ma scusa eh? Oltretutto quel giorno dovevo andare là alla festa anche io. Senonchè quella mattina, mi ricordo sempre quel cielo azzurro e queste nuvole che correvano perché c'era una forte corrente d'aria...I miei amici dovevano fare tutto il centro cittadino per venire alle Baracche, il sobborgo dove abitavo io, per chiamarmi e poter andare a questa festa là. Perché noi andavamo a fare gare e pallanuoto per conto nostro, come azione cattolica. E io le ho viste quelle mine, ma chi se ne fregava? Erano là, e se non le toccavi non succedeva niente, hai capito? E allora anche quella domenica là avremo dovuto andare. Arrivano i miei amici, ma siccome quella domenica mattina, sarà perché ho un sesto senso o non lo so, mi son svegliato verso mattina e nel dormiveglia tra sogno e veglia ho sentito come una radio che diceva: attenzione, attenzione al porto di Ancona è scoppiata una polveriera! Bisogna anche premettere che durante la guerra, quando le formazioni aeree andavano a bombardare in Germania, c'era sempre al largo di Ancona che, come dire, passava la formazione di bombardieri... Comunque io quella mattina non avevo nessuna idea di fare un sogno del genere, di sentire la radio così. E son rimasto sai come i cani quando sentono il terremoto? Inquieto. Dico no, io non vengo. Ma come! Dieci minuti che mi han parlato - era l'una e mezza - hanno sentito [lo scoppio]. Loro son partiti, hanno perso dieci minuti, e io mi son fermato davanti a casa. Sono arrivati a metà strada ed è successo il finimondo, per cui, tutto sommato, gli ho salvato anche la vita!"

21) Mi ha detto di sapere chi è stato a fare esplodere le mine a Vergarolla...

R.: "Un certo K. di Trieste, che faceva parte dell'OZNA, insieme ad altri. Perché a Trieste, nonostante ci fossero gli alleati, c'era il centro dell'OZNA, mascherato come hai voglia. E loro viaggiavano costantemente tra Fiume e Trieste. E adesso c'è gente che andando in Inghilterra, hanno scoperto questa cosa qui, i nomi e tutto quanto. E questo ha determinato il panico tra le gente."

22) Immagino...

R.: "Tra le foibe... Arrivavano e non si poteva... Io conosco un ex partigiano italiano, che ha detto che alla sera dovevano andare in gruppo, perché erano provocati dagli slavi. Perché gli slavi venivano a Pola liberamente, noi per andare fuori dovevamo avere mille lasciapassare, ma quelli venivano liberamente, tanto venivano a fare la loro propaganda."

23) Quindi Vergarolla ha aumentato la paura?

R.: "Beh, si, è ovvio. Se tanto mi da tanto, scusa... Si parla tanto di attentati, ma il primo attentato lo abbiamo avuto noi durante la guerra, e nessuno ne ha mai parlato!"

24) Parliamo dell'esodo. Lei quando è partito da Pola?

R.: "Ma, intanto io ho fatto tre anni sotto Tito."

25) Ah, ho capito, parliamone...

R.: "Eri militarizzato anche da civile, altro che fascismo! Il fascismo era rosa e fiori, perché io col fascismo potevo anche fare il furbetto e non avere la divisa da balilla e non andare al saggio ginnico, ma tutto finiva là! Invece i sabati eri obbligato ad andare a fare il premilitare, con il fucile di legno - sagome di fucile di legno - e obbedendo a ordini in una lingua che non era la tua! Io sono stato fortunato in un certo modo, perché sono venuto a lavorare in officina quando la città era passata alla Jugoslavia, e però c'era anche un circolo italiano molto finalizzato alla propaganda, in cui c'era una filodrammatica cui ho partecipato. E abbiamo partecipato a una rassegna e abbiamo vinto la rassegna , naturalmente con un dramma sulla vita partigiana! Questo è servito però. E c'era uno che veniva da Cuneo, meridionale di Napoli, che ha riparato con tutta la famiglia in Jugoslavia, perché se fosse rimasto in Italia avrebbe dovuto subire determinati processi, va bene? Però, tutto sommato, questo qua avendo la passione per il teatro, è riuscito a coinvolgere quelli del partito comunista e ha realizzato per un anno e mezzo un teatro semi-stabile, e mi ha chiamato a far parte di questo teatro semistabile. Ora, mentre Pola si era svuotata, a Rovigno e negli altri centri della costa, l'esodo era ancora alla spicciolata, l'elemento italiano era ancora abbastanza integro, perché non sono andati via col Toscana come a Pola, migliaia e migliaia per volta. E allora la mia soddisfazione era quella di recitare in italiano in un territorio che era diventato slavo. Poi siccome abbiamo recitato Goldoni, Ibsen, Cecov, una critica della borghesia... Ma il partito voleva addirittura i lavori sovietici, e ne abbiamo fatta una, ne abbiamo messa in scena una, solo che c'erano quei quattro gatti del partito, ma non c'era il pubblico! E han chiuso il teatro. Siccome i quadri culturali erano a livello molto terra, terra, anche io che ero un po' studentello con qualche velleità diversa...Poi, tra l'altro, un bel giorno, quando han chiuso, mio padre - io ero ancora minorenne - aveva fatto l'opzione, firmato l'opzione per voler mantenere la cittadinanza italiana. Ma siccome lui lo impiegavano ad andare a prendere il latte per tutta le regione, non lo mandavano via! Era in sospeso, e così in sospeso restavo anche io. E mi ricordo che nella primavera del '50, mi avevano dato in mano la gestione del cinema, arrivavano tutte le cose [pellicole] in croato e io non capivo niente! Ma questo era il meno. La mia porta [d'ufficio] era di fronte a quella del Fronte popolare che equivaleva al Comune, all'amministrazione. Io ho visto una vecchietta che vendeva un po' di legna, mandata via da lì come i cani rognosi, va bene? Dalla sinistra, dal partito comunista jugoslavo! E allora quando mi hanno chiamato dalla segreteria del partito, per farmi entrare nel partito a me, ho detto: come me la cavo? Ho detto sa, io sono giovane, il partito è una cosa importante per poter prendere una decisione e cose così. E allora mi han lasciato, sono tornato a casa, mi hanno licenziato dal cinema. E allora io sono andato a lavorare al Cantiere Navale Scoglio Olivi. Perché bisognava andare a lavorare e, naturalmente, era peggio dell'annonaria fascista!"

26) Cioè c'era poca roba da mangiare?

R.: "Mia madre andava a fare, poveretta, delle file, e quando lavorava sul banco non trovava più niente. Non ti dico...Intanto al cantiere navale erano arrivati i monfalconesi, perché il cantiere navale, era rimasto privo della forza lavoro. E tra le altre cose, in quei quarantacinque giorni prima di andare via da Pola e lasciarla agli alleati, gli slavi avevano portato via dei macchinari dall'Arsenale. Ai cantieri costruivano delle navi e a luglio mi ricordo che c'erano queste lamiere che scottavano, un caldo bestiale! Io avevo... Ero aggregato al capo operaio, perché facevo l'apprendista, e si sono presi a pugni per avere prima uno dell'altro la gru per fissare le paratie, che sarebbero le ossature della nave. Per cui ogni mattina che dovevo andare là dentro, sembrava di dover andare all'inferno: il caldo, l'angoscia, madonna, una roba da matti! Fortunatamente, tra virgolette, un giorno ho messo il piede su un asse che era male sistemata tra due tubi, e son caduto giù, di sotto e mi son storto il piede, per cui son stato a casa. Poi dopo nel frattempo è venuto l'approvazione per poter partire. Meno male, perché mi avevano già incasellato a rischio di leva: avrei dovuto andare nell'esercito jugoslavo, senza sapere una parola!"

27) Ma invece dei monfalconesi cosa ricorda?

R.: "Ma, insomma, cosa ricordo... Erano qualche migliaia, si che però poi dopo anche loro hanno avuto la brutta sorpresa del Cominform, e son finiti anche all'Isola Calva! Ma meno male, son contento per loro voglio dire."

28) Quindi a Pola sono arrivati? Ce n'era qualcuno...

R.: "Si, però la città era ancora abbastanza spopolata a quel tempo, eh..."

29) Lei va via nel 1950, giusto? Ma prima di andare via lei vede Pola svuotarsi. Riesce a descrivermi la città in quei giorni?

R.: "Tremendo, tremendo. Intanto i miei amici son scomparsi quasi tutti, chi con la famiglia, chi col gruppo. Che poi dopo quelli dell'azione cattolica, si son trasferiti tutti ad Oderso in provincia di Treviso, in un convitto. Io no, che mio padre aveva deciso di vedere come si sviluppavano le cose e son rimasto là, son rimasto isolato. Per cui mi sono fatto qualche amico nell'ambiente del lavoro, nell'officina dove lavoravo, però non era la stessa cosa, insomma."

30) Quindi era una città che si svuotava...

R.: "Si, si, era tremendo. Io sinceramente evitavo di andare in centro, evitavo di andare in centro, perché tu vedevi porte sprangate, strade deserte e con l'inverno che passava, [era] una roba tremenda. Era che anche nella stessa baracca dove abitavo io, saremmo rimasti un terzo di tutta la gente [che c'era]. Che poi era gente operaia, non era gente così... Non era gente che aveva - come dire - particolari passioni politiche. Però, sa, è contagioso: va via uno, va via l'altro, e insomma...Ti dico, una città che aveva trentadue-trentacinque mila abitanti, per quattro quinti, insomma, ventottomila se ne sono andati. Ti rendi conto? Fiume e le altre parti, o il resto dell'Istria si è spopolata piano, piano. Ma Pola, tremendo, tremendo! Che poi, abbi pazienza, mia madre nata e cresciuta a Pola, che doveva - come dire - sistemare i vari indumenti, si arrangiava, non aveva mai fatto la sarta, però, voglio dire, nella mia famiglia, la donna aveva sempre quella capacità di sistemare le cose senza essere una professionista. Per avere un po' di zucchero, di farina e una cosa e l'altra, là dove abitavamo noi, son venute le famiglie dei sottoufficiali, perché gli ufficiali erano alle palazzine della Marina, quelle migliori, no? Però loro avevano lo spazio per conto loro, capisci? Però loro vivevano per conto loro, noi no. E la rabbia mia era: ma come, mia madre nata lì, deve vivere per fare la serva? E a quel punto no, capisci? Eh... Ah, poi, tra le altre cose in quel periodo là, la prima cosa quando sono arrivati [è stata che] ogni settimana, al venerdì, raduno al Fronte Popolare, perché il Fronte Popolare in ogni - come si dice - rione, borgo, aveva la sua sede, no? E ogni casa aveva - come dire - il responsabile di partito che controllava che tutti facessero questo, facessero quest'altro, andare alla riunione, andare a fare il lavoro volontario, a tirare sassi di qua e metterli dall'altra parte. Là, se non facevi quello che ti dicevano, cominciavano a guardarti [male]."

31) Posso chiederle qual è stato il motivo per cui siete partiti?

R.: "Intanto io ringrazio i miei genitori per cosa han fatto. Perché io che volevo scrivere... Ho vinto anche un premio con la Schiava istriana, e cioè mi sono inventato una storia al tempo di Roma, mettendo nei romani la classe prepotente rispetto al popolo degli istriani, perché è così: i romani hanno invaso l'Istria, hanno fatto la guerra che sarà durata sette o dieci anni - adesso non mi ricordo più - per sottomettere quelle popolazioni. Perché altrimenti non potevi scrivere: o scrivevi del partito, o non scrivevi, ma peggio del fascismo! Perché non avevi vie traverse, dovevi scrivere la lode a Tito o cosa. Io ho dei libri che ti danno il senso di quello che poteva essere la scrittura o la cultura a quel tempo là. O ti adeguavi a quello che volevano quelli del partito, o non facevi niente. Anzi, cominciavi ad essere guardato con sospetto."

32) Quindi perché siete partiti?

R.: "Ma, intanto ci si sentiva condizionati al massimo, almeno io, e parlo per me, non vedevo l'ora di andarmene via. Dico sarà quel che sarà, tra il campo profughi e il cavallo, ma almeno potrò dire crepa se mi veniva da dire crepa, capisci? Io, sinceramente... Poi niente, era diventato asfissiante il clima politico."

33) In che senso?

R.: "Nel senso cha a un certo punto, tutto doveva essere organizzato come voleva il partito. Non c'era una vita sociale autonoma, venivi inquadrato e basta. Il lavoro, si, andava bene, però dovevi stare attento a cosa leggevi."

34) Un regime che quindi penetrava in ogni aspetto della vita quotidiana...

R.: "Ma certamente, perché non potevi dire niente, perché a un certo punto incontravi chi riferiva ed era finita. Ma, voglio dire, nella Russia hanno fatto così, non è che ci sia stato molto diverso, eh!"

35) Ribaltando la domanda, ora le chiedo chi è rimasto, secondo lei, perché lo ha fatto?

R.: "Ci sono quelli che son rimasti anche per ideologia, no? Sono una minoranza, ma ci sono anche quelli. Altri [sono rimasti] perché, tutto sommato, insomma, [dicevano] ho una casa, ho un terreno, ma dove vado? Capisci, cioè? Quelli son rimasti in questo senso qua, capisci? E, tra le altre cose, quelli che adesso si vantano dell'italianità, perché fa comodo, sono i famosi [R.], che uno è vicesindaco, e l'altro è deputato a Zagabria. Il loro padre era un funzionario del partito, che partito? Comunista! Hai capito? Voglio dire che si riciclano quella gente là. Io non voglio far ricadere le colpe dei padri sui figli, se sono rimasti è perché c'era una ragione. E guarda che chi aveva in mano il potere, ha fatto poi le sue brave berlusconate, eh, eh!"

36) Si ricorda il viaggio?

R.: "Io parto la notte di San Martino del 1950. Io sono partito in treno insieme a qualche altra decina di persone che avevamo quella sera, come dire, il permesso di andare a Trieste."

37) E dietro avete portato tutto con voi o c'erano delle limitazioni?

R.: "No, si poteva portare i propri effetti personali, per cui mia madre che ha penato una vita per farsi la mobilia - a rete e una cosa e l'altra - ha dovuto disfarsene prima, così, per quattro soldi e via! "

38) Del viaggio che ricordi ha?

R.: "Che non finiva mai quella notte! Siamo arrivati a Opicina, sopra Trieste, che pioveva che dio la mandava, e se non la mandava lui, la mandava qualche d'un altro! Allora, ci hanno messo dentro delle baracche, con i letti a castello e a mezzogiorno, un calderone così di roba fumante dentro la gavetta, che noi la chiamavamo la gamella. Bon, insomma, roba da guerra. E ho passato la prima notte così, e ho subito, come tutti gli altri un interrogatorio: ah, lei lavorava al cantiere navale! Una cosa e un'altra, e io cosa dovevo dire? Si, beh, costruivo le navi! Questo la polizia italiana, o alleata, comunque. Un disagio della madonna, insomma."

39) Un disagio, perché?

R.: "Eh, campo profughi perché ti trovi là, non è che ti mandano in camera d'albergo, insieme ai tuoi letti ci sono gli altri, hai capito? Non parliamo poi del campo profughi di Novara! E allora ci mandano a Udine, che è un campo di smistamento."

40) Lei si ricorda il campo di Udine? Cos'era una scuola, una caserma?

R.: "Io mi ricordo un grande stanzone, dove c'erano vari cosi - materassi, questo e quell'altro, un gran casino -, un grande stanzone. Che però io a Novara sono capitato per caso, perché se avessi seguito la sorte di quelli che son venuti fuori dalla Jugoslavia insieme a me - che, notare, io ritornavo in territorio italiano, non è che ero diverso, che ero extracomunitario! - loro son finiti a L'Aquila. Io con la mia famiglia siamo andati da Udine, abbiamo chiesto di andare a trovare mia nonna e le sorelle di mia mamma [a Verona], che mio zio era già morto, e tra le altre cose, faceva il carabiniere a Verona. E allora ci hanno dato il permesso, come militari, [di andare] una settimana a Verona, e siamo andati."

41) Però non in campo...

R.: "No, no, a casa di mia nonna. Chi aveva i parenti, insomma... Loro non potevano ospitarci perché erano già con due figli in una camera e cucina e in una stanzina. Quella settimana, però, avevo la roba... Avevo un cappotto fatto con la coperta di lana, un cappotto a tre quarti, proprio da pellegrini! Ma quando siamo tornati poi a Udine - era domenica - è venuta da Novara la richiesta di posti che erano disponibili, e allora niente, ci hanno convogliato a Novara. Anche là, abbiam mangiato una pastasciutta alla stazione di Milano alla sera, poi abbiamo aspettato il treno del mattino per arrivare qua a Novara che c'era una nebbia!"

42) E a Milano la pastasciutta chi ve l'ha data? Qualche organizzazione di assistenza?

R.: "No, no, per conto nostro. No, io non sono stato in quei convogli della gente, quelli sono venuti prima di me. Perché vedi, a Novara ci son pochi polesani, o polesi, come ci chiamavano per distinguerci da quelli del Polesine. Perché tutti quelli che son partiti col Toscana o son venuti via così, lavorando all'Arsenale o alla Fabbrica Tabacchi, hanno trovato il posto a Torino, La Spezia, Venezia, tutti luoghi dove hanno potuto, come dire, trovare una sistemazione quanto meno provvisoria, ma una sistemazione. Quando sono arrivato a Novara io, ci hanno sistemato tutti - sei famiglie - in uno stanzone che sarà stato lungo da là alla porta e qualche metro più largo: c'era i listelli con le coperte che delimitavano sia il corridoio - che c'era la finestra in fondo - e la porta chiusa dal corridoio. Sei famiglie, tre da una parte e tre dall'altra: chi scoreggiava, chi pompava col petrolio per cucinare qualcosa, un casino della madonna! E poi, sa, poco alla volta uno si sistema, perché magari uno va via, trova posto e ti lascia più spazio. Quel posto di prima accoglienza, non esiste più, perché adesso c'è il parcheggio delle automobili. Perché l'unico danno che ha avuto dalla guerra Novara, è stato un attentato che ha fatto crollare una parte della Caserma Perrone. Ma roba più dimostrativa che altro. Di bombardamenti hanno avuto dei mitragliamenti sulla stazione e qualche spezzone così e basta, non l'han toccata. Evidentemente c'era un nucleo antifascista, partigiano, molto forte qua. E anche nella localizzazione del campo profughi, [a] quel tempo la politica era in mano alla Democrazia Cristiana, e allora la destra, il MSI, ci utilizzava come quelli che ecco, avete visto, il paradiso comunista eccetera, eccetera. I democristiani ci mandavano qua e là dove c'erano le amministrazioni di sinistra per bilanciare i voti: si, ci hanno dato il sussidio, non più la minestra da calderone ma il sussidio, per cui uno poteva organizzarsi un pochettino, ma però l'abbiamo pagata! C'era però... Che quando sono arrivato io, era già buona, perché all'inizio i miei compagni di sventura - chiamiamoli così - dovevano girare, soprattutto di sera a gruppi, perché c'era a Novara chi non ci poteva vedere. Venite a portarci via il pane! [dicevano]. Tant'è vero che quando io ho lavorato alla De Agostini, c'era uno che abbiamo lavorato insieme per diciotto anni. Eppure dopo tanto tempo, non so per che quale discussione [mi ha detto]: eh, se non ci fossi tu qua! Era il più negato a fare quel lavoro, aveva sempre bisogno di qualcuno, comunque! Era comunista, milanista e mangiatore per dieci! Mi fa: se non ci fossi qua tu, ci sarebbe mio fratello! [Gli ho detto]: guarda, senti un po', mio padre è andato in Russia con la colonna dell'esercito italiano, per cui, voglio dire, io ho gli stessi diritti tuoi sia che abiti a Novara che da un'altra parte della città. E dopo tanto tempo, eh!"

43) Ad esempio, com'era la vita nel campo profughi?

R.: "Ah beh, la vita nel campo profughi era già un dato acquisito quando sono arrivato io. Noi avevamo tutto un altro modo di concepire la vita, perché non dimenticare che sono nato e vissuto in una città. Perchè Novara adesso si è ingrandita, ma quella volta, per me, era più vuota di Pola, perché non prendevano iniziative. Allora a Pola avevamo i gruppi di ragazzi e ragazze che con la chitarra si suonava; cioè, c'è uno spirito diverso. Mi ricordo che tra le altre cose, siccome c'era chi lavorava... Ma si faceva quei lavori che capitavano: portare il carbone nelle cantine, portare i cesti di frutta al mercato all'ingrosso. Io per esempio ho preso parte alla canalizzazione del gas tutta intorno a Novara. Ma tutti lavori, come dire, a termine insomma. Per cui, voglio dire, c'era chi aveva qualche soldo in tasca e chi no. Allora quando c'era la festa, facevamo i nostri gruppi, cioè ragazze e ragazzi insieme... Ma non, come dire... Noi avevamo un cameratismo che qua non c'era. E allora andavamo, pigliavamo, affittavamo a carnevale una stanza dietro a un'osteria, c'era il giradischi, noi portavamo da bere, le ragazze portavano i panini e si ballava, si faceva i giochi di società, sa, quei giochi a premi e quelle stupidaggini là. E il padrone del locale ci diceva: se volete, ci sono le stanze di sopra, e noi gli abbiamo fatto una risata in faccia. Si, c'erano quei ragazzi che oramai erano già fidanzati, però, in compagnia, non si permettevano di appartarsi come poi ho visto fare qua un sacco di volte, o una ragazza che si stringe a me poi bam, si stacca con la mamma che aspetta che finisca di ballare. Capisci? Per cui era tutto un altro rapporto, ci divertivamo come potevamo, alla fine. Però, vedi, le nostre ragazze erano prese per puttane soltanto perché fraternizzavano coi maschi. E' soltanto che eravamo amici."

44) Qui a Novara come siete stati accolti?

R.: "Con molto distacco. Intanto non ti dicono mai niente: pensano e parlano ma non ti dicono mai niente, poi sotto sotto ti tagliano i panni addosso. Questa è proprio una caratteristica [dei novaresi]. Tanto è vero che nei tanti anni che ho passato coi miei colleghi alla De Agostini, noi eravamo un gruppo di cromisti, una dozzina di persone. Tante cene, nei vari trattorie e ristoranti ma mai un novarese - dopo quindici o venti anni - che mi avesse chiamato in casa. In casa sono andato di gente che era venuta come me dal meridione, ma di novaresi no. Il novarese è molto cortese però ti lasciava dove ti trovi."

45) Lei ha provato sulla sua pelle l'essere accostato al grande stereotipo, ovviamente sbagliato, dell'istriano fascista?

R.: "Ah, quello, quello era sottinteso! Non te lo dicevano ma lo pensavano. Anche perché, parliamoci chiaro, io non ho avuto l'avventura di arrivare col piroscafo a Venezia o ad Ancona, o di viaggiare a Bologna col treno, che son stati fatti eclatanti, però era sempre come dire, ah si? Anche perché. Non dimentichiamo quell'idea, che Novara è di sinistra. Io poi ho fatto una grossa amicizia col sindaco socialista, che mi ha dato anche i biglietti per andare a Roma gratis, per esempio. Ma perché i socialisti erano già diversi, più bonaccioni. Ma quello invece che era comunista, come quello che mi ha detto se non c'eri qua tu c'era mio fratello, beh, quello non guardava in faccia nessuno."

46) Mi interessava sapere sempre relativamente all'arrivo a Novara il capitolo del lavoro.

R.:" Qui, a parte il fatto del lavoro precario, c'era chi era già andato che avvisava gli altri: c'era un passaparola per questi lavori qua. Per quanto riguarda invece il lavoro da sistemarsi, c'era una legge che diceva che una parte delle assunzioni deve essere riservata ai profughi. Io non mi è mai piaciuto chiamarmi profugo, ho sempre preferito chiamarmi esule, perché poi è stata anche una scelta politica. Come mi rifiutavo di indossare la divisa balilla, peggio ancora quell'altra! Ma perché non faceva parte della mia etnia. Io per esempio sono entrato [in De Agostini] perché avevo la licenza di un avviamento professionale, e allora avevo le carte in regola, ma è molto facile che abbia...Io non lo so, voglio dire, ho fatto la domanda e mi hanno assunto. Non so se sono rientrato in quella percentuale oppure andava bene quello che avevo come individuo."

47) E il resto dei suoi conterranei dove ha lavorato, nelle fabbriche?

R.: "Si, per lo più si. Qui c'era la Pavesi, c'era le fabbriche della chimica, dell'azoto. Si, insomma, ci si è un po' sparsi un po' dappertutto."

48) C'è stata poi l'ultima parentesi che è quella del Villaggio Dalmazia. Lei come è arrivato qui e com'era il quartiere ai tempi?

R.: "Io non sono... Io sono qua soltanto da otto anni, perché? Perché la prima occasione che ci è capitata con la mia famiglia - quelle dei miei genitori - siamo andati nelle case popolari dell'INA."

49) L'INA Casas...

R.: "Si. Anche in quel caso là, un certo numero, una certa percentuale veniva riservata ai profughi, per cui la mia famiglia si è sistemata là. Erano due zone: una era Bicocca, e uno era Santa Babbio e ancora un'altra era dalle parti del Sacro Cuore. Si, ma voglio dire, sparsi, chi di qua e chi di là. Noi appena possibile abbiamo cercato di venire. Perché, quando siamo andati via noi, c'era ancora il campo profughi, e poi ho fatto la mia vita quando mi son sposato e ho vissuto in parecchi borghi. E soltanto ultimamente perché il mio reddito cominciava a essere scarso nei confronti delle esigenze di chi mi affittava l'appartamento, e allora mi han detto: guarda che tu potresti andare. Ho fatto la domanda e anche qua, siccome le case non sono del comune ma sono del demanio e sfuggono alle caratteristiche delle case popolari, ed essendo uno per il quale sono state costruite, me le hanno date. Ma son già otto anni."

50) Lei ritorna a Pola?

R.: "Tornavo, ma adesso non posso andare perché ho dei problemi di salute, per cui come faccio a muovermi con la debolezza di cuore che ho adesso? Prima andavo, andavo si."

51) Lei ha nostalgia dell'Istria?

R.: "Oh! Più passa il tempo e peggio è! Dopo che avrai letto le mie cose, capirai quanto... Insomma, anche perché è un'identità, la mia, da istriano, anomala a Novara. Gli altri sono accasati, si sono integrati, e io non sono mai riuscito a integrarmi casa lavoro, lavoro casa. Come dire, ho sempre avuto questa spinta alla creatività, se non c'è qualcosa cerco di crearla."

52) Da Pola e dal suo mare arriva qui a Novara, dove di acqua, ben che vada, c'è quella delle risaie. Io penso abbia fatto un po' di effetto...

R.: "Uh, mamma mia, che estati! Che estati tremende! Perché poi qui tra le altre cose, quando c'è l'afa... Quando c'è l'afa ti tagliano le gambe. Io ho sempre detto - adesso non lo posso dire più per ragioni mie personali -, che a Novara è maglio l'inverno che l'estate. Perché d'inverno se fa freddo ti copri, ma d'estate non puoi andar nudo. Poi il mare mi è sempre mancato, anche se io non ero un patito per il mare. Ma poi, abbi pazienza, quelle rocce bianche e quel mare pulito! Ma io non vado neanche sulla riviera Romagnola. Sono andato per qualche anno a Viareggio perché c'è la fiera del libro. [Sono andato] un po' per lavoro e un po' per passione, però anche a Viareggio andavo a metà della diga a fare il bagno. Noi avevamo un paradiso e non sapevamo di averlo. Adesso tutti corrono là, i tedeschi... Poi un'altra cosa: adesso forse han cambiato - e vogliono entrare in Europa - ma vendevano le case agli stranieri e non agli italiani, lo sapevi? Hai capito? Ai tedeschi si, agli italiani no. No, capisci? Vedi che razza... E vogliono entrare in Europa."

53) Secondo me non ci entreranno...

R.: "Magari, magari! Io spero che perdano anche la partita di calcio coi turchi, venerdì. Insomma, son mie speranze!"

domenica 30 giugno 2024

Cognomi italiani nella Spalato odierna

Oggi i cognomi italiani sono ancora assai numerosi nelle città costiere dell'adriatico orientale. I più numerosi sono i nomi di famiglia risalenti ai tempi del dominio veneto. Il corpo dei cognomi spalatini contemporanei è stato estratto dal Registro dei cognomi croati di Franjo Maletić e Petar Šimunović che si basa sul censimento della popolazione nella repubblica di croazia del 2001. Segue la classificazione semantica dei cognomi originari italiani nella Spalato odierna:

a) cognomi da nomi personali e ipocoristici: Albini, Andreis, Bacci (< Bartolaccio), Benzon, Berlanda, Bernardis, Bertolino, Bettini, Bonomi, Busatto, Cambi, Ciccarelli, Cinotti, Dalbello, Defilippis, Definis, De Marchi, De Pol, Dei Vitturi, Demaria, Demicheli, Donadini, Donelli, Dorigatti, Ermacora, Foscarini, Franchini, Galasso, Ganza, Giaconi, Giovanelli, Grimani, Guadagnino, Lupi, Marchi, Mariani, Marini, Marotti, Michieli, Moranduzzo, Nardelli, Orlandini, Pasini, Petrone, Raffaelli, Righi, Santin, Simonelli, Stella, Tiozzo, Valenti, Vitali, Zanella;

b) cognomi da soprannomi: Bellotti, Bombardelli, Bonacci, Ciotti, Dell'Orco, Delonga, Garbin, Grandis, Grassi, Mazzocco, Moro, Muscatello, Paparella, Pezzi, Pesenti, Piccini, Rafanelli, Rossi, Rosso, Russo, Tartaglia, Torti, Tosti, Tramontana. Zanchi;

c) cognomi da denominazioni di mestieri e cariche: Ballarin, Botteri, Buttiglieri, Delmestre, Fabris, Favro, Sartori;

d) cognomi da etnonimi e toponimi (anche microtoponimi generici): Altavilla, Aviani, Bergamo, Boschi, Casolino, Colnago, Disopra, Fagarazzi, Fioæntini, Gazzarri, Laporta, Massaccesi, Milano, Monteleone, Padovan, Sasso, Torre, Zaratin.

Dalla classificazione risulta che tra i gruppi menzionati il più numeroso è quello composto dai cognomi motivati dai nomi propri e ipocoristici, pari a quasi il 40% del corpus dei cognomi italiani di Spalato. Seguono i cognomi derivati dai soprannomi, motivati da varie caratteristiche fisiche dei portatori. Meno numeroso è il novero dei cognomi motivati da toponimi (generici), come pure quello di cognomi con preposizioni dilde o da.

Paragonando i due corpora si constata che i cognomi italiani erano molto più numerosi a Spalato durante il XIX secolo e che col tempo il loro numero è notevolmente diminuito. Alcuni di questi nomi di famiglia appaiono continuativamente durante gli ultimi tre secoli e i portatori odierni di tali cognomi sono cittadini croati. Si tratta di Andreis, Ballarin, Bellotti, Benzon, Bernardi, Bettini, Boschi, Casolini, Delmestre, Demarchi, Demichieli, Devivi, Dolci, Fabris, Fiorentini, Franchini, Galasso, Ganza, Garbin, Gazzarri, Giovanelli, Marchi, Mariani, Mazzocco, Micheli, Muscatello, Occidentale, Paparella, Rossi, Stella, Torti, Tramontana, Valenti e Vitali.

Cognomi spalatini croatizzati

Nel contesto dei cognomi spalatini odierni, un particolare gruppo è formato da cognomi come ad esempio Agoli, Avelini, Barbača, Barbaroša, Barbir, Berlengi, Bonjolo, Bonači/Bonaći, Brešan, Delmeštre, Demikeli, Ferara, Gašparini, Karbonini, Karuza, Kazinoti, Kazolini, Kolombo, Korda, Machijedo, Macoko, Makijedo, Mikeli, Morožin, Moškatelo, Longin, Paskvali, Paparela, Puljiz, Raguz, Raguzin, Ragužin, Špaleta, Škalabrin, Škarpa, Škarpona, Trevižan, Zanki. Si tratta di cognomi italiani che col tempo sono stati croatizzati.

venerdì 28 giugno 2024

Le condizioni degli Italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia sotto la dominazione austriaca

Raccontate dal grande giornalista Luigi Barzini



Questo breve documento raccoglie 15 articoli pubblicati nel 1913 dal Corriere della Sera a firma di Luigi Barzini, il più importante esponente della stampa italiana della prima metà del 1900.

Barzini può considerarsi il rinnovatore del linguaggio giornalistico, a cui diede un’impronta anglosassone, ed il primo dei grandi corrispondenti di guerra. Non c’è avvenimento nazionale e internazionale che non lo abbia visto in prima fila tra gli inviati: la guerra dei boxer in Cina, la guerra russo-giapponese, il raid Pechino - Parigi, il terremoto di Messina, la prima trasvolata delle Alpi, le guerre di Libia e dei Balcani, l’apertura del canale di Panama , la rivoluzione messicana del 1914, e poi la prima guerra mondiale, il trattato di Versailles, la crisi dell’Alto Adige. Nel settembre del 1913 Barzini fu inviato a Trieste per condurre un'inchiesta sul trattamento che la popolazione di lingua italiana riceveva nei territori sottoposti all'Austria. L'inchiesta, nella quale egli fece suoi molti motivi agitati dal movimento irredentista, destò profonda impressione nel pubblico e contribuì non poco a determinare quell'atmosfera in cui più tardi sarebbe maturato l'intervento italiano. Gli articoli qui riportati, già oggetto di stampa dal giornale “L’Arena di Pola”, tracciano con cronistica precisione la situazione degli italiani della Venezia Giulia prima della Guerra ‘15-‘18.

I quindici articoli, aventi titolo: Il programma confessato, La sobillazione slava, Licenziamenti ed espulsioni, L’agire della polizia, Come si paralizza la vita, Una formula di Governo, Statistica menzoniera, La giustizia, L’imposizione del silenzio, Due pesi e due misure, Per spegnere una civiltà, Sterminio senza sangue, Dominiamo la parola, Una offesa all’Umanità, descrivono situazioni ed avvenimenti che, dopo il trattato di pace del 1947, si ripeteranno con esatta consequenzialità ed in modo ancor più feroce e cruento nei confronti degli italiani che risiedevano in Istria, Fiume e Dalmazia. In essi vengono descritte le azioni che il governo asburgico, anche sulla spinta di un crescente nazionalismo sloveno, per annullare le pulsioni irredentistiche degli italiani residenti a Trieste ed in Istria aveva intrapreso per annientare l’italianità storica, culturale e sociale di quei territori. 

Nel primo degli articoli evidenzia il programma di slavizzazione, condotto dal Principe Konrad Hohenlohe, luogotenente imperiale di Trieste, delle terre poste al di là del nostro confine orientale e successivamente le angherie perpetrate sia dalla popolazione di lingua slava sia a livello istituzionale sulla popolazione di lingua italiana per allontanarla dalle posizioni di rilievo che avessero potuto assumere. Si dice che si trattò di uno “sterminio senza sangue” “per spegnere una civiltà” e nella sua determinazione questo doveva essere considerato “un’offesa al’umanità”, con questo precorrendo, quasi con profetica visione, quello che poi avverrà nell’immediato dopoguerra. Abbiamo voluto riportare queste pagine in quanto esse descrivono come l’odio e la volontà di prevaricazione degli slavi verso gli italiani dell’Istria e della Dalmazia abbia origini molto antiche e come le persecuzioni nei confronti degli italiani si siano ripetute, con rinnovata ferocia sia durante che dopo la seconda guerra mondiale. Basterà per tutte ricordare la frase, riportata dal Barzini e tratta dall’organo di stampa sloveno dell’epoca: 

Noi non desisteremo, finché non avremo sotto i nostri piedi, l’italianità di Trieste. Non cesseremo finché non comanderemo noi Sloveni slavi. 

Questa frase, scritta oltre cento anni or sono, può far comprendere, senza tema di essere smentita da taluni storici revisionisti, come il disegno di annessione delle terre dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia sia stato scientificamente preparato e, puntualmente, eseguito.

Introduzione

Caduto il muro di silenzio ed omertà dettato da opportunità politiche, che per oltre mezzo secolo ha di fatto ignorato i tragici fatti dei nostri confini orientali, si è cominciato a parlare ed a scrivere largamente per portare a conoscenza il dramma delle genti della Venezia Giulia e della Dalmazia di etnia italiana. Se da una parte viene descritto l'orrore delle foibe, dall'altra è giustificato come spontanea reazione alla politica di italianizzazione praticata dal fascismo nei confronti dei cittadini di razza slava, quando addirittura negato. A questo punto viene spontaneo chiedersi: ma prima com'erano improntati i rapporti tra le due etnie? Non è mia intenzione addentrarmi in una analisi storica: mi limiterò a ricordare qualche evento che potrà aiutare il lettore a orientare le sue opinioni. Pola 1907: per la terza volta viene eletto a maggioranza assoluta podestà Domenico Stanich.

Domenico Mostarda, un contadino dell'italianissima Gallesano, ritornando al paese dopo aver votato, cadde lapidato dagli oppositori croati. Caduto l'impero austroungarico ai coltivatori italiani di Dalmazia vengono tagliate le viti. Aggiungo alcuni piccoli ricordi desunti dei racconti di famiglia. Da parte di padre sono di origine dalmata e precisamente di Lissa. A Lissa vi è un posto al mare, una penisoletta interna al porto chiamata San Girolamo dove è posto il cimitero e l'omonima chiesa con annesso convento di frati; credo esistano ancora, non so il convento, ma senz'altro il cimitero e la chiesa. Quando ragazzi italiani vi si recavano per fare i bagni, i frati, tutti croati, li cacciavano tirando loro anche dei sassi. Sempre a Lissa, due mie zie, sorelle di mio padre, subito dopo la caduta dell'impero austroungarico, non frequentarono più scuole tedesche ma quelle croate e l'insegnante correggeva sui quaderni il loro cognome Musina con la S dolce di rosa, apponendo l'accento circonflesso capovolto (š) che trasformava il suono in Musgina, aggiungendo che il suono così risultava più croato. Esauriti questi piccoli accenni personali, è più interessante addentrarsi nei quindici articoli apparsi sul Corriere della Sera nell'autunno del 1913 a firma del grande giornalista Luigi Barzini, quando i rapporti fra l'Austria e l'Italia erano ancora relativamente buoni. Essi descrivono la condizione degli italiani di quelle terre sotto la dominazione austriaca, che, attenta al principio del "divide et impera", favoriva la fedele componente slava contro la componente italiana irredentista.

Invitandovi a leggere attentamente gli articoli in argomento, ritengo opportuno citare in anticipo solo poche righe tratte dall'organo di stampa sloveno "Edinost" di Trieste che ritroverete riportate nel primo articolo del Barzini: "…noi non desisteremo, finché non avremo sotto i nostri piedi, ridotta in polvere, l'italianità di Trieste, non cesseremo finché non comanderemo noi a Trieste, noi sloveni slavi…". Mi sembra che questa frase emblematica racchiuda un preciso programma che avrebbe trovato attuazione più di trent'anni dopo, non solo a Trieste, ma in tutta l'Istria, la Dalmazia ed il Carnaro. Mi è caro anche ricordare che, scoppiata la guerra tra Austria e Italia, moltissimi cittadini austriaci di etnia italiana, specialmente quelli residenti presso la costa compresa tra Pola e Rovigno — zona militarmente interessante per l’Austria — furono deportati verso stazioni di internamento (Internierungstation) poste principalmente in Austria. Le più note furono quelle di Wagna presso Leibnitz in Stiria e Pottendorf-Landegg in Bassa-Austria che, con altre minori, accolsero migliaia di internati istriani, friulani e trentini. L’efficiente blocco navale praticato da Francia, Inghilterra e Stati Uniti verso gli imperi centrali aveva ridotto questi ad una disastrosa situazione alimentare. Dunque se i carcerieri patirono la fame, molto più la soffrirono gli internati. La denutrizione causò l’indebolimento degli organismi con riduzione delle difese naturali. Il colera, il tifo e il tifo epidemico causarono la morte di circa tremila italiani nel solo campo di Wagna, tanto che vi fu costruito un cimitero a loro dedicato.

Prima di passare agli articoli, ritengo cosa interessante e gradita pubblicare alcune fotografie di internati e allegare una carta geografica dell'epoca.

Dott. Pietro Musina






Gl'Italiani della Venezia Giulia visti da Luigi Barzini

presentazione e prologo

Nell’autunno del 1913, allorché i rapporti fra Austria e Italia erano ancora relativamente pacifici, alcuni articoli di Luigi Barzini sulle condizioni degli Italiani di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia apparvero sul Corriere della Sera, destando profonde impressioni nell’opinione pubblica del Paese. Quegli editoriali rivelarono la realtà che stavano vivendo gli Italiani dell’altra sponda dell’Adriatico che, abbandonati a loro stessi, tentavano di battersi in difesa della loro latinità, contro la quale la monarchia austroungarica scatenava passioni e ostilità di ogni sorta per sopraffarla e travolgerla.

Quelle pagine, scritte da un editorialista di vaglia, apprezzato per la sua correttezza e obiettività, meritano di essere riproposte nella forma integrale. A distanza di novant’anni le possiamo considerare come cimeli, non solo nel campo del giornalismo italiano, ma anche come testimonianza della coscienza civile degli Italiani agli inizi del XX° secolo. Nel 1915 a radunarli nella collana editoriale “Problemi Italiani”, fu Ravà & C. Editori in Milano, in un volume intitolato “Gl’Italiani della Venezia Giulia”.

L'Arena oggi intende riproporre quegli scritti, per far conoscere ai propri lettori il pensiero di uno dei più grandi esponenti del giornalismo Italiano di ogni tempo. Il libro del Barzini inizia con un preambolo in cui l'autore descrive la materia su cui dibattere, ovvero la discriminazione fatta dai governanti di Vienna ai danni dei “sudditi austriaci di cittadinanza italiana nella Venezia Giulia” rispetto ai sudditi slavofoni. Governare con il motto “divide et impera” era sistematico dell’impero austroungarico che tentava di far convivere sotto l’aquila a due teste ben 23 etnie, diverse per costume, lingue e professione di fede. Una commistione forzata che a lungo andare alimentò quei fermenti nazionalistici i cui risultati esplosero in tutta la loro drammatica virulenza nel giugno del 1914 allorché l’erede al trono Francesco Ferdinando I d’Asburgo fu assassinato a Sarajevo per mano di uno studente nazionalista serbo di nome Gavrilo Princip.

Scrive Barzini.

Il luogotenente Hohenlohe, inaugurando l’Esposizione Adria a Vienna nel maggio del 1913, ebbe a dire che Trieste non appartiene a nessuna nazionalità. Questa affermazione basta ad illuminare i suoi intendimenti di governo. Negare la nazionalità italiana a Trieste è come negare la luce del sole. Il viaggiatore che arriva da certe regioni del Regno d’Italia deturpate d’esotismo, vivendo a Trieste e nelle paesane città dell’Istria, prova l’impressione di trovarsi a contatto con una nazionalità più pura, più schietta, più viva di quella che ha lasciato. 

L’Italianità vi si compenetra tutta di un calore rovente di cosa percossa. Se la statistica, la cui sincerità ufficiale non vogliamo mettere in dubbio, indica nelle sue cifre generali l’aumento della marea slava su quelle terre, la fisionomia e l’anima della città sono finora immutate. La marea invade a preferenza i campi, mentre gl’Italiani si mantengono compatti nei grossi centri. Nell’interno dell’Istria sono già come grandi fortezze investite dall’invasione, ma verso il mare, ininterrottamente lungo le rive, dove si accumulano i meravigliosi tesori dell’arte, della cultura e della storia italiana, l’italianità è incontaminata, piena, generosa, ardente e fieramente combatte per la sua vita millenaria. Dietro gli slavi invadenti gravita il peso di tutta l’immane massa slava dell’Impero, con le sue organizzazioni sociali e finanziarie, con la sua sete di conquista. Dietro agl’Italiani non c’è nessuno, non c’è niente. Essi sono soli con il loro diritto. Ma non avrebbero nulla a temere per l’esistenza nazionale se contro di loro non operasse tutta la formidabile macchina dei poteri politici, se verso di loro non si svolgesse l’ostilità di tutti gli organi dello Stato, se una artificiosa slavizzazione non avvenisse per volontà di Governo, se agli avversari non fossero prestate tutte le armi dell’autorità, se ogni manifestazione d’italianità non fosse perseguitata come un crimine, quasi che l’essere italiano fosse la più pericolosa forma di rivolta, se non si verificasse a danno degl’italiani una latente e continua violazione di diritti da parte di chi dovrebbe tutelare ogni diritto, se non si rinnovassero contro l’italianità sistemi di oppressione che noi credevamo non fossero più del nostro tempo.”

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/94 del 29 settembre 2001.


Il programma confessato
Gl’Italiani della Venezia Giulia (1)

Che cosa si vuole? La stampa austriaca dei partiti dominanti lo dice senza ambagi e senza veli: far sparire l’elemento italiano in quelle regioni come nella Dalmazia fu fatto sparire dalla “saggia politica” dei governanti.

La stampa slovena lo ripete a gran voce. A Trieste stessa l’Edinost, organo sloveno, ha stampato: “Noi non desisteremo, finché non avremo sotto i nostri piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Non cesseremo finché non comanderemo noi a Trieste, noi sloveni slavi.” Il programma non è soltanto attuato, ma è confessato e proclamato. Si è giunti alla fase brutale ed epica della lotta. L’italianità, che ha tutti contro, non vuol cedere, non vuol morire; sotto al possente ginocchio dell’Impero essa trova forze incommensurabili di resistenza nella profondità della sua coscienza nazionale, nell’orgoglio del suo passato, nella speranza della salvezza. Da quindici secoli essa costituisce un baluardo della latinità, la difesa avanzata della civiltà romana e non può venir distrutta senza che l’equilibrio delle razze si rompa ed il flusso slavo passi dai confini etnici a portare il suo impeto sui confini politici del mondo latino. Non è questa una lotta naturale di nazionalità. Si comprende che gli slavi premano e che gl’Italiani resistano, ma abbandonato alle sue forme sincere tale conflitto non avrebbe mai rappresentato un pericolo per l’italianità. Sono dodici secoli che gl’Italiani e gli slavi si trovano a contatto senza che l’italianità sia mai stata minacciata, fino al giorno in cui il governo austriaco pensò di adoperare gli slavi come un’arma contro l’italianità. Strano ritorno della storia! Un duca Giovanni, che governava l’Istria e Trieste in nome di Carlo Magno, non potendo domare i comuni latini, pensò anche lui di utilizzare gli slavi e incominciò a gettare sui territori comunali le prime tribù slave, selvagge e devastatrici. Ma gli slavi finirono per fermarsi ammirati e domati avanti alla civiltà italiana come avanti ad una fiamma e vi si scaldarono. Simili al leone Androclo, dopo il primo ruggito e il primo balzo, si avvicinarono sottomessi a chi doveva essere la loro preda. I piratae de Carsis divennero i coltivatori dei campi. In seguito, durante due secoli, Venezia ha chiamato slavi dalla Dalmazia, dalla Bosnia, dal Montenegro per ripopolare l’interno dell’Istria devastato dalle pestilenze e dalla malaria. Queste popolazioni gravitarono come satelliti intorno all’italianità che trasformava, fondeva ed assorbiva tutti gli elementi slavi che i bisogni crescenti chiamavano nelle città. Italianizzarsi fu l’ambizione degli slavi più autorevoli. La forza assimilatrice della cultura italiana irradiava da lontano. La lotta attuale sarebbe inverosimile. Fu nel 1866 che essa ebbe inizio. Il primo tentativo di snazionalizzare gl’Italiani risale al 1848. Fu quando il sentimento nazionalistico iniziò a risvegliarsi in Europa come alla squillo di una tromba apocalittica.
L’italianità fu tra le prime a sorgere. L’Austria allora le lanciò addosso l’elemento tedesco e Trieste fu invasa da funzionari, impiegati, agenti concessionari, fornitori tedeschi in sostituzione degli italiani ai quali fu tolta ogni autorità. Un giornale di allora, rivolgendosi agli stranieri calati e importati a Trieste, scriveva queste parole che oggi la censura non tollererebbe: “Viva a tutti! Pensate solo che questa terra è italiana, italiano il lieto mare che la confina, italiano l’animo nostro. Serbate in cuore il tesoro dei vostri affetti nativi che noi rispettiamo ed ammiriamo, ma voi frattanto rispettate il nostro amore d’Italia, perché saremo sempre italiani.” I tedeschi però, che hanno un fondo sentimentale e speculativo, ammirarono troppo la civiltà del paese, finirono per amarla e per lasciarsi assorbire. Divennero italiani.
L’esperimento fallì. Occorreva una razza più rude, meno sensibile, primitiva, fanatica, che opponesse alla persuasione e alla seduzione della cultura italiana l’impassibilità marmorea di chi non capisce. In un’epoca in cui il sentimento della nazionalità tedesca era appena in formazione e quello della nazionalità slava era imprevedibile, il governo Austriaco vide nello spirito di nazionalità italiano l’elemento di maggiore preoccupazione e combatté in esso il principio della nazionalità, non accorgendosi di favorire così il panslavismo, ben altrimenti pericoloso. L’anti-italianismo è rimasto una tradizione più o meno costante di governo, anche quando il principio della nazionalità si è affermato indomabile su tutto l’Impero. Il solco era tracciato. L’italiana doveva restare la cenerentola delle razze. Contro di essa persistono i livori e i rancori lasciati da tutto il rivolgimento politico dal quale l’Italia è sorta. E sebbene per gl’interessi della Monarchia sia ora più utile non combatterla, invece si seguita a combatterla con crescente e definitiva violenza per debolezza, perché le nazionalità padroneggianti lo vogliono, perché lo vogliono vecchie passioni, antipatie e odi ereditari.”

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/95 del 13 ottobre 2001

La sobillazione slava
Gl’Italiani della Venezia Giulia (2)

La persecuzione per mezzo degli elementi slavi cominciò appena l'Austria perdè Venezia (1866 - N.d.R.).
In quell'anno il luogotenente Kellersferg scrisse che i più grandi interessi dello Stato consigliavano di favorire "nel modo più energico" gli elementi non italiani. La formula di governo per le provincie italiane era trovata. Cominciò allora con la collaborazione del clero slavo, ferocemente avverso al pensiero italiano, la sobillazione delle masse slovene e croate, credule, ignoranti, bigotte per le quali la prigionia del Papa sulla paglia (Pio IX - N.d.R.) è ancora un articolo di fede contro gl'italiani. La sollevazione anti-italiana assunse subito una forma violenta, come le sollevazioni dei contadini, e nel 1867 delle bande slave annate, scesero per la prima volta in centri italiani della Dalmazia ed a Trieste, ferendo e uccidendo. Fu la dichiarazione di guerra. Non crediamo inutile risalire a queste origini, per mostrare quanto la persecuzione dell'italianità risponda fin dall'inizio ad un programma inesorabile.

Per comprendere la situazione attuale dobbiamo dare uno sguardo al passato. Non ci soffermiamo a dire con quali frodi, tre anni dopo, alle elezioni del 1870, fu sconfitta l’italianità in Dalmazia, non raccontiamo i famosi scandali elettorali di Sini, il massimo distretto dalmata, dove la votazione fu prolungata per otto giorni perché non si riusciva a raggiungere la maggioranza croata, dove le liste erano piene di morti, dove due compagnie di cacciatori tirolesi furono chiamate a scacciare con le baionette gli elettori italiani che , trattenuti dall’ostruzionismo, si ostinavano anche dopo otto giorni a voler votare, dove il presidente governativo della commissione elettorale fu sospeso telegraficamente perché evitava la frode e manteneva l’ordine, dove due impiegati governativi furono traslocati perché avvisarono il commissario di polizia che si perpetravano irregolarità, dove lo spoglio e il computo dei voti si faceva nell’abitazione del capo croato.
Sono cose ormai antiche. Le varie elezioni che hanno dato la Dalmazia ai croati sono un crimine di lesa civiltà. E’ però certo che da allora la lotta contro l’italianità non è stata in tutti i tempi combattuta con uguale asprezza. Per qualche periodo è sembrato che un senso di maggiore equità o di stanchezza subentrasse ai primi furori di fronte alla vitalità dell’elemento nazionale italiano. Ai luogotenenti implacabili come lo Jovanovich, sono succeduti uomini meno partigiani. Si sono avuti anche dei governanti italiani come il Pino, il Depretis, il Rinaldini, propensi talvolta ad una politica di tolleranza. Il conflitto con gli slavi continuava, ma senza troppe e brutali violazioni. Si riconosceva anche alla nazionalità italiana qualche diritto a mantenere il suo posto, a vivere la sua vita nella sua terra. Per vari anni il barone Rinaldini ha ritenuto che non fosse rigorosamente indispensabile essere italofobo per essere luogotenente nelle province italiane. Tuttavia negli ultimi tempi del suo governo egli sembrò ricredersi. E col suo successore Goess la persecuzione riprese una quindicina di anni fa.

Ma è sotto alla luogotenenza del principe Hohenlohe che, come se fosse sorta una imperiosa e nuova urgenza di slavizzare ad ogni costo quelle terre, tenacemente, ardentemente, disperatamente italiane, ogni indugio è rotto e la violenza contro l’italianità è portata su tutti i campi, apertamente, senza tregua, senza pudore, con il programma mostruoso, chiaramente espresso a Vienna di “far sparire l’elemento italiano” da regioni limpidamente italiane, creando una situazione nella quale pare di rivedere tutta una storia di lontane oppressioni. Osserviamo prima di tutto quei fatti che ci feriscono direttamente, perché rivolti contro agl’italiani sudditi d’Italia e lì occuparsi dei quali costituisce per noi non soltanto un diritto ma un dovere. I decreti luogotenenziali, che impongono al comune di Trieste il licenziamento di tutti i regnicoli impiegati delle industrie municipalizzate, hanno sollevato un giustificato rumore nel campo internazionale perché costituivano un atto, diciamo così, solenne. Ma il loro oggetto, cioè il licenziamento ingiusto di sudditi italiani da ogni sorta di aziende sulle quali possa gravare in qualche modo la volontà del Governo, è un fatto dei più comuni, che si compie in silenzio, nell’ombra, perché la sua enormità non è sempre portata al giudizio del mondo dalla proclamazione di un editto. Ai cantieri navali di San Marco e di San Rocco, d’industria privata ma sovvenzionata, tutti gli operari e gl’impiegati sono stati licenziati. E non si tratta di una misura contro gli stranieri in genere, visto che capi-squadra germanici sono rimasti. Alla fine del 1911, anche al cantiere navale di Monfalcone, egualmente privato e sovvenzionato, fu imposto il licenziamento dei regnicoli rispettandovi tuttavia gli operai inglesi, germanici e di altre nazionalità.

Gl’ingegneri italiani vi furono sostituiti con ingegneri venuti dalla Germania. La compagnia di navigazione “Istria e Trieste” ha dovuto licenziare nel 1912 i suoi impiegati regnicoli e la stessa lettera di licenziamento rivelava l’imposizione. Calcolando le famiglie di queste migliaia di nostri concittadini messi alla porta, quante persone private di onesta risorsa per questo delitto: essere italiani.

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/96 del 27 ottobre 2001.

Licenziamenti ed espulsioni
Gl’Italiani della Venezia Giulia (3)

Non passa poi giorno senza che due, tre o quattro sudditi italiani siano espulsi sotto ogni pretesto ed anche senza pretesto alcuno. Abbiamo una lista di varie centinaia di recenti espulsioni d’italiani, con le relative motivazioni, che costituisce un documento stupefacente. Qualsiasi contatto con la polizia è un motivo di espulsione. Un vetturino italiano riceve una contravvenzione per eccesso di velocità? Espulso. Un italiano per caso urta un ufficiale che lo schiaffeggia e sguaina la sciabola? Espulso. Un regnicolo è stato espulso perché aveva rimproverato acerbamente un giovane che si rifiutava di sposare sua figlia dopo averla sedotta. Un suddito italiano, sensale di terreni e di stabili, è stato espulso perché favoriva la vendita d’immobili d’oltre confine. Una vecchia friulana regnicola, di settant’anni, che dalla giovinezza era occupata come lavandaia presso una signora, è stata espulsa per “motivi di ordine pubblico”. Una compagnia italiana d’operette è stata espulsa perché a Pola un fischio del lubbione ha accolto, durante una rappresentazione di “Sangue Viennese”, la comparsa del soldato austriaco. Ma avremmo di che riempire dei volumi di citazioni, molte delle quali avevano un sapore comico se nella loro essenza non avessero il più doloroso dei significati. Avviene che dei sudditi italiani siano provocati da sloveni, ordinariamente con la frase “andate a Tripoli!”; se rispondono sono indicati alle guardie, arrestati e, sotto l’accusa di perturbatori, espulsi – talvolta lo sono anche se non rispondono: basta che uno sloveno si dichiari insultato. Quando la giustizia proscioglie od assolve da false accuse dei sudditi italiani e ne proclama l’innocenza, la polizia li reclama, li misura, li fotografa e li espelle come se niente fosse successo. Essa ha poteri speciali che le permettono di infliggere un po’ di prigione e di sfrattare senza giudizi per “motivi di speciali considerazioni”. Due marinai italiani accusati di furto da uno sloveno, pur riconosciuti innocenti, sono stati bertillonés ed espulsi. Il padrone di un trabaccolo, accusato di spionaggio, assolto, è espulso. Un italiano è stato espulso perché il sindaco del suo paese ne domandava la presenza per una questione di famiglia. Che più? I processi per spionaggio, per lesa maestà, per provocazione, contro nostri concittadini, fondati su futili motivi sono innumerevoli. Nel luglio 1913 nove regnicoli erano in prigione per spionaggio. L’assoluzione, come abbia visto, non salva dall’espulsione. La polizia ha trovato un nuovo delitto: quello di aver avuto un processo. Esso le offre un vasto campo di attività anti-italiana. Si è stabilito un ufficio apposito per la ricerca di tutti i mandati d’arresto spiccati nel passato, anche il più remoto, contro sudditi italiani, e in base ad essi la polizia espelle anche quando è luminosamente provato che al mandato seguì un proscioglimento d’accusa o un’assoluzione. Metodicamente la polizia ricerca presso le prefetture del regno i precedenti o semplicemente le note caratteristiche di tutti regnicoli sui quali non trova niente da dire e, in ragione delle risposte, li espelle. Così un bravo e responsabile cittadino, da trent’anni impiegato presso una grande ditta commerciale, si è visto sfrattare per un piccolo furto boschivo commesso durante la sua adolescenza. Una condanna di analogo carattere è stata è stata il pretesto di sfratto per un barbiere che lavorava da quindici anni a Trieste. Due ottimi ed alacri operai impiegati in una ditta di installazioni elettriche sono stati espulsi perché una questura aveva rintracciato di loro questa nota: “dediti all’ozio e alle avventure galanti”. Degli onesti cittadini sono stati sfrattati perché il loro nome è stato ritrovato in vecchi elenchi di società sportive sciolte dall’autorità parecchi anni fa. Altri debbono l’espulsione al non aver chiuso bene la porta del negozio, perché ciò è causa di contravvenzione.

Una quantità di operai sono espulsi per vagabondaggio appena arrivano, prima che riescano a ricevere il libretto di lavoro senza il quale non potrebbero essere ammessi, per prescrizione dell’autorità, al lavoro al quale sono chiamati.

L’enumerazione sarebbe troppo lunga, considerando che ogni mese da 80 a 100 regnicoli sono così sfrattati e che in certi periodi la media delle espulsioni arriva a 50 alla settimana. La media annuale si mantiene sul migliaio, non calcolando le famiglie degli espulsi. Sono cifre terribilmente eloquenti.

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/97 del 10 novembre 2001

L’agire della polizia
Gl’Italiani della Venezia Giulia (4)

La polizia agisce così perché essa è uno dei più formidabili organi di persecuzione che si siano creati e messi in movimento contro l’italianità. In un paese dove l’elemento slavo è aizzato contro la massa italiana, in centri italiani, si è commessa questa iniquità: di formare una polizia slava, cioè nemica della popolazione. Nemica per razza, per interesse, per obbedienza. Gli agenti e gli impiegati italiani sono stati sostituiti nella polizia con gli sloveni, salvo un’infima parte. Su cento guardie slovene, appena sette erano italiane, a Trieste. La parzialità è garantita: la polizia onnipotente, che penetra per tutto, che s’ingerisce tutto, che domina tutto, che può far tutto, adopra la sua forza a combattere l’italianità. Immedesima il suo odio al suo dovere. Ogni agente è un poliziotto al servizio di uno sloveno. Quando gli sloveni provocano, le guardie lo difendono. Se gli italiani protestano, le guardie li assaltano. In questi giorni abbiamo visto che a Trieste si può gridare impunemente “Abbasso l’Italia”, ma non si può gridare “Fuori gli slavi” senza provocare quella manovra collettiva di guardie che la polizia nel suo gergo chiama Sturm ohne Pardon – cioè assalto senza pietà. La brutalità della polizia slovena è indefinibile. Abbiamo visto lanciare sciabole ai cittadini che non potevano essere raggiunti. In ogni conflitto, in ogni diverbio fra italiani e slavi, sono stati arrestati gli italiani, mai gli slavi. Sarebbe strano se così non fosse. Nelle recenti dimostrazioni di Trieste i gruppi di slavi venivano protetti dalla polizia schierata con loro contro l’indignazione del popolo. Una comitiva di provocatori sloveni prese a sassate il caffè Puntigham, colpì una famiglia tedesca che vi si trovava, spezzò dei lumi e fu arrestato un giovane cameriere italiano che per difendersi aveva gettato contro gli assalitori la birra rimasta in fondo al bicchiere. E’ un sistema che ha esempi tipici: una banda di sloveni avvinazzati assalì una sera la scuola italiana di Santa Lucia, presso Pirano, gridando ingiurie ignobili; il maestro che cenava a casa sua, nell’edificio scolastico, dopo aver lungamente taciuto, si affacciò invitandoli a lasciarlo in pace con queste parole precise: - “Andè via, lassène, qua semo a casa nostra!” – e fu arrestato e processato per provocazione di tumulti. La polizia è slovena prima di essere polizia.

Non c’è ricorso possibile contro le violenze e le vessazioni della polizia. Un italiano, che ebbe l’ingenuità di andare a reclamare per essere stato ferito da una guardia durante una manifestazione, fu arrestato come dimostrante. Perché ogni dimostrazione d’italianità, anche la più modesta, è un crimine. Tutte le nazionalità dell’Austria possono sfoggiare i loro simboli, i loro colori, le loro bandiere, meno l’italiana. Neppure i regnicoli non hanno diritto a mostrare una bandiera, una coccarda, un nastro, mentre le bandiere germaniche sventolano ad ogni festa tedesca e gli sloveni issano liberamente i colori slavi che sono anche quelli serbi. L’odio per il tricolore italiano arriva a forme grottesche. Nel luglio scorso il direttore della finanza ha obbligato i suoi impiegati a far cambiare i colori di una casa costruita per conto degli impiegati dello Stato: la casa era bianca con un fascione verdastro e il tetto rosso. Ad un canzonettista è offerto un paniere di fiori per la sua serata? Il commissario di polizia si precipita e sequestra il paniere perché ci sono dei fiori rossi che con altri bianchi e con il verde delle foglie formano un insieme terribile. Una signora si maschera da Tosca ad una festa ed è brutalmente tratta in arresto perché dei nastri dei nastri verdi, bianchi e rossi ornano il suo alto bastone. A Trieste, in carnevale, è rigorosamente proibito il lancio delle serpentine, perché una volta dei giovani appartenenti ad una società italiana gettarono delle serpentine che avevano i colori aborriti: i giovani sono stati puniti e anche le serpentine. In una festa di beneficienza di regnicoli furono strappate dagli occhielli le coccarde nazionali. Una signora vestita di bianco non può portare un fiore rosso se ha qualche foglia attaccata al grembo. A Rovigno, un italiano è stato processato e condannato perché la sua barchetta era verniciata di bianco, col bordo verde e la chiglia rossa.
Citando fatti pare di rimpicciolire le cose. E’ difficile dare l’idea di questa immensa e costante offesa al sentimento italiano la quale prende pretesto dai colori, dai nomi, dalla musica, da tutto. Un nuovo albergo di puro stile veneziano, di Trieste, non ha potuto chiamarsi Albergo Venezia; ha dovuto dirsi Bristol.
Un caffè che voleva intitolarsi al Carducci si deve chiamare Caffè Nuova York: Carducci sconta l’odio che la polizia slovena ha per la nostra cultura. Si è proibita l’affissione di un manifesto della federazione degl’insegnanti italiani perché incitava alla propaganda della cultura italiana, mentre si è permesso a Trieste un congresso di insegnanti slavi. Alla Lega nazionale italiana, legalmente costituita per l’incremento dell’istruzione, si proibisce di fare una lotteria per raccogliere i fondi per le sue scuole, mentre si permettono sempre le lotterie delle società nazionali slovene e tedesche. Di tanto in tanto si sequestrano qua e là fiammiferi e le piccole cose che la Lega nazionale vende a suo beneficio e si minaccia di togliere la patente ai tabaccai che ne fanno smercio.

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/98 del 24 novembre 2001

Un capitolo infinito
Gl’italiani della Venezia Giulia (5)

Il capitolo “proibizioni” è infinito. Molte sono bizzarre. A Parenzo si è proibita la cinematografia della battaglia delle due palme. A Pola si è proibita la cinematografia degli ascari a Roma. Si sono proibite a Pola le rappresentazioni di un circo equestre italiano. L’Ernani è un ‘opera interdetta. E non è la sola. Anche le rappresentazioni del Nabucco, dei Lombardi e dell’Attila sono proibite. E poiché si è scoperto che dei cittadini osavano in casa loro ascoltare dal fonografo questa musica troppo italiana – e Dio sa con quale struggente emozione – la polizia ha fatto un sequestro generale, presso un grande magazzino fonografico di Trieste, di tutti i dischi criminali. La condotta dei fonografi è sorvegliata. Un bimbo di cinque anni, a casa sua a Trieste, mise in moto un fonografo che suonò l’inno di Garibaldi e la polizia arrestò e la giustizia processò il padre del bambino, un italiano del regno. L’Ambasciata italiana, che credette ad un equivoco, chiese amichevole spiegazioni e il Governo austriaco confermò freddamente il fatto. Sembra che vi sia una musica che passa come un rintocco di campana attraverso le muraglie vibranti delle case fino alle orecchie della polizia, poiché i delitti musicali commessi entro le chiuse pareti domestiche non sono troppo rari. La musica proibita è tanta!
Non solo la marcia reale, l’inno di Mameli conducono dritti alla prigione, ma anche l’innocente inno a Tripoli è fra le composizioni proibite. Perché lo sono in realtà tutti i canti, tutte le poesie, tutte le espressioni di vita italiana che dicono qualche cosa, bene o male, all’anima della razza. Si cerca così di troncare tutte le file del sentimento, di ogni tenue legame, insieme a questo solido e fiero nucleo d’italianità che si vuol far sparire: si tenta di togliergli ogni nutrimento spirituale, di isolarlo, come si tagliano tutto intorno le radici alla pianta che si vuol far morire.

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/92 del 8 dicembre 2001

Come si paralizza la vita
Gl’Italiani della Venezia Giulia (6)

Il pensiero italiano è un sorvegliato speciale della polizia. Un conferenziere italiano non può parlare se non presenta alla polizia il testo del suo discorso e ne riceve l’approvazione, qualunque sia l’argomento. Chi l’improvvisa non ha il premesso di farlo, nemmeno in privata riunione, anche se intende parlare di Wagner.
Appunto “Wagner” , l’“Infanzia”, “Bismarck”, la “Sicilia” sono titoli di conferenze italiane che la polizia triestina ha proibito. Inutile dire che gli slavi di qualunque provenienza hanno la libertà di parola, specialmente se parlano contro l’italianità. Un giornale sloveno può predicare liberamente il boicottaggio agl’italiani, ma un giornale italiano è sequestrato se dice qualche cosa che possa lontanamente sembrare un incitamento a boicottare gli slavi. Non è nemmeno il caso di dire che vi sono due pesi e due misure: vi è un peso solo, schiacciante, una misura sola, che trabocca.
Ma è inutile continuare l’enumerazione delle vessazioni della polizia. Non ricorderemo che mentreba Praga si permettono gl’immensi convegni ginnastici della gioventù slava, a Trieste ogni gara sportiva, ogni festa atletica, ogni concorso ed ogni corsa sono proibiti alla gioventù italiana. Non raccontiamo dei reiterati scioglimenti delle più innocue società italiane, come la società di ginnastica, che ha il torto di essere grandiosa e di riunire tremila soci, sciolta tre volte: l’ultima per aver partecipato alla onoranze funebri di Verdi. L’accusa di “attentare al nesso dell’Impero” sorge grave di conseguenze per minimi fatti o per vaghe parole. L’altro tradimento può essere scorto in una passeggiata sportiva. La lesa maestà viene rintracciata nel modo di attaccare un francobollo, o in un’ innocua frase come quella di un povero diavolo che malmenato da un doganiere gli disse: “In malora ti e chi te mantien”. Dei giovani italiani ingiustamente imprigionati ebbero la grazia sovrana, concessa prima del giudizio perché non si trovava niente contro di loro e non si voleva confessarlo: essi insisterono per venir processati e seppero che rifiutar la grazia è delitto di lesa maestà. La prigione preventiva è un mezzo comune per punire senza processo. Il carcere è inflitto per il più futile atto, come quello di un giovinetto italiano che durante una manovra militare disse: “Un due, un due”. Ma tutto ciò che abbiamo narrato è niente. Rappresenta la parte più visibile e più urtante dell’azione della polizia slovena contro l’italianità, ma non la più dannosa.
Bisogna tener presente che, mentre negli altri paesi civili i cittadini posso fare tutto , salvo quello che è espressamente vietato, nelle provincie italiane dell’Austria i cittadini non possono far nulla, salvo quello che è loro espressamente permesso. Non si può esercitare un’industria, un commercio, una professione, un mestiere senza ottenere dall’autorità un esplicito permesso, una patente, un certificato, una licenza, attraverso tutto un macchinario burocratico con petizioni, moduli, bolli, visti, dichiarazioni. Non vi è occupazione modesta, non vi è lavoro umile che non richieda l’autorizzazione. Tutte le forme di attività umana hanno bisogno di un beneplacito. Nel resto dell’Austria, questa funzione eccessivamente tutrice dell’operosità cittadina è affidata alle autorità comunali, in virtù delle così dette “attribuzioni delegate” per le quali i municipi sono incaricati di varie mansioni concernenti la leva militare, l’esazione delle imposte e gli affari industriali con il relativo rilascio di patenti e certificati. Così era anche a Trieste fino a quattro anni or sono, quando il programma anti-italiano, svolgendosi con la fatalità della vite che stringe, fece un rude passo in avanti e le attribuzioni delegate furono abolite per la città di Trieste.
Naturalmente si misero degli slavi a reggere gli uffici che sbrigano queste funzioni, e che erano prima in mani italiane, proseguendo così nella slavizzazione degl’impieghi, e la concessione dei permessi di ogni genere scivolò nella mani della polizia slovena. La polizia ha in pugno la sorte di tutti, presiede invisibile a tutte la manifestazioni della vita civile. Non un certificato è concesso senza il nulla osta della polizia. Gl’italiani che chiedono di esercitare una professione, di aprire un commercio, vedono prolungarsi
per anni una via crucis di pratiche burocratiche, le quali quando sono esaurite – poiché tutto si esaurisce a questo mondo – concedono spesso ad un diniego “per speciali considerazioni”, mentre gli sloveni subito ricevono quello che domandano. Da una parte si paralizza, dall’altra si favorisce. Un’antica contravvenzione, l’avere appartenuto a società disciolte, essersi mostrati troppo italiani, sono barriere insuperabili non soltanto per darsi alle carriere degl’impieghi pubblici, ma anche per ottenere il diritto di commerciare e lavorare. I regnicoli poi, a meno che non siano operai già ingaggiati o che risiedano da molti anni sul luogo e occupino una situazione vecchia, non possono arrivare a ricevere un certificato che li abiliti ad esercitare la loro professione. Quando nulla si può obiettare contro di loro, sono trascinati attraverso i più tortuosi meandri del funzionalismo, debbono cominciare dieci volte il giro per un timbro che manca per un bollo rosso che deve essere blu, per una vidimazione che non è formale, per una perizia che non è legale, finché abbandonano la partita o arrivano al diniego. I casi sono innumerevoli. E non si tratta sempre di professioni importanti: un povero barbiere gira da tre anni per avere il certificato che gli permetta di aprire un negozio; un manovratore di cinematografo non è stato neppure ammesso all’esame necessario per l’abilitazione – ci vuole l’esame per tante cose – e la ragione è stata detta chiara e brutale: la sudditanza italiana. Vi sono certe patenti di numero limitato che si possono comprare da chi le ha avute prima, come quelle per i caffè, i restaurants, le birrerie, ma se un italiano le compra, l’esercizio è chiuso per “misura d’ordine pubblico” oppure la patente è ritirata senza spiegazioni. Gli sloveni hanno la strada spianata sui cadaveri di interessi italiani uccisi ad uno ad uno. Meno clamorosa, meno appariscente delle altre quest’opera italianofoba della polizia prosegue giorno per giorno, ora per ora, senza urti, paziente, sistematica, sicura, implacabile, difesa da una rete di procedure, di regolamenti, di leggi capziosamente interpretate e penetra per tutto, immobilizza, chiude, stringe, soffoca, a grado a grado, impercettibilmente, quelle attività e quegl’interessi italiani che cadono nel raggio del suo lungo e lento gesto. Con questo potere la polizia spesso impedisce quello che non può proibire. Negando o non concedendo le patenti necessarie per la rivendita, essa ferma la circolazione di periodici e di giornali italiani che nessuna interdizione colpisce. Potrei citare vari casi, scelgo il più significativo: a Trieste non si sono dati permessi di rivendita per il Corriere dei Piccoli, il giornale più difficile a sequestrare al mondo. Ma è uno strumento di educazione italiana.

tratto da: L’Arena di Pola n° 31/92 del 8 dicembre 2001

Una formula di Governo
Gl’italiani della Venezia Giulia (7)

Poiché l’eliminazione dell’elemento italiano è diventata formula di governo, alla mentalità dei funzionari austriaci l’italianità non è più un abuso da sopprimere a beneficio degli slavi autorizzati. Fissandosi in mente questo concetto ufficiale di contrabbando, d’infrazione alle volontà superiori, di contravvenzione alle tendenze statali, col quale viene considerata l’italianità da parte delle autorità e della burocrazia slava, si afferra la logica dei fatti. Tutto si spiega. Si capisce come si sia potuto mettere sotto processo un povero i.r. impiegato giudiziario accusato di aver fatto battezzare sua figlia in italiano e di averla chiamata Mafalda e non ci stupisce che il tribunale l’abbia condannato e nemmeno la Suprema Corta di Cassazione di Vienna abbia confermato la condanna. L’aver diretto un concerto italiano ha procurato ad un impiegato un procedimento disciplinare, nulla di più chiaro. Tutta una nuova categoria di offese punibili sorge allo spirito.
Anche le glorie italiane sono illegali, visto che non esistono sulle storie approvate dalla censura ed è naturale che un capitano distrettuale abbia fatto svellere il leone di San Marco dalle mura di Monfalcone, con l’approvazione del Luogotenente, per stabilire che il passato è proibito per ordine superiore.
Ai funzionari italiani è stata chiusa ogni carriera; essi sono saltati nelle promozioni, liquidati, dispersi. A Trieste non vi sono quasi più impiegati governativi italiani, salvo nei subalterni dove rappresentano l’1,25%. Persino i portalettere sono slavi, slavo è il direttore della posta e i concorsi per tanti impiegati non sono nemmeno più annunziati nelle stesse provincie italiane alle quali gl’impieghi sono destinati. Il concorso per posti di ingegneri della luogotenenza è stato un mistero per gli italiani e i posti sono stati dati a sei boemi. Gli sloveni della regione con la migliore volontà non potevano fornire tutti i funzionari necessari, e il Governo li ha presi da Praga, da Lubiana, da Graz; ogni paese è buono purché slavo. E’ regola costante nell’amministrazione austriaca che gl’impiegati conoscano perfettamente la lingua della regione alla quale sono destinati, ma trattandosi di slavizzare si deroga da questa consuetudine per gli impiegati destinati alle terre italiane. Di modo che in certi uffici, come al Catasto, si slavizzino per deficienza ortografica anche i nomi delle località e delle persone. La sostituzione degli slavi agl’italiani in tutti i dicasteri dello Stato, e fuori fin dove può giungere la volontà governativa, ha non soltanto lo scopo di influire e di pesare direttamente sulla vita italiana con tutti gli organi e l’azione del potere, ma anche di formare nuclei di popolazione slava che s’incastrino nella massa italiana delle città, che s’insedino materialmente compatti in certi quartieri per costituire dei centri d’interessi e di attrazione agli slavi di fuori, i quali sono protetti in ogni loro inizio. In un sol colpo, due anni fa, settecento famiglie di ferrovieri sloveni furono concentrate nel quartiere di San Giusto a Trieste – tre o quattromila persone – e quattrocento famiglie di ferrovieri sloveni vennero stabilite a Gorizia. Si cerca di evitare la dispersione degl’invasori nella popolazione, perché la cultura italiana ha troppa potenza di fascinazione e di assorbimento; si creano raggruppamenti che resistano e che crescano nel corpo dell’italianità come tumori fino ad ucciderla.
Questi procedimenti danno alla lotta degli aspetti strategici: sono delle prese di posizione; costituiscono degli attacchi che possono venire segnati sulle carte come i movimenti d’un nemico. L’offesa e la difesa assumono la forma palpitante di una battaglia combattuta; le città sono piene di quella risoluzione guardinga di chi aspetta la sorpresa; tutti si chiedono quale sarà il nuovo colpo. L’invasione risponde a dei calcoli elettorali; è intesa a portare squilibri nelle forze di certe circoscrizioni. Un anno di permanenza dà diritto al voto. L’assolutismo sarebbe la salvezza garantita ma la tirannia di un sistema rappresentativo come quello austriaco si presta ad ogni violenza. Esso permette di naturalizzare apparentemente delle regioni con lo spostare i confini di una giurisdizione. Spieghiamo il fatto. Dalle origini della storia gli italiani abitano le regioni costiere e da dodici secoli essi confinano con gli slavi. Il popolo istriano dice che anche oggi “Imperio” all’interno, mantenendo per traduzione l’antica linea di divisione fra la sua terra e il paese interiore.. Per bilanciare, e col tempo soverchiare, l’italianità purissima delle città e della campagna costiera, si sono create delle giurisdizioni artificiose, che aggregano vaste porzioni di territori abitati da slavi a pezzi di città. Ogni distretto elettorale della città di Trieste, per esempio, ha annessa una larga zona di campagna slovena che dovrebbe far parte di altri centri comunali. Per schiacciare l’italianità di Zara, quando fu dato il suffragio universale, nel 1907, alla città furono annessi tanti distretti croati da costituire il più vasto collegio elettorale della Monarchia Austroungarica, con circa ventimila elettori. I limiti naturali delle giurisdizioni dati dalla terra, dalla razza, dalla storia, dagli usi ed anche dai concetti amministrativi delle autorità austriache in tutte le altre parti dell’impero, sono violati nelle provincie italiane.
tratto da: L’Arena di Pola n° 32/00 del 22 dicembre 2001

Statistica menzognera
Gl’Italiani della Venezia Giulia (8)

È per questo che le statistiche conferiscono spesso un’impressione completamente falsa sulla popolazione dei luoghi, perché riferiscono a località italiane cifre e dati che abbracciano anche vaste zone che non furono etnicamente italiane. Per tanti centri, per la statistica si crederebbe la slavizzazione già avvenuta e nulla vi è di più mutato nella composizione fondamentale del popolo, più italiano che mai. La massima parte degli sloveni attribuiti a Trieste non stanno a Trieste. L’italianità non è finora contaminata sui luoghi ma sulla carta. Ognuno comprende ciò però l’importanza di questi artificiosi spostamenti di cifre quando si pensa alla loro influenza elettorale, la quale tende a formare delle maggioranze slave perché nei paesi italiani possano insediarsi amministrazioni slave, provinciali e comunali, che tolgano all’italianità ogni forma di vita pubblica, ogni voce, ogni diritto. Sotto questo punto di vista bisogna anche considerare il valore della forzata importazioni di slavi che compiono il governo e chi interpreta i desideri di governo. Essa è lenta e continua. La guerra feroce fatta ai regnicoli non è soltanto uno sfogo di brutale antipatia, ma un pezzo per rendere vacanti dei posti che slavi dell’interno possano occupare; si cerca di chiudere la strada alla immigrazione italiana attirata dal lavoro, perché si formi un vuoto di mano d’opera che attiri braccia e attività slovene e croate. Quando il nuovo porto di Sant’Andrea a Trieste si è aperto, gli slavi hanno tentato d’impossessarsene facendo scendere una banda di contadini sloveni che vi sarebbe stata esclusivamente impiegata se una insurrezione di braccianti italiani non avesse consigliato di soprassedere. Quando il popolo sloveno ha bisogno di qualche nuova istituzione nazionale, non è nel suo paese che viene eretta, come sembrerebbe logico, non è nella Carniola, non a Lubiana, ma è in città italiana.
Recentemente gli sloveni si sono accorti di potere avere un ginnasio sloveno. La grammatica slovena è nata e si è formata da poco e la lingua slovena, primitiva, mancava di una terminologia sufficiente per gli studi secondari (questa è la civiltà che viene opposta all’italianità) di modo che scuole superiori slovene avevano bisogno di usare la lingua tedesca; oltre le elementari, le scuole erano perciò sloveno-tedesche. Ora i progressi fatti sono sembrati sufficienti per emancipare il virgulto sloveno dal sostegno tedesco e un ginnasio puramente sloveno sorge. Dove? A Gorizia. Come un ginnasio croato è sorto a Pisino; come una scuola magistrale sorge pure a Gorizia, per creare artificialmente delle correnti d’infiltrazione, per formare dei focolai slavi, per allacciare gli interessi anti-italiani in centri italiani, per insinuare una punta di cuneo nelle membra più vive dell’italianità. E sono 65 anni che non si trova posto per una università italiana, che fin dal 1848 la Commissione Direttiva del Municipio di Trieste chiedeva al governo, ritenendola indispensabile. Ma l’opera di sopraffazione non si limita a quello che abbiamo esposto. C’è ben altro.
Conseguenze più dolorose ha la violenta slavizzazione della giustizia. I tre tribunali esistenti a Trieste, e cioè quello provinciale, quello commerciale e quello d’appello, sono tutti e tre presieduti da magistrati slavi. I giudici italiani, saltati nelle promozioni, sono pensionati e sostituiti con slavi. Proprio in questi giorni due degli ultimi italiani rimasti nella magistratura sono stati messi a riposo. Fino nel personale subalterno la giustizia si fa slava. Degli avvocati slavi sono arrivati dall’interno e si sono messi all’opera. E mentre la legge non ammette che i tribunali di Trieste siano bilingui, le lingue slave vi hanno usurpato una posizione minacciosa.
Gli slavi che vivono nei territori italiani, ed anche più in là, parlano correntemente la lingua del paese, tanto è vero che anche nelle dimostrazioni non gridano che in italiano e che nella Narodni Dom, la sede dell’agitazione slovena, si sono dovuti affiggere tanti cartelli con su scritto “ E’ proibito parlare l’italiano”. In tribunale, fino a pochi anni fa, se per caso un imputato o un testimonio slavo non conosceva l’italiano, si chiamava l’interprete. Cominciò un presidente slavo a tradurre lui stesso. Poi finì col non far più tradurre e a pretendere che gli avvocati italiani capissero. Così venne di regolamento che tutti gli slavi fingessero di non sapere l’italiano. I dibattiti in sloveno e in croato dilagano, anche quando non vi partecipa di slavo che un perito, salvo a trasformarsi improvvisamente in italiano se l’utilità della discussione lo consiglia, come se la conoscenza dell’italiano sopraggiungesse per virtù divina. Manifesti giudiziari in sloveno hanno vita contro la legge stessa.

tratto da: L’Arena di Pola n° 1/02 del 15 gennaio 2002

La giustizia
Gl’Italiani della Venezia Giulia (9)

L'invadenza dello sloveno nel campo della giustizia ha conseguenze che vanno oltre alla offesa e alla sopraffazione. In un paese dove tutti capiscono l’italiano e pochissimi lo slavo, l’uso della lingua slava nei tribunali viene a formare un monopolio. Per poco che entri in una causa l’interesse o la persona di una slavo, tutti gli avvocati italiani, che formano la quasi totalità del foro triestino, sono disarmati di fronte ad una deposizione od ad un atto in lingua ignota. Gli strumenti della difesa legale della popolazione sono in parte paralizzati a beneficio degli avvocati slavi. Data la situazione, per una quantità di processi essi debbono essere preferiti e concentrano nelle loro mani una mole sempre maggiore di affari e d’interessi. La persuasione pubblica, giusta od ingiusta ma vera, di una parzialità della giustizia, crea un fosco prestigio all’avvocato slavo. Inoltre lo studio dello sloveno è così imposto alle categorie di persone che hanno contatti professionali con la giustizia. Quello che sembrerebbe una ostilità linguistica, è in realtà, un formidabile mezzo di penetrazione, di accaparramento, d’imposizione, di oppressione. Rimaneva nel campo giudiziario una istituzione che sembrava inattaccabile, quella dei giurati. Vi era questo tribunale di giudici cittadini la cui snazionalizzazione sembrava impossibile. Ma la giustizia tutto può, quando vuol essere ingiusta. Con un allargamento di circoscrizione giuridica si è riusciti a portare nelle liste dei giurati un’alta percentuale di slavi e con un’interpretazione tortuosa della legge si sono potuti scegliere i giurati con una proporzione del 75 per cento slava. E’ vero che la cosa ha sollevato indignate proteste e una prima nomina è stata annullata, ma il sistema persiste.
La legge dice di scegliere a preferenza “coloro che per assennatezza, probità, retto pensare, fermezza di carattere, e, dove parlasi più lingue, a conoscenza delle lingue, danno affidamento, ecc.” e di tutte queste qualità non se ne considera che una, l’ultima, nominando a giurati gli slavi, anche quando notoriamente mancano loro molte delle altre. Il che dimostra del resto, una volta di più, come gli slavi, sia pure delle più umili condizioni, conoscano l’italiano.
Anche il tribunale commerciale resisteva alla slavizzazione, in virtù degli “assessori mercantili”, ossia di giudici profani proposti dalla Camera di Commercio e nominati dal Ministero.
La Camera di Commercio proponeva come più idonei dei commercianti italiani, ma il Ministero, violando la legge, nomina per conto suo anche degli slavi. Così nella Commissione di avvocati che esamina i giudici, il Ministero nomina degli slavi derogando dalle proposte della Camera degli avvocati. Lo slavo viene incastrato per tutto e talvolta contro le più esplicite disposizioni legislative.

Quale valore intrinseco abbia poi questa giustizia noi non vogliamo discutere. Osserviamo però che nella spietata lotta verso l’italianità essa porta un grande contributo. Gli abusi della polizia, le violenze, le brutalità, le vessazioni, le iniquità contro gli italiani non sarebbero possibili se la giustizia non vi ponesse l’approvazione delle sua sentenze, se essa non cercasse nella legge la loro giustificazione, se essa non respingesse i ricorsi, dimostrando solidarietà dei poteri in un sistema persecuzione nazionale. La legislazione austriaca, che nulla abroga del passato, è così complessa e così elastica e lascia tali libertà alle autorità politiche che spesso l’arbitrio vi si può muovere senza urtarne i limiti. I magistrati compiono normalmente la funzione degli ulema nel mondo musulmano, i quali, come si sa, hanno lì incarico di rinvenire nei testi sacri il versetto che calzi alla circostanza, la parola che metta d’accordo il Corano e qualsiasi atto del Padiscià. La giustizia trova nei codici l’approvazione di tutto: sequestri, proibizioni, scioglimenti, arresti. I tagli più ingiustificabili della censura sui giornali italiani ricevono l’invariabile appoggio di una sentenza di tribunale. La giustizia ritiene fra le sue funzioni quella di toglierla parola alla stampa italiana se in questa parola si può intravvedere un rimprovero o un rammarico. Il silenzio è imposto con tanta frequenza che L’Indipendente di Trieste ha potuto solennizzare nel 1913 il suo millecentodecimo sequestro. Non v’è cautela di linguaggio e delicatezza di forma che basti per salvare il pensiero dai rigori dell’autorità quando il pensiero è in troppo chiara difesa dell’italianità. E’ su quello che si compie contro l’italianità che si prescrive il silenzio.

tratto da: L’Arena di Pola n° 2/02 del 31 gennaio 2002

L’imposizione del silenzio
Gl’Italiani della Venezia Giulia (10)

Il giornale italiano deve parlare in sordina, dire e non dire – piuttosto non dire. E non basta neppure questo, perché Il Piccolo è stato una volta sequestrato per i puntini che seguivano una frase incensurabile di D’Annunzio. Il tribunale sentenziò che sulla frase non c’era nulla da eccepire, ma che i puntini permettevano al lettore d’immaginare al loro posto un pensiero sovversivo. E’ un nuovo principio giuridico.
Altre volte Il Piccolo, essendo stato sequestrato, ha fatto scalpellare da piombo della stereotipia le frasi censurate - per non perdere tempo a ricomporre la pagina – ed è stato ri-sequestrato a cagione che gli spazi bianchi lasciati dalle frasi scomparse. Perché, dicevano le sentenze, gli spazi bianchi costituiscono una protesta.
Nessuna legge austriaca permette questi abusi, ma per colpire l’italianità si può violare la legge. Le più miti ed esatte narrazioni di cronaca sono spesso sequestrate col pretesto che cadono sotto l’articolo 300 del Codice Penale, il quale punisce la narrazione dei fatti non veri diretta a suscitare dispregio per le autorità.
I giornali offrono semprebal tribunale la prova dei fatti narrati che è invariabilmente respinta.
Così, in occasione delle ultime dimostrazioni di Trieste, anche le più blande e succinte cronache dei giornali italiani sono state sequestrate perché potevano lasciare a brutalità della polizia e solo L’Indipendente s’è salvato raccontando che le guardie erano gentilissime, che per colmo di cortesia parlavano persino in francese, ma che tenendo per caso le lori mani tese e chiuse a pugno dei cittadini sbadati vi urtavano contro violentemente facendosi male. Il sequestro, quando qualche cosa di importante è in discussione, avviene automaticamente per una frase qualunque scelta a caso; i giornali sono spenti uno ad uno come candele. Le redazioni sanno benissimo quando sta per arrivare un sequestro, non per quello che hanno scritto ma per quello che è successo. Si sopprime la discussione. E’ eccezionale che si proceda per reato di stampa, perché sarebbe giudicato dai giurati che coscienziosamente riconoscerebbero l’innocenza. Vien scelto sempre il così detto procedimento soggettivo, il quale non colpisce lo scrittore, ma il giornale. E si cerca di rendere il sequestro più dannoso annunziandolo solo quando la tiratura è completa. Allora la polizia arriva con dei furgoni e si carica l’edizione intera. E’ inutile ricorrere contro le sentenze di sequestro, anche le più assurde. Se il tribunale per caso ne ritira una, la Corte d’appello la conferma. Non c’è niente da fare. Tanti sequestri capitano perché il giornale ha commentato favorevolmente l’assoluzione di italiani ingiustamente accusati d’altro tradimento o di lesa maestà, o di attentato al “nesso” dell’Impero: quando vi è ricorso della procura di Stato non si può parlare che in senso favorevole all’accusa. E’ proibito parlare, anche in succinto, di argomenti colpiti da sequestro ed un sequestro seppellisce così qualunque fatto. L’autorità ha un diritto di rettifica; il giornale deve stamparla e non può dire nulla che contrasti con le affermazioni che sono in essa contenute.
Recentemente la polizia, in forza di questo diritto, ha pubblicato che non era vero che nella nota dimostrazione gli sloveni sono arrivati sotto al Consolato italiano a gridare “Abbasso l’Italia”; e mentre tutti sanno che è sacrosantamente esatto, la rettifica ufficiale suggella la verità.
Vi è stato persino un periodo in cui Il Piccolo era obbligato a stampare nelle sue colonne della propaganda slovena, per l’abusiva interpretazione di un altro diritto di rettifica con il quale qualunque cittadino che si senta leso dalla pubblicazione di fatti inesatti può imporre la smentita, con altrettanti dati di fatto, lunga fino al doppio dell’articolo da cui trae origine, da stamparsi nella stessa parte del giornale e con gli stessi caratteri. Una sentenza del tribunale obbligò Il Piccolo a considerare come rettifiche legali delle lunghe apologie slovene che pretendevano rispondere ad articoli di giornale ed a stamparle. C’è della derisione e dell’oltraggio. E’ come essere costretti ad aprire la propria casa al nemico perché vi spadroneggi e vi porti l’espressione più offensiva e beffarda del suo odio. E bisogna tacere.
Il giornalista onesto che vede, che sa, che sente, deve vivere laggiù quell’atroce sensazione di chi nell’orrore dell’incubo vuole gridare disperatamente aiuto e si accorge che non ha voce.

tratto da: L’Arena di Pola n° 3/02 del 15 febbraio 2002

Due pesi e due misure
Gl’Italiani della Venezia Giulia (11)

Il giornale italiano in Austria vive sotto la minaccia costante dell’arbitrio. Deve spesso ridursi a riportare dai giornali viennesi delle corrispondenze su fatti di cronaca locale che non potrebbero essere raccontati direttamente senza la salvaguardia di un titolo di un giornale austriaco. L’opinione pubblica italiana non deve essere illuminata, guidata e, ben sovente, nemmeno informata.
E’ inutile dire che la stampa slovena è libera, che l’Edinost può lanciare su terra italiana tutti i gridi che vuole contro l’italianità, servire da coordinatore e aizzatore dell’ostilità slovena e che il giornalucolo della Luogotenenza, nel suo italiano, può vomitare quotidiane ingiurie contro l’italianità che spesso chiama “la cricca imperante”, inveire contro i regnicoli, insultare l’Italia, deformare i fatti per tentare di suscitare nel più basso volgo l’odio contro le classi intellettuali. La natura di questo libello ufficioso, che non ispira altro sentimento se non il ribrezzo per la maschera d’italiano che si è messo, è rivelata da fatti concreti. Nel 1912, per esempio, questa specie di giornale fu processato per querela di diffamazione sporta da un funzionario di sangue italiano, il quale ebbe l’offerta di una alta decorazione se avesse desistito; non desisté e, forte di prove luminose, fece condannare due redattori responsabili; costoro furono immediatamente graziati e, quasi come premio, uno di loro – slavo i.r. impiegato di dogana – ha avuto il posto di perito revisore al Tribunale. La diffamazione consisteva nell’accusa d’italianità pericolosa all’ordine. Ecco con quali mezzi, mentre alla stampa italiana è messa pena d’angoscia, si tenti di far credere, con una ignobile parodia di stampa italiana, ad un dissenso nel compatto sentimento della nazionalità.
La fessura d’un dissenso è costantemente cercata sulla corazza dell’italianità. Non possiamo non ricordare la storia del partito socialista triestino che è stato coltivato dal governo per disgregare la coesione nazionale. In un documento riservato che abbiamo avuto sott’occhio, il quale traccia la tattica di un partito ufficioso cristiano-sociale, abbiamo letto questa frase “essendo fallito il tentativo di combattere il partito nazionale col socialismo”. E’ una confessione esplicita.
Il socialismo, essendo per fondamento avverso alle lotte di nazionalità, si prestava naturalmente ad essere un potente mezzo per sottrarre forze popolari alla lotta nazionale e venne favorito concedendogli la più ampia libertà. Tutte le conferenze di socialisti furono permesse, Ferri poté parlare di Garibaldi a Trieste, tutti gl’inni furono rispettati se cantati dai socialisti, da quello dei lavoratori a quello di Garibaldi, dalla Marsigliese all’Internazionale.
Una gioventù affascinata si gettò nel socialismo come una carcerato verso una porta aperta. V’era libera uscita dalle strettoie anti-italiane; chi voleva respirare, gridare, agitarsi non aveva che da seguire le bandiere rosse. Quando il partito fu forte, combatté la sua lotta di classe nell’ambiente immediato, cioè contro la borghesia italiana, contro il capitale italiano, l’iniziativa italiana, l’autorità italiana, il pensiero italiano. Fu aiutato perché era utile. L’Edinost scriveva: “I nemici dei nostri nemici sono nostri amici”.
Commentando la vittoria elettorale sloveno-socialista del giugno 1911, lo stesso giornale scriveva: 
“dimostrando che gli sloveni aiutarono i socialisti, lo slavismo ottiene una vittoria. I socialisti ci aiutano qui.
Già nella questione della Lega Nazionale Italiana si sono comportati bene …”. Una manifestazione socialista era sempre pronta per neutralizzare una manifestazione italiana, come ad un comando. Per vivere e vincere i socialisti hanno accettato ogni intesa, ogni legame, ogni complicità nell’azione sloveno-governativa contro l’italianità. Essi hanno incluso, nel 1909, dei candidati sloveni alla loro lista nelle elezioni amministrative per rompere la tradizione fin’ora inviolata della italianità della rappresentanza cittadina. In compenso, nelle elezioni politiche del 1911 ebbero i voti slavi, dati con questa chiara motivazione dell’ Edinost: “ Votammo per i socialisti perché realmente vogliamo rompere le forze nazionali italiane”. In seguito l’azione socialista, almeno in questa forma, è declinata. La nostra razza può sopportare tutto, meno l’ingiustizia. La persecuzione ad oltranza degl’italiani ha rafforzati i vincoli della solidarietà di sangue anche nelle classi umili. Le ultime elezioni di Trieste sono significative. Ma abbiamo voluto illustrare questa parentesi socialista non solo per illuminare dei metodi di governo che insinuano ovunque il combattimento contro l’italianità, ma anche per contribuire a dissipare opinioni errate fra i socialisti d’Italia intorno alle vere situazioni delle province italiane dell’Austria. Per un certo periodo alcuni di loro hanno portato la forza di una solidarietà al socialismo triestino, la sola che potesse varcare le frontiere, illudendosi sulla universalità dell’idea socialista e sulla fraternità delle razze. La lotta per vivere passa avanti alla lotta per migliorare; quando un popolo combatte per esistere, se è distolto dalla sua battaglia, è morto. Prima essere, poi divenire. I problemi nazionali si comprendono poco nei luoghi dove sono risolti; ma i nostri socialisti, per i quali una questione dell’italianità non esiste qui, non possono non sentirla questa santa italianità al pensiero doloroso che col tempo Trieste possa essere Trst e che il suo popolo non li capisca più e parli sloveno in virtù dello sviluppo di quelle scuole slave che il socialismo ha voluto e di quella potenza slava che il socialismo ha difeso.
Nelle scuole è certamente una delle forze di conservazione della nazionalità e per questo anche contro la scuole italiane si volge accanita l’ostilità del governo. Conosciamo la storia dell’Università italiana rifiutata da sessantacinque anni. Quale inezia! Non si sa comunemente che il governo ha rifiutato agl’italiani tutte quante le scuole fondate da Napoleone, il governo non creato mai più una scuola italiana.
Perché dovrebbe dare l’Università quando non ha dato neppure un ginnasio? Tutto quello che c’è in fatto d’istruzione pubblica gl’italiani se lo pagano da loro sui bilanci municipali, su quelli provinciali, sui fondi della Lega Nazionale.

tratto da: L’Arena di Pola n° 4/02 del 28 febbraio 2002

Per spegnere una civiltà
Gl’italiani della Venezia Giulia (12)

Per legge il governo doveva fondare e mantenere le scuole medie italiane nelle province italiane. Esso non vi ha fondato e non vi mantiene che delle scuole tedesche e slave, esclusivamente, nelle quali l’ignoranza dell’italiano è doverosa, specialmente da parte dei professori che dovrebbero insegnarlo. Il governo inoltre sovvenziona quelle scuole elementari slovene che non può mantenere. Cinquantamila corone che in bilancio si dicono destinate alle scuole popolari di Trieste, vanno notoriamente alla scuola slava dei Santi Cirillo e Metodio. Quindici maestri che nel bilancio figurano tra il personale delle scuole governative tedesche di Piazza Lipsia a Trieste, sono invece slavi che insegnano in scuole private slovene della città. E’ un sotterfugio per favorire gli slavi senza urtare i tedeschi. Per il concetto che il governo ha di queste funzioni è interessante sapere che i professori governativi prendono il soprassoldo dovuto ai funzionari nei paesi di conquista.
Durante lunghi anni, il governo, pur rifiutando di dare un posto ufficiale alla cultura italiana e considerandola quasi come inesistente o abusiva, non ha impedito agli italiani di crearsi e di coltivare con le loro forze il loro sistema di scuole e si è limitato a sorvegliarne l’andamento, a vigilarne rigorosamente i programmi, gli esami, le nomine degl’insegnanti, seguendo la legge in tutto salvo che nella spesa. I municipi e le giunte provinciali italiane non hanno trascurato i bisogni degli slavi ed oltre alle scuole italiane hanno fondato scuole bilingui e scuole puramente slave in quei territori nei quali la popolazione è prettamente slava. Basti dire che in Istria, per cura degli italiani, funzionano 125 scuole pubbliche croate e 37 slovene di fronte a 98 italiane che tuttavia sono le più grandi essendo nei massimi centri e rispondendo alle necessità della maggioranza numerica dei cittadini. E’ bene ricordare questi principi d’equità per un effetto di contrasto.
Da una decina d’anni la lotta contro le scuole italiane, la cui potenza civilizzatrice paralizza gli sforzi avversari nel campo dell’educazione, è cominciata. E’ cominciata con una forma di ostruzionismo. Si rifiuta la nomina di eccellenti professori per le solite ragioni di speciale considerazione. Qualcuno è stato rifiutato perché la polizia lo accusava di aver partecipato a qualche dimostrazione italiana quando era studente; un notissimo e benemerito è stato rifiutato perché appartenne alla Corda Frates; altri sono stati rifiutati perché non risultava dai registri parrocchiali che avessero ricevuto il battesimo. Vi sono appunto tre professori che si sono dovuti far battezzare per divenire idonei all’insegnamento. Si richiedono i sacramenti come la vaccinazione. Un professore è stato rifiutato per tre volte senza nessuna esplicita ragione; per eliminare, per creare imbarazzi nella scelta di nuove elementi, per paralizzare la carriera a degli italiani in qualunque via e, soprattutto, per rallentare lo sviluppo della scuola media. Poi si è portato un ostacolo agli studi elementari, con tutti i mezzi, dal non concedere diritto di pubblicità a scuole private italiane, fino ad impedire addirittura il sorgere di nuove scuole pubbliche. Il numero delle scuole è stabilito dal numero degli abitanti e una città che, come Trieste, aumenta di trenta mila anime in cinque anni, ha bisogno di aumentare in proporzione i propri istituti scolastici. Negli ultimi cinque anni l’unica scuola nuova che si è costruita a Trieste è slava. La Luogotenenza sopprime dal bilancio comunale le somme stanziate per la creazione delle nuove scuole italiane. Ore il pretesto delle spese eccessive e dello sperpero, ora quello delle tendenze nazionali, ora quello dell’incompletezza dei piani presentati. Si spera forse che, la scuola italiana non bastando ad accogliere tutti, quella slava ne profitti. Le scuole elementari italiane rimedianoberoicamente con un sistema di turni che raddoppiano la potenzialità di alcuni edifici scolastici. E si va avanti.
E’ stato proibito di intitolare a Dante e Petrarca le due più recenti scuole medie a Trieste, le quali debbono per comando scegliersi il titolo fra i nomi della famiglia imperiale o contentarsi d’un numero d’ordine. Ma ben altro pericolo minaccia le scuole media italiane il cui incremento è magnifico. Non potendole più soffocare, il governo le reclama. Vuole averle nelle sue mani. Si è accorto improvvisamente di non aver mai fondato una scuola italiana e invece di fondarne altre, pretende quelle degli altri. I suoi intendimenti non lasciano equivoco. Nell’estate del 1913, il Luogotenente ha mandato al comune un rescritto, perentorio, minaccioso e insolente come quasi tutte le sue comunicazioni ai magistrati cittadini, dicendo che se la cessione delle scuole medie al governo non era fatta subito spontaneamente, il governo avrebbe agito senza impegnarsi a mantenere in esse l’uso della lingua italiana.

tratto da: L’Arena di Pola n° 5/02 del 15 Marzo 2002

Sterminio senza sangue
Gl’Italiani della Venezia Giulia (13)

È la guerra di sterminio senza spargimento di sangue. Essa è portata violentemente, con illegalità, con sopruso, con violenza, contro il sentimento, alla cultura, alla lingua, alla libertà, agl’interessi di una nobile nazionalità che si vorrebbe uccidere. Le terre italiane sono additate agli slavi come una preda ed un premio.
Si organizzano gite di slavi a Trieste, protette da una mobilitazione della polizia, perché esse spargano l’agitazione e la bramosia per il bottino e non è permessa una gita d’italiani a terre italiane dell’impero stesso. Non solo, ma s’impediscono gite collettive di slavi in quei paesi dove lo slavismo urta non gl’italiani ma i tedeschi.
Si è osato a Trieste, e precisamente nel distretto di S. Giacomo, permettere un corteo nel quale, sotto la protezione della polizia, si vedevano bandiere slave spiegate precedere una bandiera di Trieste velata a lutto in segno di morte. La provocazione più sanguinosa è autorizzata perché anch’essa è un'arma, la quale umilia, deprime, avvilisce, dispera, quando non strappa un grido esasperato di protesta che diviene argomento di persecuzioni materiali e personali.
Pure nel campo essenzialmente economico, che interessa il benessere generale indipendentemente dalla nazionalità, ogni iniziativa italiana urta in uno sbarramento inesorabile. Se urge la costituzione di una banca, di un istituto di credito, di una cassa di risparmio italiana, l’autorizzazione non viene concessa. Sono dieci anni che si aspetta l’autorizzazione governativa di una banca rurale italiana.
Sono cinque anni che ritarda l’autorizzazione per erigere un istituto di credito ipotecario provinciale del quale la necessità è imperiosa. Si è negata persino, alla giunta provinciale di Gorizia, la licenza di erigere una cassa di risparmio, per tema di danneggiare quella slava già esistente. E si è concessa subito la fondazione di una cassa di risparmio sociale slava a Trieste, senza preoccuparsi della cassa di risparmio italiana, la quale ha la garanzia del Comune e della Camera di Commercio ed offre la massima sicurezza – la slava non dispone che di un capitale iniziale di trentamila corone. Ogni intrapresa slava è invitata e favorita; una potentissima macchina finanziaria, che trae risorse da tutto il mondo slavo, opera un immane lavoro di accaparramento sulle regioni italiane. Otto grandi banche, con centoventuno milioni di capitale, sono insediate a Trieste contro la sola banca italiana, la Commerciale Triestina che ha otto milioni. Quattro altre piccole banche slave, che hanno dietro di loro le grandi, portano impetuosamente negli affari la lotta nazionale, sussidiano immigrazioni, non temono di perdere pur di volgere la proprietà italiana in proprietà slava, s’impossessano di terreni, di aziende, di commerci aprendo un credito illimitato per sospenderlo quando la sorte d’un uomo o d’una ditta dipende da un rinnovo. Imprese grandi e piccole si slavizzano così, nel possesso, nel nome, nell’essenza, nel personale. 
Dietro ogni operazione di banca c’è un manipolo di slavi che aspetta il posto. Avremmo troppo da dire se volessimo illustrare tutto questo immane lavorio d’interessi che penetra, striscia, circuisce, afferra, snatura. Ma che importa; tutto ciò sarebbe di buona guerra e non avrebbe importanza se il campo fosse libero a tutti, se la tutela del governo si svolgesse equamente da ogni lato, se la costituzione di banche e d’istituti italiani non divenisse un problema quasi insolubile, come è problema quasi insolubile fare qualsiasi cosa che porti all’aborrita etichetta d’italianità. Noi avremmo ancora infinite cose da narrare; abbiamo una mole enorme di dati, di statistiche, di note che illuminano tutta la feroce persecuzione dell’italianità, tutta l’opera violenta di disboscamento che si tenta sul lembo estremo della gran selva italica. Ma crediamo di aver dato già un’idea concreta della situazione delle popolazioni italiane dell’Austria anche tralasciando altri fatti importanti e gravi.
Ora, su tutto questo noi crediamo di avere una parola da dire. Una parola come sudditi di una grande nazione e come italiani.

tratto da: L’Arena di Pola n° 6/02 del 31 Marzo 2002

Domandiamo la parola
Gl’Italiani della Venezia Giulia (14)

I trattamenti fatto ai cittadini d'Italia in Austria è inammissibile. Il sistema di espulsioni un massa, sul quale abbiamo dato cifre al di sotto del vero e che infierisce "senza riguardo alla vita incensurata dei colpiti, alla loro posizione sociale, alla lunga durata del loro domicilio nello stato austriaco - sul quale talvolta sono nati - senza riguardo allo sviluppo dei loro affari, al non avere essi parenti, amici, occupazioni fuori dallo stato, nel quale lasciano famiglia, consanguinei e patrimonio, senza pietà infine per gli ammalati e i minorenni contro i quali si è pure inesorabili" (sono parole di un deputato italiano alla Camera austriaca), questo sistema di bandi, diciamo, non è concepibile fra due paesi qualunque in stato di pace, e tanto meno fra due alleati.
Se si pensa anche agli infiniti arresti di regnicoli, alle balorde accuse di spionaggio elevate comunemente contro di loro e che non reggono neppure davanti al giudizio dei magistrati sloveni, se si pensa alle inquisizioni, alle perquisizioni, al carcere preventivo che accompagnano ogni equivoco, se si può dire equivoco, della polizia, se si pensa al sistematico, costante rifiuto di patenti per l'esercizio di qualsiasi professione, fatta contro le leggi dell'umanità e contro quelle internazionali, se si pensa ai «motivi di speciale considerazione» che impediscono a migliaia di concittadini di lavorare, di vivere, di esistere in Austria dove li conduce il naturale flusso dei loro affari, noi ci sentiamo offesi nella dignità, nel diritto, nell'interesse. La suscettibilità giapponese s'impegna contro gli Stati Uniti per fatti che hanno meno valore di questi.
La California non tratta l'immigrazione gialla come sono trattati mi sudditi d'Italia oltre i confini orientali. Perché si fa questa feroce guerra all'italianità? La ragione non si trova facilmente, il pretesto si. Un giornale conservatore viennese ha stampato che "nessuno dei nove popoli che abita lo stato austriaco gode meno simpatie oneste e sincere degli italiani, perché il loro passato nella storia e nella politica rispetto alla monarchia continua ad esercitare tale influsso da non permettere che si applichino per essi le teorie dell'equiparazione civile e linguistica come per gli altri cittadini dello stato". La posizione degli Italiani delle monarchia austro-ungarica vi è fedelmente descritta; essi non hanno i diritti degli altri popoli per colpa dell'influsso della loro storia. Ecco la grande, perenne accusa che si ripete contro di loro e che li pone al bando. In altre parole essi sono imputabili d'irredentismo. Sennonché l'ostilità del governo contro l'italianità nelle province italiane dell'Impero è cominciata assai prima di ogni possibilità d'irredentismo.
Quando l'Austria sopprimeva le scuole italiane aperte da Napoleone e le sostituiva con scuole tedesche, quando proibiva a quelle popolazioni di mandare i loro figlioli alle università di Padova e di Pavia, che pure erano austriache , quando dal 1824 al 1834 respingeva sei domande per l'istituzione di un ginnasio italiano a Trieste, quando dal 1830 al 1838 rifiutò di spendere a Trieste i denari del fondo scolastico mestino, quando alle domande ripetute di scuole italiane fatte nel 1838, 1839, 1840 rispondeva erigendo il ginnasio tedesco ed obbligando la cotta a contribuire alla spesa, l'Austria faceva già una politica anti-italiana e l'irredentismi era al di là di ogni profezia.
E anche dopo, per lunghi anni, non c'è sacrificio che Trieste non abbia fatto per disperdere le prevenzioni ostili del governo per vivere in pace; esagerava il gesto come chi sa di essere sospettato, decretava la cittadinanza d'onore a Radezski, erogava fondi pubblici a sollievo delle finanze dello Stato, faceva manifestazioni pubbliche di fedeltà all'Impero.
A che cosa le giovò? Venne il '66 e la politica slavizzatrice s'iniziò, piena di rancore fresco contro l'italianità.

tratto da: L’Arena di Pola n° 7/02 del 15 Aprile 2002

Un’offesa all’umanità
Gl’Italiani della Venezia Giulia (15)

Lo svolgimento di questa politica, che è arrivata ora al parossismo, abbiamo narrato. Il governa scaccia gli italiani dalle carriere pubbliche, li scaccia dal lavoro degli arsenali, come a Pola, li scaccia dalle navigazioni governative, come al Lloyd, li scaccia dalla cosa pubblica, equiparandoli a nemici dello Stato ed essi possono sentirsi inalterabilmente amici dello Stato? Se il governo tratta le province italiane da paese di conquista, ne calpesta le prerogative,ne insidia i diritti, si fa di tutto per essere brutalmente straniero, recisamente straniero, come può non finire per apparire governo straniero alla coscienza del paese? E l'irredentismo, che dovrebbe giustificare questa politica di soffocamento, è denunciato nelle più innocenti manifestazioni di italianità. È cercato con una sensibilità morbosa in una parola, in un gesto, in un colore, in un motivo musicale. Agli occhi dell'autorità esso si identifica con tutto quello che è italiano. Con meno livore, con un po' di serenità, tutti i piccoli fatti che ora bastano compromettere un'intera vita, apparirebbero nel loro giusto valore come delle pure affermazioni di nazionalità, scaturite come scintille dall'urto. Un ben diverso trattamento gli italiani meritano e le debbono avere. Questa lacerante ingiustizia non può continuare, l'italianità non ha bisogno, come lo slavismo, di un'azione speciale, favoritrice, travolgitrice dei poteri per andare avanti e non domanda niente. Basta a sé stessa. Che sia lasciata vivere la sua vita, senza insidie, senza soprusi. La autorità con la sua immensa possanza rimanda tutto dici imparziale. Non si chiede di più. Lasci le nazionalità alle loro forze naturali. Il programma dell'annientamento dell'italianità, a beneficio di una razza inferiore, offendono soltanto lui, ma l'umanità. I tesori dell'arte italiana, i segni della gloria italiana, il ricordi della storia italiana profusi su quelle terre, formano un insieme vivo e palpitante dalle tradizioni che li circondano, per l'amore che li custodisce, per la favella che risuona intorno a loro, per il sentimento che vibra nella folla, per tutte quelle cose sono continuazione della vita antica che danno un significato le pietre, un'eloquenza ai muri. Per la bocca del popolo ogni traccia del passato narra la sua leggenda. Gli uomini parlano dei monumenti e i monumenti parlano degli uomini. Con i secoli fra la terra e i suoi figli è nata una comunanza profonda. L'anima del popolo è piena della sua terra come la terra è piena di generazioni. La polvere che si calpesta ha vissuto e parlato la stessa lingua che si ode oggi. Ed è a questa italianità che si attenta. Si vuole troncare una storia come si tronca una testa. I monumenti dell'italianità, così viventi, dovrebbero divenire delle mute pietre sepolcrali nel mondo slavo e, come la Dalmazia croatizzata, si vorrebbe demolire il più grande, il più prezioso, il più fulgido monumento del popolo: la sua anima. Le sorti dell'italianità non ci possono essere indifferenti: e non può lasciarci insensibili lo spettacolo magnifico dei sacrifici e degli sforzi che popolazioni italiane unanimi sopportano per rimanere italiani. Certa stampa viennese, che non prendiamo in confederazione per quello che vale ma perché riporta delle idee correnti e circoli predominanti, osa paragonare la lotta contro l'italianità alla nostra azione coloniale contro gli arabi. L'intenzione è insolente e possiamo pensare che quelle genti che più affrettano di considerarsi superiori a noi, sono state in passato i beduini dell'italianità. Non badiamo all'insolenza, ma alla sostanza del paragone. Noi vorremmo bene che il criterio della nostra colonizzazione prevalesse nella politica verso l'italianità. Vorremmo vedere la popolazione italiana pacifica, rispettata nella sua lingua, nei suoi usi, nelle sue autonomie, nella sua giustizia, nelle sue scuole, nella sua proprietà, nelle sue prerogative, come noi rispettiamo i nostri sudditi africani sottomessi.

tratto da: L’Arena di Pola n° 8/02 del 30 Aprile 2002