sabato 5 ottobre 2024

I confini della Venezia nella storia del diritto Italiano

[Dal libro: NUOVA ANTOLOGIA DI LETTERE, SCIENZE ED ARTI. SESTA SERIE, GENNAIO-FEBBRAIO 1916]

Duecento anni or sono, fra Modena e Roma ferveva una violenta polemica: ne erano oggetto i diritti della sede pontificia e della casa d'Este sulle paludi di Comacchio, polemisti erano il padre della storia Italiana Lodovico Antonio Muratori ed il celebre Arciveseovo d'Ancira Giusto Fontanini. La lotta si combatté con grande sfoggio d'argomentazioni storiche, d'antichi diplomi, e l'acrimonia fu tale da rompere l'antica amicizia dei due eruditi, così che essi non si rappacificarono mai più. Quest'esempio non è affatto isolato: al contrario, quasi tutte le guerre o controversie diplomatiche dei secoli XVI-XVIII furono precedute ed accompagnate da libelli o da opere di maggior conto d'indole storico-giuridica, nelle quali con argomenti più o meno plausibili, si sosteneva la validità dei diritti dell'uno o dell'altro stato sui territori contestati. Tale procedimento era ben naturale quando si pensa che, per la maggior parte, si trattava di controversie fondate su diritti ereditari che le case principesche vantavano su città o provincie considerate come oggetti del loro patrimonio. In altri casi, però, le discussioni s'elevavano a problemi molto più interessanti, come quelli dibattuti fra tanti eminenti pubblicisti del secolo XVII intorno alla dipendenza di Venezia dal sacro Romano impero.

In questo campo di controversie diplomatiche si svolsero per lunghi secoli i primordi delle discipline storico-giuridiche e soltanto più tardi i compiti di queste si allargarono, e la storia del diritto si liberò dai suoi stretti rapporti col diritto pubblico e colla scienza diplomatica per assurgere a disciplina intieramente indipendente. Però anche nella nuova sua veste essa rasenta sovente importanti questioni politiche, poichè le sue indagini si svolgono in torno a problemi strettamente connessi con punti fondamentali di quelle. Tali sono, anzitutto, le ricerche relative alle forme giuridiche particolar di ciascun popolo.

Dal giorno in cui sorse il concetto di Stato Nazionale l'attenzione degli storici fu tratta naturalmente a studiare le caratteristiche della vita d'ogni nazione attraverso i secoli, lo svolgersi della sua struttura sociale. Nel tempo stesso anche nella giurisprudenza si formarono delle correnti di studi dirette a riconoscere gli istituti giuridici particolari d'un determinato aggregato etnico. Queste correnti trovarono la loro origine nella reazione Germanica contro il codice Francese, e culminarono con gli sforzi diretti a costruire un sistema giuridico nazionale. Tali studi si fondarono in gran parte su ricerche storico-giuridiche; per ogni istituto si cercò di rintracciare le forme originali dovute alle tendenze native d'un popolo, si condussero indagini accurate sulle antiche leggi popolari, si seguì pazientemente la trasformazione dei loro lineamenti, si sceverarono le influenze dei diritti stranieri; così la storia del diritto costituì uno dei lati, e non dei meno interessanti, dell'insieme di studi diretti a dare a ciascun aggregato nazionale la coscienza del proprio essere, dei caratteri peculiari che lo differenziano dalle altre nazioni. Che tali caratteri esistano è evalente. 

L'originalità che un popolo mostra nelle sue manifestazioni letterarie, artistiche, scientifiche si palesa anche nella sua vita giuridica: basta pensare a certi istituti caratteristici del diritto Romano, o ricordare la rinascita degli studi giuridici nell'Italia medievale. Quanto a quest'ultima, si può dire, anzi, che i primi segni della nazione risorgente si trovino nelle manifestazioni giuridiche. Ancor prima che l'istituto del comune cittadino fiorisca nell'Italia media e settentrionale, ancor prima che nei canti dei giullari si sentano le più lontane promesse della poesia Italiana, il processo di unificazione si palesa nel diritto privato, dove il dettato notarile diviene conforme già nel secolo XI e si disegnano consuetudini generali che si sovrappongono alle varietà regionali. Il nuovo diritto previene ed accompagna, dunque, il formarsi della nazione e non a caso perseguiamo i primordi della grande scuola giuridica nazionale proprio nella corte Matildica, cioè nel centro della reazione politica Italiana contro il partito imperiale Germanico-feudale. Naturalmente, non tutto il diritto che così si forma può essere strettamente nazionale; gli studi degli ultimi cinquant'anni hanno dimostrato come ciò non si possa dire né del diritto Romano, né degli stessi diritti popolari Germanici. Dovunque si trovano traccie larghissime d'influenze d'altri diritti anteriori o contemporanei i cui istituti si meschiano agli istituti nazionali o ne modificano la natura, Il caso non poteva essere diverso in Italia dove il substrato d'antiche civiltà e l'influenza di recenti conquistatori non potevano mancare di far sentire il loro peso.

Ma, pur facendo la debita parte alla comunicabilità del diritto, appare certo che ogni popolo possiede, nel suo patrimonio giuridico, accanto a taluni istituti comuni a tutte le nazioni, e ad altri che gli posson esser pervenuti per influenza d'estranee civiltà, un certo numero, maggiore o minore secondo i casi, d'istituti che son propri della sua indole, nei quali si palesa il suo stesso carattere. E ciò non solo nel diritto privato, che si svolge nel campo più intimo, ma anche nel diritto pubblico dove la rapidità dei mutamenti e per ciò la possibilità d'influenze estranee è molto maggiore. Così è certo che il comune medievale, colla sua larghissima autonomia, colla sua organizzazione profondamente democratica è un istituto veramente Italiano, giacchè le sue linee non si possono affatto confrontare colle istituzioni del tutto atrofiche che troviamo, nello stesso campo, in Francia ed in Germania. Così del tutto originale e conciliabile soltanto colla finezza e coll'equilibrio del nostro popolo è la lenta ed insensibile trasformazione dei maggiori comuni in signorie nelle quali però le autonomie locali continuano a vivere con tanta larghezza. Ed anche fuori d'Italia gli esempi di formazioni giuridiche proprie di certi popoli si possono additare facilmente: così il classico svolgimento delle istituzioni parlamentari Inglesi, così, all'opposto, la tendenza Francese verso l'accentramento e le istituzioni che ne derivano. E se dal diritto pubblico passiano al diritto privato si deve pur riconoscere che lo svolgersi dell'istituto dotale, in Italia, dal secolo XIII in poi, è intimamente connesso coll'organizzazione Italiana della famiglia, un'organizzazione che potremmo chiamare monarchica per la posizione che vi tiene il capo, e della quale ancora oggi son visibili le traccie. Simili osservazioni si potrebbero addurre anche per altri istitui.

Ognun vede, perciò, che la presenza di certe forme giuridiche caratteristiche in una regione non ha interesse soltanto per il legista desideroso di conoscere le risposte scaturigini delle norme che egli deve applicare, ma ha importanza altresì per lo storico il quale voglia riconoscere il prevalere dell'uno o dell'altro principio nazionale, dell'una o dell'altra civiltà in un dato periodo ed in un dato territorio. Così anche le ricerche storico-giuridiche possono esser tratte irresistibilmente nel campo della polemica nazionale, in particolar modo per quei paesi di confine che attraverso secoli furon campo aperto alle lotte delle razze e delle civiltà.

Parrà strano, forse, che la pergamena a stento contesa dalle cure dell'archivista al tarlo roditore, il codice miniato prodotto di un'arte squisita, possano divenir armi che preparino il conflitto divoratore d'uomini e di ricchezze, ma ciò non è più singolare del veder tanti strumenti di morte uscire dalle storte e dai fornelli, in apparenza così inoffensivi, dei gabinetti di chimica. Gli uni preparano alla lotta la coscienza popolare facendole intuire la giustizia d'una causa; gli altri danno alle nazioni le armi colle quali sostenere le loro pretese. Pergamene e lambicchi sono anch'essi legati dal nesso profondo che unisce il mondo delle idee al mondo delle cose:

...spiritus intus alit
totamque infusa per artus mens agitat molem.

Nell'opera, veramente insigne, che la scuola storica Tedesca ha compiuto, ricostruendo con sapienti indagini critiche, le fonti medievali di gran parte d'Europa, quante volte ci troviamo di fronte alla preoccupazione di dar rilievo all'importanza dell'elemento Germanico nella formazione delle istituzioni politiche e giuridiche dei vari paesi, nei quali dopo la caduta dell'Impero Romano traboccò la marea Teutonica!

Secondo quei dotti, sarebbero principi prettamente Germanici. in antitesi con quelli del mondo Greco-Romano, gli istituti democratici che reggono ora gli Stati Europei, e così pure, nel diritto privato, la più gran parte dei concetti fondamentali, come quello della persona giuridica, la capacità patrimoniale della donna, il concetto della proprietà e quello del possesso, l'indole dei contratti agrari, il fondamento dell'obbligazione e quello dell'eredità: tutio ciò sarebbe stato profondamente mutato dall'influenza Germanica che avrebbe lasciate in tal modo le più ampie impronte in tutta l'Europa. Si sarebbe così verificato per la parte giuridica quanto Fichte affermava in generale, già nei primi anni dello scorso secolo, cioè che lo spirito tedesco reggeva tutto il mondo occidentale e che Francesi ed Italiani, non erano se non Germani travestiti. Di fronte a tali esagerazioni non bisogna di certo dimenticare i grandi meriti che i dotti Germanici ebbero, insieme ai loro confratelli d'altre nazioni, nel rinnovamento scientifico dei nostri tempi; nondimento si deve pur riconoscere che questa corrente d'idee ebbe anch'essa la sua parte nella formazione di quello stato d'animo che preparo il presente conflitto.

Un tale movimento, nelle sue linee generali, poteva avere per noi un'importanza soltanto riflessa; esso ci colpì invece direttamente quando rivolse le sue indagini alla storia di quelle terre, nelle quali la razza Italiana e la Tedesca si guardano da secoli ben consapevoli, l'una e l'altra, della forza che lor deriva dalla possanza del genio e dal tesoro delle tradizioni.

Io non voglio soffermarmi sulle irose parole pronunziale da qualche dotto d'Oltralpe durante la lotta combattuta, negli ultimi vent'anni, dagli Italiani soggetti all'impero Austriaco per la conquista dei diritti nazionali: parole, ad esempio, come quelle del professore Waldner dell'Università d'Innsbruck il quale non si peritò di asserire che la fondazione della Università di Trieste sarebbe stata affatto inutile in quanto che non vi si sarebbe potuto insegnare altra cosa che scienza Tedesca rivestita di forma Italiana. Tali puerilità non meritano, di certo, più ampia menzione! (Vedasi la dignitosa protesta dei professori della Facoltà giuridica italiana di Innsbruck Parchioni, Sartori-Montecroce, Galante, Lanza. Farinelli e Menestrina contro queste poco ponderate parole del Walbiner pronunziate alla riunione del partito nazionale tenuta nella stessa città. I redattori della protesta osservano fra l'altro che, fatta astrazione per le scienze filosofiche mediche, per le quali nessuno potrebbe seriamente parlare di un monopolio tedesco, anche per le discipline giuridiche si può porre in dubbio che esse siano, nella stessa Austria, un prodotto dello spirito tedesco. La scienza Romanistica e la Canonistica fiorirono, invece, anzitutto, in Italia in celebri scuole e vi contano, ancor oggi, rinomati interpreti; quanto poi al diritto positivo, avrebbe dovuto esser noto ad un professore di diritto austriaco, quale parte importante abbia avuto lo spirito latino nella codificazione austriaca, quello spirito latino che il professore Walkiner dice estraneo all'Austria)

Ricorderò piuttosto come abbastanza di frequente in opere di storici e di giuristi Tedeschi si trovi affermata l'esistenza di vincoli antichissimi che avrebbero congiunto al regno Germanico le provincie Italiane sin qui soggette all'Austria, oppure negata la continuità dei caratteri nazionali nella storia e nel diritto di quelle. Affermazioni, che si connettono strettamente alla propaganda diretta ad estendere oltre i naturali confini delle Alpi il dominio della gente Tedesca.

Così, quanto al Trentino, vediamo posti in prima linea i rapporti di questo colla contea del Tirolo e creata quella denominazione di Südtirol che fu adoperata anche in libri strettamente scientifici a designare città affatto Italiane come Trento o Rovereto. In trattati di storia del diritto Austriaco troviamo l'affermazione che la preponderanza etnografica Italiana del Trentino sia cominciata soltanto nel secolo XVI con alcune immigrazioni che avrebbero mutato il carattere della popolazione originariamente Tedesco. (Luschin v. Ebengreuth, Oesterreichische Rechtsgeschichte (Bamberg, 1914). p. 16. L'opinione che a Trento, ancora nel XIII secolo, la lingua volgare fosse la tedesca, fu espressa da Tomaschrek nell'Archie fur Kunde oesterrrichts her Geschichtsquellen, XXVI, pag. 103 e seg., fu ribattuta validamente, fra gli altri, dallo stesso Voltelini: Die ältesten Statuten von Trient und ihre Leberlieferung, nell'Archivo für vesterreichische Geschichte. XXIX. I. pag. 97 е seg.)

Così quanto al Friuli se ne parla come d'un territorio tedesco dalle invasioni barbariche sino al secolo XIII ed oltre. E tali affermazioni si estendono non solo al Friuli Goriziano, ma anche al Patriarcale. Cividale, l'antica Forum Julii, è qualificata come una città Tedesca, il parlamento Friulano, mirabile istituto dell'antico stato Patriarcale, è considerato come prettamente Germanico.

Quanto a Trieste, la sua dedizione del 1382 ai duchi d'Austria è data come fondamento indubitabile della sua appartenenza al Regno Tedesco (Ved. ad esempio, la III carta storica antuessa allo SCHRÖDER, Lehrbuch der deutschen Reehtsgeschichte (Leipzig, 15902), dove il udeutsches Reich seende, senz'altro, sino all'Adriatico ad Aquileia, a Duino, a Trieste). Persino sull'Istria si appuntano le mire di questi infaticabili studiosi. Si parla della bella penisoletta Adriatica come d'una terra che per molti secoli sarebbe stata, dal punto di vista della storia del diritto pubblico, parte della Germania, mentre soltanto l'influenza Veneziana l'avrebbe tolta ad essa, a partire dal secolo XIV. Gli sforzi dei Patriarchi Aquileiesi per ricuperare l'antico loro dominio sulle città Istriane sono indicati come gli ultimi tentativi dell'Impero Tedesco di ritenere la provincia (DIMITZ, Geschichte Krains (Laibach. 1874). I. 145. il quale asserisce che la marca d'Istria fu staccata sin dal 952 dall'Italia Per la lotta tra il Patriarcato Venezia vedasi il Lener, Veneziarisch-Istrische Studien (Strassburg. 1911), pag. XV.). Non sarà senza qualche utilità il vedere quanta parte di tali affermazioni regga all'esame spassionato dei fatti. Il problema può essere considerato sotto due punti di vista: quello dei legami delle provincie Italiane coll'antico regno Tedesco, una delle parti dell'impero Romano-Germanico, e quello dello svolgimento degli istituti di diritto pubblico e di diritto privato nelle provincie stesse. Proviamoci ad esaminarli partitamente.

A chi guardi i confini della Venezia verso settentrione, si presenta primo, nella cerchia delle Alpi, coronato dalle guglie meravigliose dei suoi monti, il Trentino. Colà tutto ci parla dell'Italia: la vegetazione, il sorriso del cielo, il carattere delle arti; eppure fra le nebbie del medioevo si vollero cercar le prove dell'appartenenza di tutta la valle dell'Adige sino alle chiuse di Verona, al regno Tedesco.

I documenti parlano ben diversamente, però, a chi li sappia leggere senza preconcetti. Neppure nel periodo più oscuro del Medioevo, quando Ottone I, per soffocare ogni germe di ribellione, sottopose la Venezia tutta al duca di Baviera, le fonti ci permettono di credere che dal punto di vista giuridico queste provincie si considerassero come staccate dal regno Italico e congiunte dal regno Tedesco. I diplomi imperiali ci provano invece tutto il contrario. Noi sappiamo, infatti, che i diplomi riguardanti il regno Italico erano controfirmati dal cancelliere per l'Italia, mentre quelli per il regno tedesco lo erano invece dal cancelliere della Germania; ora, così nel X come nell'XI secolo i diplomi della cancelleria imperiale per il Friuli, per Gorizia, per Trieste, per l'Istria, hanno sempre la ricognizione del cancelliere del regno Italico (Ciò fu dimostrato dallo STUMPF-BRENTANO nel suo scritto: Ueber die Grenze des deutschen und italienischen Reichs von X-XII Jahrhundert, nelle Forschungen zur deutschen Geschichte, XV, pag 160. — L'assegnazione di Trento all'uno o all'altro dei due regni presenta qualche incertezza nel secolo XII, ma il diploma di Filippo di Svevia, nel 1207, dichiara, esplicitamente, che Trento appartiene alla marca di Verona е, регciò all'Italia: Muratori. Antichità Estensi. I. 383).

Più tardi, nel secolo XIII, noi troviamo che i vescovi di Coira ci attestano, in un loro documento, come il confine del regno d'Italia non abbracciasse il solo Trentino ma si estendesse nell'alto Adige alla Val Venosta ed al territorio di Bolzano (Il documento è ricordato da Malfatti, I confini del ducato di Trento, in Arch. Storico per Trieste, l'Istria e il Trentino (Roma, 1883). II. pag. 15. Eso è del 1253 e il vescovo di Coira dichiara che la val Venosta ad Italiam dinoscitur pertinere.). 

Questi ultimi erano possessi del vescovo di Trento, uno dei tanti alti ecclesiastici: Italiani che destreggiandosi fra Re Italiani e Re Tedeschi dapprima, e poi fra Impero e Papato, seppero impinguare di ricchi feudi il patrimonio delle loro sedi. Se Bolzano e la Val Venosta andarono perdute per il regno Italico, ciò deriva dalle usurpazioni, prima, della casa di Gorizia, poi della casa d'Austria, che ebbero successivamente l'avvocazia della chiesa Trentina e in tal qualità, anziché proteggere quest'ultima, seppero arricchirsi strappandole parte dei suoi beni. L'appartenenza di Trento al Regno Italico fu riconosciuta, del resto, ancora nel secolo XVI dall'imperatore Carlo V il quale, nel 1524, scriveva al suo ambasciatore duca di Sessa che Trento era provincia d'Italia (Ved. SARDAGNA E NICOLETTI. La guerra rustica nel Trentino (Venezia. 1889), p. 125, nei Monumenti della R. Deputazione Veneta di Storia Patria).In occasione del Concilio, i principi germanici protestarono contro la designazione, dichiarando che Trento era città italiana). È vero che il Vescovo sedeva, come principe, nella dieta Germanica, ma di questa faceva parte anche un circolo di Borgogna come ricordo dell'antico Regno di Borgogna che col regno d'Italia e col regno Tedesco costituivano l'antico impero Romano-Germanico, lo stato caotico e paradossale che dal Baltico nebbioso si estendeva fino all'azzurro Mediterraneo. Non v'ha meraviglia, dunque, se alla dieta Germanica potè rimaner congiunto un principe del regno d'Italia (L'origine di questa partecipazione deriva certo dal fatto che dal secolo XII in poi, alle grandi diete dell'Impero sia in Germania che in Italia partecipano, senza distinzione, principi italiani e tedeschi.). E questo principe, non bisogna dimenticarlo, resse, in modo indipendente, quella nostra bella provincia sino al 1803, quando la casa di Austria, per risarcirsi delle perdite che le vittorie Napoleoniche le avevano inflitte in Italia ed in Germania, eredette suo diritto di sopprimere i principati ecclesiastici di Bressanone, di Salisburgo, di Passau e di Trento aggregandosene, collassenso della dieta Germanica, i territori.

All'antico regno Italico, appartenne pure di pieno diritto Gorizia. Possediamo due documenti del 1150 e del 1202, nei quali i conti di Gorizia riconoscono che i loro possessi derivano, come feudo, dalla Sedia Aquileiese, e che a questa avrebbero dovuto ritornare all'estinzione della loro casa (DE RUBIES, Monumenta Ecclesine Aquilciensis (Argentinae. 1740). col. 645. Ecco le parole del trattato dei 1202: «Comites Goritiae debent habere castrum de Goritia cum omni proprietate, servis et ancillis et omni imre ad ipsum pertinente exceptis ministerialibus... ab Ecclesia Aquileiensi in feudum» E stabilita la devoluzione alla Chiesa nel caso di estinzioze della linea). Ora i Patriarchi Aquileies ebbero a dichiarare solennemente alla Dieta di Norimberga d'esser principi d'Italia e si rifiutarono, come tali, di ricevere l'investitura in Germania (BOHMER. Acta Imperii Selecta, n. 222, 1206, 3 giugno.). Il piccolo territorio dei conti abbracciava in origine soltanto poche terre nella media valle dell'Isonzo: Cormóns, Tolmino, le chiuse di Plezzo furono aggiunte più tardi ai primitivi possessi mercè continue usurpazioni che qui, come nel Trentino, i conti di Gorizia e del Tirolo, commisero a danno della Chiesa di cui erano avvocati (Sulle vicende del possesso di Tolmino sino alla pace di Worms e sugli sforzi fatti da Cividale perché esso e le chiuse del Prodil fossero conservate a Venezia si veda A. SACCHETTI, Per il possesso di Tolmino, nel Nuoro Archivio Veneto, t. X. p. I (1905). pag. 17 seg. Tolmino fu disputato di continuo, nei secoli XIV e XV. dal Patriarca e dal conte di Gorizia: nel 1338. 26 agosto, vediamo ricordata nella Gastalda patriarcale di Tolmino, la mons de Corn, cioè il Monte Nero degli odierni nostri communicati). Il nesso feudale del Goriziano colla sede Aquileiese e perciò coll'Italia fu riconosciuta solennemente, una volta di più, nel 1424, quando il conte Enrico di Gorizia ricevette dal doge di Venezia successo nei diritti del Patriarcato, l'investitura dei suoi antichi feudi. Tale investitura ebbe luogo dinanzi alla chiesa di S. Marco, al cospetto del patriziato Veneto e della nobiltà Goriziana, seguendo gli antichi riti del mondo feudale, ed il conte Enrico presto nelle mani di Francesco Foscari il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Se non che, la casa di Gorizia finì ingloriosamente nel 1500, ed in virtù d'antichi patti di successione, gli Absburgo ne impugnarono tosto i possessi con ben altro animo che non fosse quello dei loro deboli antecessori. La Casa d'Austria, infatti, non soltanto disconobbe i legami che univano il Goriziano al Friuli, ma rievocò i diritti dell'Impero sugli antichi possessi della chiesa Aquileiese che la Repubblica Veneta si era appropriati nel 1420 e questa fu una delle cause precipue della lunga guerra fra l'imperatore e Venezia, durata dal 1508 al 1514. La pace di Worms sanzionò i confini fra le due potenze in lotta, attribuendo all'Impero Gorizia e Gradisca e l'alta valle dell'Isonzo fino a Caporetto ed alla chiusa di Plezzo, mentre il rimanente Friuli, compreso Monfalcone, apparteneva a Venezia; ma la Casa d'Austria non se ne accontentò e di lì a poco occupò anche Aquileia, che il trattato aveva riconosciuto come possesso del Patriarca.

Gorizia era così passata definitivamente sotto la signoria Austriaca. Si deve ritenere per questo che, dinanzi al diritto pubblico dell'epoca, il Goriziano s'intendesse staccato dall'Italia? La Casa d'Austria ebbe nella penisola altri possessi che pure, per tale circostanza, non vennero affatto aggregati al regno Tedesco; il dubbio perciò è legittimo. Io penso che la risposta debba essere negativa almeno per il periodo che corre dalla pace di Worms al 1602, anno nel quale l'Imperatore Ferdinando II, unì la contea all'Impero Germanico. Anche quest'atto, cosi tardivo, sembra, però, viziato nei suoi fondamenti, perché Ferdinando dichiara d'aggregare i Goriziani «quali veri antichi tedeschi», mentre dai documente risulta che una tale trasformazione etnografica del Friuli orientale esisteva soltanto nei giudizi della Cancelleria imperiale o nei desideri di qualche nobile desideroso d'appartenere al sacro Romano Impero. Di che razza di Tedeschi si trattasse ce lo dice Carlo VI, il quale nel 1732 dovette prescrivere ai capitani imperiali di Gorizia, di Gradisca e di Trieste d'adoperarsi affinchè il popolo «non canzonasse i forestieri che parlavano Tedesco».

Abbiamo parlato di Trieste. Quanto a Trieste ed all'Istria nessun dubbio può accadere sull'antica loro appartenenza al regno Italico; esse sono compresi nel confine della Venezia quale fu riconosciuto fino al principio del secolo XIX dalla stessa Cancelleria imperiale. Abbiamo già ricordato come i diplomi degli Imperatori dei secoli X-XIII considerino Trieste e l'Istria quali provincie del Regno Italico. Altri documenti confermano esplicitamente questa indicazione. Benchè l'Istria fosse assoggettata, in certi periodi, durante il secolo XI, ai Margravi che dominavano anche nella Carniola e nella Carinzia, il nesso del regno Italico non fu mai posto in dubbio; così il diploma del Vescovo di Parenzo, Sigimbaldo, del 1014, ricorda all'inizio, secondo lo stile dell'epoca, l'imperatore regnante Enrico II «anno imperii eius hic in Italia secundo» (BENUSSI, Nel Medioevo (Parenzo, 1897), pag. 408, n. 240.). 

Dal principio del secolo XIII l'Istria passò ai patriarchi Aquileiesi e per lungo tempo essa e Trieste formarono tutt'uno col Friuli. Poi Venezia estese, a poco a poco, la sua signoria sui porti Istriani e nel corso dei secoli XIV-XV divenne padrona di tutta la piccola penisola, fatta eccezione per un minuscolo territorio interno, la contea di Pisino, che era stata concessa in feudo dai vescovi Parentini ai conti di Gorizia era poi passata, per eredità, ai duchi d'Austria (BENUSSI (op. cit., 428) ricorda un documento del 1368, nel quale il Vescovo di Parenzo infeuda al conte di Gorizia Pisino, Visignano, Montona, cioè le terre che formano parte della così detta contea d'Istria).

L'Istria rimase Veneziana sino al 1797, e fu soltanto la caduta della Repubblica che la pose, dopo le turbinose vicende Napoleoniche, in mano all'Austria.

Quanto a Trieste, essa cadde, è vero, sin dal 1382, in potere del duca, ma da questo non si può affatto dedurre che si intendesse sottratta all'Italia (Quanto alla stessa dedizione del 1382. è molto dubbio che essa sia stata spontanea, come ho osservato nel mio articolo. La dedizione di Trieste, nel Resto del Carlino di Bologna dell'11 febbraio 1915: sulla storia dei rapporti di Trieste coll'Italia son da vedere i notevoli articoli di A. TAMARO, nel Corriere della Sera). 

Erano i tempi nei quali i nostri Comuni amavano chiamare signori d'oltr'Alpe a tutelarli contro le minacce d'altre città e di principi limitrofi. In quel torno il duca d'Austria era signore di Treviso, di Feltre, di Belluno, tutte città che s'erano poste sotto la sua protezione senza punto pensare di staccarsi per questo dall'Italia e di cadere nella cerchia del regno Germanico. Non v'ha dubbio che lo stesso sia avvenuto di Trieste. I documenti Triestini sono espliciti su questo punto. Nel 1485 un documento asserisce che la città era soggetta «imperatoribus qui tunc in Italia dominabantur». Nel 1524 essa si opponeva risolutamente all'introduzione della lingua Tedesca negli atti ufficiali, dichiarando che Trieste è nei confini d'Italia e che i suoi cittadini hanno, come propria, la lingua Italiana (Tolgo queste attestazioni dal memorando discorso Per l'università italiana a Trieste pronunziato da ATTILIO Hortis alla Camera dei deputati di Vienna il 16 marzo 1902 (Trieste, 1902), pag. 10 e seg. — Tale mirabile lotta di Trieste contro il Governo arciducale e gli Stati della Carniola è da raffrontare con quella combattuta, in quel torno, da Rovereto contro il conte del Tirolo per gli stessi scopi: ved, nell'archivio Storico per Trieste, ecc., III. 72 e seg. i documenti pubblicati dal Morandi). 

Soltanto nel 1818 l'Austria pensò di aggregare Trieste alla confederazione Germanica, che s'era sostituita all'Impero spazzato dalla tempesta Napoleonica. L'aggregazione abbracciava tutte le provincie Italiane acquisite dall'Austria nel 1815, ad eccezione dell'Istria, e partiva dal presupposto che tali provincie avessero appartenuto all'antico impero (Nella Confederazione germanica del 1815 entrarono, oltre gli Stati minori, l'Austria e la Prussia con tutte le posessioni... che avevano anticamente appartenuto all'Impero germanico. Del Regno prussiano rimasero fuori le provincie di Prussia e Posen e il principato di Neuemberg. — Vedere SCHRÖDER, op. cit., pag. 879, n. 2). 

Presupposto fallace per due motivi:

anzitutto, perché alcuni territori come Trieste, Monfalcone, Grado non erano mai stati aggregati a quello Stato, e in secondo luogo perché la Confederazione Germanica aveva un carattere strettamente nazionale che l'impero antico non poteva avere, composto com'era di tanti elementi diversi. Tale aggregazione, dunque, mutava profondamente lo stato preesistente al quale pretendeva richiamarsi, e si deve considerare come un atto del tutto arbitrario (Nella costituzione della Confederazione germanica culmina la tendenza, che già si era manifestata nei scoli precedenti, di confondere i diritti spettanti all'Impero romano-germanico, con quelli del Regno tedesco. Un esempio delle conseguenze di questo modo d'agire lo si ha nelle vicende delle provincie borgognone. Queste formavano parte del Regno di Borgogna, che era affatto separato, ancora nel secolo XII. dal Regno tedesco, benchè formasse parte dell'Impero. Sul finire del Quattrocento Massimiliano I d'Austria sposò Maria di Borgogna e venne così in possesso di quelle provincie; nel Cinquecento ne vediamo formato il a «Reichskreis» di Borgogna, che abbracciava, come s'è detto, il Lassemburgo, la Franca Contea e la Fiandra. Nel 1815, su queste basi, il Lussemburgo fu aggregato alla confederazione germanica!)

Abbiamo così esaminato il lato esteriore del problema e l'esame delle fonti ci ha dimostrato come il legame fra le estreme provincie della Venezia ed il Regno Italico non sia mai stato spezzato. Certamente, quelle provincie si trovarono in possesso di dinastie straniere, ma questo non poteva rompere l'unità del regno Italico, come non ruppe l'unità del regno Germanico il fatto che i re d'Inghilterra possedevano il reame d'Annover e per tal motivo facevano parte della dieta Tedesca.

Se questo è il responso delle fonti quanto al legame formale, non diverso è quello che riguarda il problema dell'indole del diritto pubblico e privato, un problema più profondo che interessa la natura stessa del popolo. Del resto, è ben giustificato che sia così, poiché la vita giuridica non è che una faccia del poliedro della vita nazionale, e se l'architettura, la pittura, la poesia, la formazione sociale delie provincie estreme della Venezia sono e furono nei secoli, come ognun sa, profondamente Italiane, non diversa poteva essere la vita del diritto.

Fu gia osservato, ad esempio, come il quadro della società feudale che i documenti Trentini dei secoli XII e XIII ci presentano, risponda esattamente ai lineamenti delle rimanenti provincie Venete (Ved, per ciò, la recente memoria di SALVIOLI. L'italianità di Trento nel suo diritto medioevale, nella Ric. italiana di Sociologia, XIX. 328 e seg (Roma, 1915). Egli fonda in sua disamina sopra tutto sul codice Wangiano): baroni liberi, polenti ministeriali, una bassa feudalità costituita dalle masnade, una serie di feudi esclusivamente amministrativi, tutto ciò ci richiama allorganismo feudale del patriarcato Aquileiese o del vescovado di Treviso.

E come in Friuli, anche nel Trentino, i Comuni riescono ad aprirsi la via con difficoltà, perché accanto ai magistrati elettivi stanno sempre, come ampia giurisdizione, gli ufficiali del Vescovo. Di questa dura lotta, tutta italiana, troviamo le traccie nei più antichi statuti del Trentino, dove si protesta contro la «mala consuetudo» che il Vescovo succedesse nei beni di coloro che fossero morti senza figli, escludendo così gli altri parenti (Statuti di Rovereto (1425-1620), con una introduzione di TOMASO GAR (Trento, 1859), г. 70. — La parte più antica di questi statuti riproduce come fu già avvertito dal Gar, pag. xv, la redazione statutaria di Trento all'inizio del secolo XIV; il Voltelini li attribuisce al 1303-1306)

Evidentemente, si tratta di antichi livellari che vanno trasformandosi in proprietari, ed è caratteristico che i Comuni Trentini lottino contro i signori feudali per liberare queste proprietà dalle restrizioni alla disposizione e dagli oneri che le aggravano, precisamente come avviene nei Comuni Toscani ed Emiliani. Anche nel complesso delle disposizioni, gli statuti del Trentino dimostrano la loro stretta parentela cogli altri Veneti: fu dimostrato come buona parte delle rubriche dei più antichi statuti di Trento e di Rovereto abbia affinità letterali e sostanziali con gli statuti di Vicenza e di Verona (Lo dimostrò il VOLTELINI, Die älteste Redaction cit., pag. 175 e seguenti). E quasi ad affermare solennemente questa Italianità, su di un esemplare degli Statuti di Trento del 1425, conservato ora ad Innsbruck (È il cod. 470. capsa 4. n. 32. dell'Archivio luogotenenziale di Innsbruck; la notizia fu data al Voltelini dal Farinelli (ved. VOLTELINI, op. cit.. pag. 191 e 192. n. 1), troviamo, non senza commozione, trascritti da una mano del secolo XV la terzina Dantesca:

Tu proverai siccome sa di sale 
lo pane altrui o com'è duro calle 
lo seondere e il salir per l'altrui scale.

Sembra che nei tempi felici della libertà, l'ignoto giurista Tridentino antivedesse i mesti giorni del futuro servaggio!

Più interessanti ancora per il nostro argomento, sono i lineamenti del diritto pubblico dell'Istria medievale. Qui non soltanto sono apertissimi, come nel Trentino, i rapporti colla rinascente Venezia, ma son chiare le venerande vestigia di Roma, meglio forse che in ogni altra regione d'Italia. I documenti Istriani ci mostrano come sia ininterrotta la catena che unisce gli istituti del basso Impero e gli ordinamenti Bizantini colla organizzazione provinciale e cittadina dell'Istria nel secolo IX e X, e poi coi Comuni del XII e XIII (La dimostrazione fu data dal MAYER nel suo importantissimo studio. Die istrich-dalmatische Munizipalverfassung, nella Zeitschrift der Savigny Stiftung, g-A, XXIV, pag. 211 e seg). E dove non sopravvivono queste antiche traccie di Romanità, vediamo lineamenti affatto consimili a quelli dell'Italia superiore. Così la costituzione dei magnati dell'Istria del secolo XI per il mantenimento della pace riproduce le norme penali del libro Pavese (La «pax» fu pubblicata dal KANDLER nel Cod. diplomatica istriana e poi nei M. G. H. Constitutiones, I, 610. L'estensione del duello giudiziario, In divisione dei beni del giustiziato fra il fisco ed i parenti ci ricordano i capitoli di Ottone I e di Enrico II del Liber Pupiensis), e più tardi la lotta dei Comuni Istriani contro il Patriarca Aquileiese per ottenere libertà d'eleggersi consoli e podestà ha carattere assolutamente Italiano. La costituzione comunale di Trieste, quale risulta dai suoi antichi Statuti, rientra perfettamente nel quadro degli altri nostri Comuni: l'arrengo, il maggior consiglio, il podestà, i rettori, i procuratori ed i sindaci del Comune, son tutti istituti che noi troviamo cogli identici lineamenti nella maggior parte delle città Italiane. Più tardi i Comuni Istriani entrano completamente nell'orbita di Venezia, ed a chi ha ammirato il palazzo di Capodistria, e i Carpacci ed i Vivarini delle chiese di Pirano e di Parenzo, od ha sentito fiorire sul labbro del popolano d'Isola o d'Albona l'arguzia Goldoniana, non farà meraviglia di vedere come nello statuto di Rovigno le pene siano comminate, «come nell'alma città di Venetia et per ogni loco si osserva». (Statuti municipali di Rovigno (Trieste, 1851), I. III, с. 51).

Il diritto privato non ha minori caratteristiche prettamente Italiche del diritto pubblico. Nei documenti Trentini del secolo XIII avvertiamo questo fatto:

certi istituti Germanici, del resto largamente diffusi anche in Italia, come la Morgengabe, son ricordati soltanto nei contratti celebrati fra i nobili; il rimanente della popolazione regola i propri rapporti patrimoniali colla dote Romana e colla corrispondente donazione «propter nuptias». Erano dunque i feudali venuti dal di fuori al seguito dei Vescovi in buona parte d'origine Tedesca che mantenevano in uso, fra loro, gli istituti Germanici; il popolo si regolava, invece, secondo il diritto Romano. Ciò non può meravigliare, quando pensiamo alle numerose professioni di diritto Romano che si trovano nei documenti Tridentini dell'epoca più antica. Così l'influenza delle scuole che rinnovarono lo studio dei testi Romanistici vi si potè espandere con somma rapidità, e nei documenti dell'inizio del secolo XIII le formule sono perfettamente corrispondenti a quelle dei documenti notarili dell'Istria superiore e media.

Negli statuti dei secoli XIII e XIV vediamo regolata la successione in modo del tutto conforme ai dettami Giustinianei; si parla d'azioni personali, reali, utili, dirette e si distingue l'azione penale dall'«actio civilis» spettante al danneggiato, come si potrebbe fare nelle regioni dove più si sentì l'influsso delle scuole Romanistiche (Statuts di Rovereto cit., r. 80). Nella stessa Gorizia, che pure ebbe ad ospitare una serie di principi rozzi e non ad altro intenti che a guerre ed a rapine, la prevalenza del diritto romano è indubbia. Nel duecento vediamo ricordati dai documenti istituti intieramente Romanistici, come il costituto possessorio, il beneficium divisionis, l'exceptio non numeratae pecuniar, e così via (Lo si può vedere nei Documenti goriziani pubblicati da VINCENZO IOPPI nell'Archeografo triestino, XI seg. (Trieste, 1885 e seg.), e nei Documenti feiulani e goriziani diti dallo Swida, pure nell'Archeografo, XIV (Trieste, 1888). Gli stessi conti della linea più propriamente Goriziana regolano i rapporti patrimoniali del matrimonio colla dote, mentre nei contratti della linea Tirolese troviamo la Morgengabe (Ved. CORONINI, Tentamen Genealogico-Cronologicum-promovendae serici comitum et rerum Goritiae, Viennae, 1752, pagg. 173 206).

D'altronde, i notai della casa contale provenivano sovente dal Friuli patriarcale, dove il diritto romano trionfava da molto tempo sui resti del diritto longobardo. L'unita giuridica della regione friulana così formata praticamente, ebbe poi un riconoscimento ufficiale quando i conti ordinarono che fossero osservate anche nel Goriziano le costituzioni provinciali approvate nel 1366 dal Parlamento friulano.

Il quadro Romanistico diviene poi ancora più intenso quando da queste regioni passiamo all'Istria, e ciò è ben naturale perche quest'ultima non fu mai occupata dai Longobardi, e pur essendo stata più tardi assoggettata dai Franchi non ebbe a subire le vaste colonizzazioni feudali che portarono molti elementi Germanici nelI'Italia settentrionale e nella Toscana. I documenti Istriani dal secolo IX al XII ci rivelano un ordinamento della proprietà fondiaria simile a quello delle regioni più romanizzanti d'Italia (Descrissi tali lineamenti nelle mie Note ai documenti istriani di diritto privato dei secoli IX-XII, nella Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis (Trieste, 1900), pag. 179 segg.)

Caratteristica è pure la mancanza, in tali atti, d'ogni traccia d'istituti Germanici come la Vadia e il Launegildo che pur ebbero tanta diffusione nell'Italia settentrionale e nella Toscana. L'organizzazione della famiglia s'impernia sulla fraterna compagnia e sulla comunione fra i coniugi, due istituti, che troviamo pure in alcune regioni romaniche come la Sicilia e la Sardegna e son certamente dovute ad una formazione giuridica volgare delle plebi Romane.

Se queste sono le caratteristiche del diritto privato Istriano in un'età nella quale sono ancora così forti, in quasi tutta l'Italia le traccie dell'influenza Germanica, è facile comprendere quale dovesse essere lo svolgimento giuridico dell'Istria più tardi quando, attraverso il Friuli, prima, e Venezia, poi, le pervennero i dettami delle grandi senole romanistiche Italiane. Così vediamo, negli statuti Istriani, Romani i termini della prescrizione e dell'età maggiore, la potestà paterna e l'emancipazione, troviamo la donna libera da restrizioni patrimoniali, e nella successione vediamo mancare quella spiccata preferenza per gli agnati che pur si trova in tanti statuti d'altre regioni Italiane (Ved. Statuti di Rovigno cit., libro 11, г 419. 33. 54, e Stututi di Parenzo (Trieste, 1846), 11, c. 81.)

Tutto ci parla, dunque, di Roma e dell'Italia, in queste provincie che, pure, per la loro posizione geografica furono costrette a subire tante volte l'assalto barbarico e poi, più tardi, lingordigia dei principi che se le disputavano come prede agognate. Come le arti vi si affinarono colla materna dolcezza Italica che ci parla nelle splendide cattedrali, nei palazzi, nelle tele, nelle sculture delle città Istriane e Trentine, come le lettere vi trovarono elettissimi interpreti quali a Capodistria il Vergerio, il Muzio, il Carli, e a Rovereto il Tartarotti, e poi più oltre il Rosmini, il Maffei, il Prati, e tanti altri, così anche la coscienza giuridica ebbe uno svolgimento tutto italiano. Come gli altri fratelli della penisola, Istriani, Goriziani, Trentini conservarono nel profondo medioevo gli istituti della romanità e quando la procella Germanica si fu dissipata e gli studi rifiorenti diffusero nell'Europa ammirante le parole solenni degli Imperatori ed i raziocinii dei grandi giuristi Romani, essi pure parteciparono a quell'opera eccelsa di rinnovamento civile che per l'Italia sarà sempre ragione di gloria, una gloria che i secoli potranno bensì accrescere ma non offuscare. Perché non dobbiamo dimenticare che settecento anni or sono, quei nostri giuristi avevano saputo fissare alcuni principii dei quali, invano, oggi, in questa terribile convulsione europea, chiediamo, in nome della giustizia, un'onesta applicazione.

Avevano essi stabilito che i singoli cittadini non dovessero esser ritenuti responsabili di quanto potesse venir addebétato alla comunità, ed ogni giorno vediamo invece popolazioni innocenti perseguitate nella vita e negli averi per le supposte colpe dei loro governi; avevano stabilito che l'innocente non debba esser mai punito in luogo del colpevole, ed ogni giorno infelici ostaggi perdono la vita per fatti altrui molte volte neppur bene accertati. Nulla v'ha di più angoscioso del veder distruggere il patrimonio più sacro dell'umanità, quelle idee che rappresentavano la lenta conquista della civiltà sulla barbarie, ed è veramente un'ironia feroce del destino che i figli di provincie, Italiane per antiche storiche tradizioni, per razza, per ragioni geografiche, debbano combattere nelle file d'eserciti che muovono in nome d'una civiltà nutrita d'uno spirito così profondamente diverso ed opposto alla «humanitas» vanto della gente latina.

Ma dalla tenebra orrenda sorgerà poi la luce anche per quei nostri fratelli infelici; il sangue degli eroi ed il pianto delle madri saranno olocausto che ai popoli d'Europa aprirà di nuovo le vie al progresso civile; al regno della forza succederà il regno della giustizia, ed al sanguinante Edipo perseguitato dalle Furie vendicatrici, Pallade Atena aprirà ancora una volta il suo tempio, e la sotto lo scudo delle leggi immortali della giustizia troverà alfine riposo l'umanità dolorante e placata.

P. S. LEICHT.

domenica 29 settembre 2024

Zara non parlò mai la lingua slava: mito di papa Alessandro III nel 1177

Come in tutti i testi sorti in periodi di transizione, o provenienti da regioni dove sono in lotta dei linguaggi, così anche nei nostri documenti si riscontra una maggiore o minore purezza, o meglio una maggiore o minore vicinanza all'uno o all'altro di questi linguaggi, al veneto o al dalmatico nel caso nostro. Le cause determinanti queste varietà possono essere svariatissime: diversità di educazione che i parlanti o gli scriventi hanno ricevuto, natura dell'ambiente dove sono nati e vissuti, persone che praticano o hanno praticate, relazioni che mantengono e così via. Per questo, nel commento storico e paleografico che facciamo seguire ad ogni documento abbiamo tentato tutte le vie e ci siamo valsi di ogni possibile sussidio della scienza storica e paleografica, non solo per determinare il grado di cultura e gli studi percorsi dai singoli scrittori, ma abbiamo anche tentato di identificarli o almeno di stabilire l'ambiente da cui provennero e quello in cui vissero e operarono.

Non spetta a noi giudicare del maggior o minore grado di purezza dell'uno o dell'altro dei nostri documenti, nei riguardi del volgare dalmatico. Ci basti constatare che i notai transmarini non sempre capivano questo volgare o se lo capivano non sempre arrivavano a rendersi conto della sua natura e della sua origine. Abbiamo veduto discorrendo del documento n.ro VI, come il notaio Pietro da Sarzana non ne intendesse parecchie parole. Ancora più significativo è il caso offertoci da un altro notaio: da Giovanni da Ancona che, per quanto fosse a Spalato già da una ventina d'anni, prende per slave parole dalmatiche. Registrando un inventario del 31 luglio 1359, che molto probabilmente gli fu presentato in volgare, egli, tra altro, annota: «Una conca que dicitur Sclauonice mesiur». Eppure mesiur è parola dalmatica, conservatasi fin quasi ai nostri giorni nel veglioto. Si rinnova così a Spalato l'impressione che il dalmatico faceva ad italiani della penisola che venivano a Ragusa e a Zara. A Ragusa nel 1387 un umanista italiano, appena venuto, Giovanni da Ravenna, si lagnava « per interpretem agenda omnia », ma nel 1440 un altro umanista, Filippo de Diversis da Lucca, dopo sei anni di permanenza, era in grado di specificare che i ragusei «latine loquuntur, non autem sclaue, nec tamen nostro idiomate Italico . . . sed quodam alio uulgari idiomate eis speciali, quod a nobis intelllgi nequit nisi aliqualis, imo magna ejusmodi loquendi ha bea tur saltem audiendo consuetudo».

A Zara si pretende accadesse lo stesso nel 1177, quando Alessando lll, nel suo viaggio da Vasto a Venezia, vi si fermò per quattro giorni. Secondo una redazione del 1360 degli «Acta Alexandri pontificis», attribuita al cardinale Nicola Roselli, il papa sarebbe stato accolto a Zara con grandissimo onore, e condotto dal clero e dal popolo nella cattedrale « immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum Sclavica lingua». Il Brunelli, pur dubitando della esattezza e veridicità di questa redazione degli « Acta », afferma tuttavia « che il volgare neolatino di Dalmazia poteva essere detto, da chi lo udiva per la prima volta, lingua schiava, perchè sorto in paese che gl'Italiani chiamano Schiavonia ». E il Bartoli (Das Dalmatische cit., vol. I, pag. 190 sgg.), riprendendo le argomentazioni del Brunelli, crede che canti dalmatici furono presi per slavi. Congetture veramente acute e giustissime tutte e due dal punto di vista filologico, ma inopportune e fatte a vuoto perchè i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli «Acta di Alessandro III ».

Fonte: Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, 1927, pp. 70-71


Vedasi il luogo succitato della Storia del Brunelli, dove son messi nel debito rilievo gli anacronismi nei quali incorse il rimaneggiatore trecentesco. Per lui Zara è posta « in capite regni Hungarie », cosa che va benissimo per il 1360, ma non per il 1177 nè per tutto il duecento, nè per tutta la prima metà del trecento. Del resto, già il Muratori, ebbe modo di notare la poca attendibilità dell'opera del Roselli.


Contrariamente a quello della lapide, il testo del Baronio può essere inteso anche in senso più ampio, cioè che i canti "illirici" non provenissero tanto dal clero officiante quanto da una parte della folla di popolo che si assiepava lungo il tragitto papale.

Tra questo popolo vi era anche, ovviamente, la gente del contado slavo affluita in città per la grande, inattesa occasione.

Ce lo conferma una pubblicazione ufficiosa austriaca, che esclude canti liturgici considerando solo canzoni (Lieder): “Allorché, nel 1177, papa Alessandro III visitò la Dalmazia e le isole dalmate, il popolo si riversò massicciamente nella città di Zara, ricevette il Papa in maniera. indescrivibile cantando nel contempo canzoni croate con tanta potenza ed entusiasmo da far tremare l'aria stessa e la città ne rintronava tutta”.

Da dove siano derivate le notizie sugli effetti dei canti, non interessa: quello che invece interessa rilevare in ogni caso è il fatto che si trattava di gente foranea, come viene ben sottolineato dall'autore.

Non si dimentichi che una situazione del tutto analoga, si era verificata agli albori del Mille quando il doge Pietro II Orseolo passò con la flotta veneziana in Istria e Dalmazia a rinfrancare le città latine molestate dagli Slavi e accoglieme la dedizione.

Giunto il Doge a Ossero “la più vicina città della Dalmazia, ivi accorsero non solo i cittadini, sì eziandio gente da tutti i paesi circonvicini, tanto de' Romani quanto degli Slavi, e prestarono al Principe il giuramento di fedeltà”.

Anche in tale occasione è logico ritenere che gli Slavi parlassero e cantassero nella loro lingua, mentre i cittadini e i Romani si saranno di certo espressi in latino o tutt'al più in dalmatico. Fu Matteo Bartoli a confermare che i canti in lingua schiavona non potevano esser stati cantati che da una massa di contadini calati a Zara dalle campagne vicine per implorare la benedizione papale e assistere a un avvenimento che nella storia zaratina e in quella dalmata in generale può dirsi ancor oggi veramente unico“.

Tanta deve essere stata la massa slava calata in città per questa occasione, che i canti slavi potevano aver se non sopraffatto quelli latini dei cittadini ma almeno colpito l'attenzione dei cronisti o meglio solo di alcuni cronisti seriori.

Si deve ancora ricordare e sottolineare che né la cronaca di Romulado né quella bolognese di s. Luca citata dal Farlati né infine quella di Simone Begna parlano di questi canti schiavoni. Tanto che lo storico Giuseppe Praga ritenne di poter affermare che “i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli Acta di Alessandro III”. Ricordava inoltre il Praga i documenti che attestano come i rettori e gli umanisti del resto d'Italia incontrassero difficoltà nel comprendere il dalmatico, specie in Ragusa, anche dopo permanenza di anni in Dalmazia nel Trecento.

Abbiamo fin qui soffermato la nostra attenzione sui “cantici". Ma la frase del Baronio parla anche di “laudi”, mentre è significativo che la lapide del 1822 non ne faccia alcun cenno. Non è questo il luogo e il tempo di parlare delle acclamazioni, ossia delle laudes che si cantavano in Zara e di cui vi è traccia, databile al 1105, intitolata Laus que in Pascha e Natalis die post Evangelium diciturm.

Che in Zara si cantassero, forse anche in greco, le acclamazioni all'Imperatore bizantino è attestato.

Pochi anni dopo questo nostro 1177, nei patti che Venezia dettò alla Zara distrutta dalla IV Crociata nel 1204, si legge che "Clerus autem bis in anno in nativitate domini et in pascha resurrectionis laudes cantabunt in maiori ecclesia solempniter (sic) domino duci et domino patriarche atque archiepiscopo suo et comiti omni anno, propter quod benedictionem recipient consuetam".

Le laudi si cantavano in latino, come è attestato dai documenti pubblicati.

Non ci dilungheremo su questo argomento, dato che sembra pacifico per chiunque che in occasione della venuta di papa Alessandro III in Zara, se lodi vennero cantate a gloria del Pontefice e a invocazione della benedizione divina, esse furono esclusivamente in latino.

In materia non può esservi alcun dubbio.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, pp. 27-29


Papa Alessandro III a Zara nel 1177 e il recente Sinodo africano a Roma

Abbiamo avuto recentemente occasione di pubblicare una sintesi storica sulla visita di papa Alessandro III a Zara nel lontano 1177.

Rilevavamo come le acclamazioni in lingua slava che accolsero il Pontefice non erano da attribuire - come vuole la storiografia croata - al clero e al popolo di Zara, ma soltanto ai foranei accorsi in città per la straordinaria occasione.

E annotavamo: Se ci riferiamo ai giorni nostri, ancor oggi in occasione delle grandi cerimonie papali in Roma, le migliaia di pellegrini che vi giungono da paesi lontani e stranieri, in particolare dalla Polonia, cantano in piazza s. Pietro inni nella propria lingua, e la cosa viene notata subito dai mass-media senza che per questo si possa affermare che Roma e i suoi abitanti non camino in italiano o che siano addirittura dei polacchi“.

Non potevamo allora immaginare che a pochi mesi di distanza, nella massima basilica della Cattolicità si sarebbe tenuto un Sinodo della chiesa d'Africa e sulla sedia papale, essendo assente l'augusta persona del Pontefice felicemente regnante, sarebbe stato assiso il cardinale nigeriano Arinze.

Né potevamo immaginare che, come scrissero i giomali:

Il «tam tam», il suono dei tamburi, gli «ulelo» - gridi di gioia sopra le invocazioni liturgiche - sono echeggiati, ieri mattina, in San Pietro per il rito conclusivo delle sessioni romane del Sinodo africano.

Al termine del rito, come nella Messa di inizio alla fine di aprile, danze ritmate attorno all'altare da ragazze e giovani, indossanti tuniche con disegni a pelle di leopardo.

Al termine, in segno di gioia, si è scatenata una danza alla quale, nei pressi del baldacchino del Bernini, hanno partecipato suore, ragazze e giovani sacerdoti in ritmiche muovenze e battere di mani“.

La presenza, in Roma, di riti, danze e canti africani non fa certo dell'Urbe una città africana.

Come canti in slavo non fanno di Zara - nel 1177 - una città slava e tanto meno croata.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, p. 205


Il Milinović, il Jagic, il Lucianović ed altri, partendo da un passo erroneo del Baronio che tratta uno dei tanti episodi della storia dalmata, del Baronio fanno delle deduzioni che non possono passare inosservate, nè devono essere trascurate.

Secondo il Baronio nei suoi Annali Ecclesiastici, papa Alessandro III durante il suo viaggio da Ancona a Venezia fu trasportato da una bufera in Dalmazia. Viaggiando lungo la costa dalmata si fermò a Zara dove ebbe accoglienze entusiastiche; portato da un bianco destriero ed accompagnato processionalmente il papa si recò alla chiesa di S. Anastasia, mentre immense lodi e cantici in lingua slava altamente risuonavano (immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum sclavica lingua), ecc.

Di questo passo del Baronio i suddetti autori si valgono per asserire "come specialmente la nostra Zara emerga nella diffusa dolce armonia del paleoslavo" oppure che "se Zara, ove sussisteva l'elemento romano, usava pure la liturgia slava tanto più è certo che la stessa veniva adoperata nei luoghi di contado, rimasti sempre lontani da qualunque influenza straniera", ecc.

Tutto questo andrebbe bene se il Baronio fosse una fonte impeccabile e se del suo passo non si avesse ragione di dubitare! Ma qui è proprio il caso di soffermarsi! L'episodio di Alessandro III che tratta il Baronio è stato trattato anche dal Sanudo, dalla cronaca di Romualdo di Guarna, da Angelo Zon, da Tommaso Arcidiacono, da Simeone Begna da Zara, ed in parecchi punti non ha l'aspetto che il Baronio gli diede, sicchè ben a ragione si dubitò trattarsi di un lavoro posteriormente rimaneggiato.

Inoltre un errore madornale priva il passo del Baronio di ogni autorità e validità: parlando di Zara, egli afferma che essa è "in capite Hungariae regni" (che si trova in capo al regno d'Ungheria), mentre la storia sostiene che nel 1177, – anno della venuta di Alessandro – Zara era governata da Ruggero Morosini e dipendeva da Venezia e non dall'Ungheria!

Infine anche se il suddetto passo fosse realmente vero e valido, non credo che per ciò stesso si possa venire a quelle conclusioni che sembrano così naturali al Milinović, Lucianović, ecc.

I famosi "cantici in lingua slava", osserva il Bartoli, "potevano essere stati cantati da una massa di ammalati, mendicanti o contadini che dalle campagne vicine calarono a Zara per implorare la benedizione papale ed assistere ad un avvenimento che nella storia zaratina ed in quella dalmata può dirsi veramente raro. E tanta deve esser stata la massa slava calata in città per questa occasione che i cantici slavi avranno sopraffatto quelli latini degli abitanti di Zara.

Il volere ammettere che i veri zaratini abbiano cantato in croato sarebbe un'assurdità storica a cui si opporrebbe anche lo stesso Diplomatario (Codex Diplomaticus) dello Smičiklas. Del resto, d'accordo col Bartoli, non escluderei che qui sia d'un equivoco, cioè che si sia confuso il dalmatico predominante allora in Dalmazia collo "schiavo", perchè si tratta di un avvenimento successo in terre che allora confinavano direttamente con la Schiavonia, cioè la terra ove si parlava lo "schiavo”.

Se il dalmatico fu confuso con lo slavo dallo stesso Giustiniano, forse anche dal francese Cassa, nonchè da parecchi Veneziani, io non troverei difficoltà nell'ammettere che anche nel 1177 si sia commesso lo stesso errore.

In ogni caso, se veramente dovesse constare che in quell'occasione si cantò in "slavo” a Zara, non so perché e come si voglia subito ricorrere al paleoslavo, ormai arcaico e difficile, senza ammettere in prima linea l'esistenza della parlata volgare, intendo dire della lingua nazionale, viva, croata, che in occasioni solenni di giubilo ed esultanza avrà echeggiato rudemente, ma sinceramente dalle masse del contado.

Fonte: Rivista dalmatica, Anno VII., Fasc. 1, 1923, pp. 18-19

martedì 9 luglio 2024

Intervista ad un polesan (20/06/2008)

Intervista ad Otello S. del 20/06/2008

1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Io sono nato a Pola il 13 ottobre del 1930".

2) Mi può parlare della sua famiglia di origine?

R.: "Io sono rimasto figlio unico. Mia mamma era figlia di una veneta e di uno slavo dell'interno dell'Istria, per cui ha il cognome [C.]. Ora, si dice che il fascismo cambiava i cognomi... Bon, mia madre ha lavorato per lo stato italiano, è morta con il suo cognome [C.], va ben? Nessuno gliel'ha imposto. Certo, facevano i ricatti: se vuoi lavorare, italianizza il tuo cognome, giusto? Però non era come dicono che cambiavano il cognome. In località dell'interno è un altro discorso, però c'è chi ancora oggi porta il cognome slavo, c'è poco da fare. Perché quella è una zona che, come dire, se il padre era veneto il cognome era italiano, mentre se il padre era slavo il cognome era slavo, c'è poco da fare. Che poi era sempre dell'Istria poi. Perchè il fascismo sì, ha fatto, ma non ha fatto tanto quanto il comunismo. Perché intanto ha cominciato a mandare la polizia segreta a far fuori tutti quelli che avrebbero potuto contestare l'annessione alla Jugoslavia. Ecco perché non c'è bisogno di speleologi, si sa benissimo chi è finito in foiba, va ben? E si sa benissimo anche perché. Ci sono stati parecchi odi personali, ma quello è un altro discorso. Ma quelli son già venuti con l'elenco da far fuori quelli che potrebbero essere gli oppositori all'annessione alla Jugoslavia, va bene? Si, qualche paese è anche slavo, ma nella maggioranza delle cose, la soluzione americana avrebbe dovuto essere il confine etnico più giusto. Trieste ha gli slavi in casa, Gorizia idem, Fiume era una enclave in un contesto slavo, giusto? L'unica provincia che aveva una maggioranza italiana era l'Istria, ed è quella che ha avuto la sorte peggiore, va bene? Ecco perché dico di Pola. I fiumani possono dire quel che vogliono, ma erano una minoranza dentro un mondo slavo, insomma! E i crimini del fascismo... E questi crimini? [mi mostra una foto di Zara bombardata]. Questi crimini li hanno fatti per mandare via gli italiani dalla costa dalmata."

3) Sua mamma quindi aveva questo cognome, mentre suo padre?

R.: "Mio padre era in pratica il figlio di un napoleonico che si è fermato a Pola."

4) E che lavoro faceva?

R.: "Mio padre, boh? Agli inizi lavorava solo la mamma, poi si è messo a fare l'autista. Ma lui era molto per l'osteria! Quella volta era normale, poi in Veneto era normale!"

5) E sua mamma che lavoro faceva?

R.: "Mia mamma lavorava all'Opificio per la produzione di equipaggiamenti militari, indumenti, scarpe e maglie. Lei [lavorava] per le scarpe, per cui lavorava per lo stato. Nel '44, che per fortuna era domenica, [le bombe] han centrato in pieno l'opificio! Il primo bombardamento di Pola."

6) Lei saprebbe descrivermi Pola da un punti di vista economico: cioè cosa faceva la gente, che industrie c'erano, su cosa si basava l'economia cittadina...

R.: "Pola rispetto a Trieste e a Fiume non era una città commerciale. Era una città di piccola borghesia, tipo impiegati di concetto, commercianti, negozianti, eccetera, eccetera. Ma per lo più viveva dei cantieri navali, dell'Arsenale e dei vari opifici. Per cui era una città operaia più che altro, e quindi non poteva essere una città, come dire, reazionaria, una popolazione reazionaria come la si considera al tempo del fascismo. Anche nelle università c'era il gruppo degli studenti. Che io ho avuto un amico mio, per esempio, che era più grande di me, che lui ha avuto dei problemi. Era di origine slava, ma andava all'università con gli altri, e ha avuto dei problemi di salute proprio perché l'han menato. Ma erano episodi. Io del fascismo ho un buon [ricordo]. A parte la guerra. Ho un buon ricordo, vivevo tranquillo, rispettavo chi dovevo rispettare, ero rispettato e bom, basta. Per quanto riguarda i cognomi, chi li ha cambiati lo ha fatto perché voleva andare incontro al posto di lavoro o cose di questo genere, ecco. Che poi tra le altre cose ci sono dei cognomi in Istria di gente come Lazzari, Benci, Gabrieli, cognomi toscani, che son diventati Lazzerich, Bencich, Gabrielich, tutto grazie ai preti slavi dell'Istria. Hai capito? Loro non facevano proclami, non mandavano circolari in prefettura, lo facevano e basta. Io non son mai stato di destra, intendiamoci, son sempre stato equidistante dai due estremi, perché per me i due estremi si toccano. Io ti dico quello che penso io, poi te pensa quel che hai voglia!"

7) Pola come città industriale aveva anche una forte tradizione socialista o sbaglio?

R.: "Si, si, si. Certo, non poteva esprimersi in maniera palese, però nelle osterie si. Guarda, Pola è stata beneficiata da due imperi, quello romano e quello asburgico, tutti gli altri hanno portato via qualcosa."

8) Ne parlavamo prima, anche se in maniera non esplicita, e cioè della composizione della popolazione cittadina [mi interrompe]

R.: "Durante l'Austria, Pola era piazzaforte militare, per cui militarmente era in mano agli austriaci, però il comune era in mano agli italiani che erano la maggioranza rispetto agli slavi, capisci. Per cui voglio dire che [Pola] aveva la sua anima istroveneta, o comunque latina."

9) E com'erano i rapporti tra la popolazione italiana e la componente slava?

R.: "Diciamo... Ti farò un paragone... Per esempio, quelle che venivano a Pola, andavano dalle famiglie benestanti a fare le serve, no? O quelle che venivano da fuori a portare le fascine, o quelle che venivano a vendere le uova, mi spiego? A un certo punto c'era un rapporto, come dire, di mutuo rispetto per ognuno. Ci sono state si anche quelli che dispensavano odio, non lo metto in dubbio, ma sono casi, ad esempio, come Torino coi terroni, capisci? Sono situazioni, però non si può fare di tutto uno solo, come dire. Succedevano cose di questo genere. Però non ci sono mai state...Intanto ti voglio dire una cosa, che gli slavi quando venivano a Pola, si uniformavano talmente bene alla cultura, al modo di vivere della gente di Pola che alla fine diventavano più italiani degli italiani, va ben? Perché il croato, in sostanza, non ha una propria cultura, tranne che quella contadina, per carità. Adesso pensi che si travestono da romani davanti all'Arena! Si travestono da romani per far la sceneggiata a Pula, mamma mia! Pola che è stata chiamata dai greci Polai, che vuol dire città degli esuli - guarda te - poi Polae in latino e poi si, si è chiamata Pietas Julia perché ha preso a parteggiare per i partigiani anti cesariani, no? E allora siccome ha vinto Cesare han dovuto chiedere scusa! E poi poco dopo Gesù Cristo è stata costruita quella piccola arena, per cui è una piccola Roma in riva al mare. Su sette colli, eh! Tutto tra un colle e l'altro!"

10) Parliamo della guerra. Qual è il primo ricordo che le viene in mente della guerra?

R.: "L'annonaria! Si, perché voglio dire, non c'era da mangiare, non c'era da mangiare. E allora siccome mia mamma... Mio padre era stato richiamato, e mia madre continuava a lavorare, fino al '44, quando poi è venuta a casa per il primo bombardamento. E però c'era il razionamento. Mi ricordo - io avevo dodici tredici anni, spilungone ma magro - che un giorno mia madre mi ha fatto da magiare - che schifo! - delle patate lesse con la marmellata. Non gliele auguro a nessuno! E comunque, approfitto di questo anche per dirti questa cosa qua: lei aveva degli zii - fratelli del padre - nell'interno dell'Istria, cioè in quella che era l'ex contea di Pisino, sempre parte dell'Istria, ma zona dei villaggi slavi, dove c'era qualcuno che aveva fatto la scuola e parlava in qualche modo l'italiano, ma certamente il loro dialetto era quello ciacavo, che è un dialetto slavo. E posso dirti intanto che in chiesa si facevano le messe in latino, c'era dei villaggi che era un'altra Istria, che sembrava di essere tornati al medioevo, alla servitù della gleba. Una roba! Non so, tra stalla e porcile era tutto insieme, per cui era una cosa...Noi che eravamo abituati in città, vedere quello lì ci veniva voglia di andare via. E comunque posso dirti che c'era il fascismo, ma quella gente là aveva il catechismo in croato. Allora mi vuoi dire? Eravamo in uno stato comandato dai fascisti, giusto? Nelle osterie veniva qualcuno da fuori, e c'era chi parlava in croato tra di loro, lo slavo, perché era un dialetto come il nostro italiano, ma loro avevano il dialetto slavo, non era lingua croata. Questo nelle osterie di Pola, ma ancora di più in Pisino e dintorni parlavano croato, e c'era il fascismo! E allora, come la mettiamo! Come la mettiamo con quello che scrive Oliva e compagnia? Vedi? A un certo punto non si può scrivere perché si trova un documento, non si può applicare il documento su tutte le cose quotidiane che succedono. Allora, niente, mi chiedevi della guerra. Noi portavamo dei vestiti smessi, per che so patate...Nelle campagne, andavamo nei villaggi di campagna, è ovvio."

11) Quindi c'era una specie di scambio?

R.: "Si, beh, si andava dal parentado per dire. Ci vedevamo solo in quell'occasione. Però è chiaro, perché a un certo punto, come in tutta Italia, c'era il razionamento, ma guarda che c'era il razionamento anche sotto Tito, eh! E forse [era] anche peggio!"

12) E delle bombe cosa ricorda?

R.: "Il primo bombardamento, ripeto, per fortuna son venuti di domenica: gli scolari erano a casa, gli operai erano a casa, per cui si, ci sono stati morti ma non eccessivi. Comunque Pola, essendo un porto di guerra, non ha subito nemmeno la metà dei bombardamenti che ha subito Zara che non c'entrava niente con lo stato di guerra, va ben? Tanto per dirne una. Si, ci sono stati bombardamenti. Ma noi per fortuna sotto i colli - tutta roccia - avevamo le gallerie, e più che qualche sassolino non arrivava."

13) I tedeschi lei li ricorda?

R.: "I tedeschi, i tedeschi. I tedeschi, chi li rispettavano... Si, va beh, poi si davano da fare perché al confine c'era di mezzo anche la resistenza, e quindi a reazione, come dire, corrisponde reazione contraria. Si, ci sono state delle cose. Io ero ragazzo, per cui non entravo in queste cose qua. Però mio padre, per esempio, che è tornato dopo l'8 settembre a casa, ha preso lavoro come autista con un' azienda edile, per cui faceva l'autista. Io so che da una parte aveva gli amici che erano partigiani, dall'altra aveva quelli che erano [fascisti] e, come dire, uno cercava di convivere in maniera da non essere sempre in mezzo. Però bisognava anche dire a un certo punto... Quando si parla che l'Italia ha fatto questo e ha fatto quello, io so che lo han fatto in tempo di guerra, non prima. Prima c'erano, come dire, i luoghi dove mandavano al confino, ma non c'erano i lager, non c'erano i lager. Dopo son venuti i lager, dopo. E quando son venuti i tedeschi è cominciato San Sabba, e compagnia e briscola. Ma prima, prima della guerra, non c'erano cose che poi hanno fatto vedere Tito, Stalin e compagnia. Hitler poi non ne parliamo!"

14) Posso chiederle se si ricorda l'ingresso dei titini a Pola?

R.: "Io non c'ero, però siccome mio padre... E' stato una roba... Quell'ora del pomeriggio me la ricordo perché è stata sconvolgente. Era i primi di maggio - non mi ricordo più - e mio padre era andato con la colonna dell'azienda a Trieste, e mia madre era preoccupata, perché sai, passare nelle zone controllate dai partigiani, non si sa bene come finiva. Perché là era... Anche perché, per esempio, i giovani dovevano prendere partito, o andare da una parte o andare dall'altra, non potevano restare a casa propria e basta, non potevano. E se andavano partigiani, non è che restavano in Istria, a parte il Battaglione Budicin, che però è di Rovigno, non è di Pola, e loro si sono organizzati per conto loro e hanno fatto gruppo. Ma gli altri così, sciolti, li mandavano nell'interno della Jugoslavia. Io conosco uno che è finito in Dalmazia, capisci? Pur di non averli a far la guerra, anche contro i tedeschi, ma via dall'Istria. Proprio per non avere italiani che potessero rivendicare qualche cosa. Anche in quel caso là l'utilizzo dei partigiani italiani, era finalizzato a quel che veniva dopo."

15) E quindi l'ingresso titino a Pola mi diceva che è stato sconvolgente...

R.: " Ah, si, si. Allora, siamo arrivati nei pressi dell'arena, e c'era questi vestiti come potevano - molto, molto divertenti, se vogliamo - che ballavano il kolo dentro l'arena, sa quei balli che ballano loro. Ah, ah!"

16) Immagino che la gente non li abbia accolti molto bene...

R.: "No, no, anche perchè... Anche perché è subentrata la paura: c'è gente che è sparita e nessuno sa più niente, capisce? E beh, insomma... Perché al di là delle forze armate, non erano loro il pericolo, il pericolo era la polizia segreta, l'OZNA, quelli che andavano in cerca delle persone per eliminarle."

17) Le ha anticipate ora con le sue parole, le foibe. Parliamone. Le chiedo se voi eravate a conoscenza della loro esistenza...

R.: "Io delle foibe ne ho sentito parlare nell'ambito [di] quando c'erano gli inglesi, perché c'è stata in piazza Porta Aurea, dove c'è l'Arco dei Sergi, tutta una mostra. Perché, tra le altre cose, i primi infoibati sono andati a tirarli fuori i vigili del fuoco di Pola, protetti dai tedeschi, e allora tutte queste foto così, quando son venuti gli inglesi, han fatto una mostra a Porta Aurea con tutte queste belle fotografie: volti tumefatti... Ma non è soltanto stato per questo, perché Pola in quel periodo era una città amministrata dagli inglesi, però ogni via d'accesso - che so, due o tre chilometri fuori dai sobborghi - c'erano i posti di blocco, perché tutta l'Istria era in mano amministrativamente - e han fatto il bello e il cattivo tempo - agli jugoslavi. Per cui, voglio dire, gli jugoslavi facevano quello che volevano: mandavano i camion con la gente a fare le manifestazioni a Pola: Pola è nostra! Viva Tito! E cose di questo genere. Non erano i polesani; [c']era magari anche qualche polesano, ma insomma.. Tu devi renderti conto che sono andati via poi quattro quinti della popolazione. Io mi sono trovato straniero in casa mia dall'oggi al domani. E io non conoscevo la lingua!"

18) Delle foibe quindi si sentiva parlare...

R.: "Si, si, questo è quello che so io. Quello che so io è che ho visto questa mostra."

19) Molte volte le foibe si raccontano con la sparizione fisica delle persone...

R.: "Eh si, chi conosceva quelle persone non le vedeva più, è ovvio insomma. E le famiglie che correvano di qua e correvano di là per cercare i parenti e poi dopo [non li trovavano]. Che loro son rimasti quarantacinque giorni, dopodichè sono subentrati gli alleati, gli inglesi. E allora tutto si è risolto che cercavano di capire dove erano finiti. Il fatto è che però la mostra, la mostra di cui parlo io, riguardava gli infoibati del '43, dopo l'8 settembre, perché gli slavi sono entrati subito e i tedeschi sono arrivati dopo. Intanto gli slavi si erano ritirati, e avevano fatto la loro brava pulizia, hai capito? Etnica!"

20) Visto che lei è di Pola, non posso non chiederle dell'episodio di Vergarolla.

R.: "Ah si, ecco, bravo, perché è importante questo! Perché un mese o due fa si è saputo anche chi, materialmente, ha fatto scoppiare quelle mine. Noi l'avevamo sempre pensato - saputo no - ma scusa eh? Oltretutto quel giorno dovevo andare là alla festa anche io. Senonchè quella mattina, mi ricordo sempre quel cielo azzurro e queste nuvole che correvano perché c'era una forte corrente d'aria...I miei amici dovevano fare tutto il centro cittadino per venire alle Baracche, il sobborgo dove abitavo io, per chiamarmi e poter andare a questa festa là. Perché noi andavamo a fare gare e pallanuoto per conto nostro, come azione cattolica. E io le ho viste quelle mine, ma chi se ne fregava? Erano là, e se non le toccavi non succedeva niente, hai capito? E allora anche quella domenica là avremo dovuto andare. Arrivano i miei amici, ma siccome quella domenica mattina, sarà perché ho un sesto senso o non lo so, mi son svegliato verso mattina e nel dormiveglia tra sogno e veglia ho sentito come una radio che diceva: attenzione, attenzione al porto di Ancona è scoppiata una polveriera! Bisogna anche premettere che durante la guerra, quando le formazioni aeree andavano a bombardare in Germania, c'era sempre al largo di Ancona che, come dire, passava la formazione di bombardieri... Comunque io quella mattina non avevo nessuna idea di fare un sogno del genere, di sentire la radio così. E son rimasto sai come i cani quando sentono il terremoto? Inquieto. Dico no, io non vengo. Ma come! Dieci minuti che mi han parlato - era l'una e mezza - hanno sentito [lo scoppio]. Loro son partiti, hanno perso dieci minuti, e io mi son fermato davanti a casa. Sono arrivati a metà strada ed è successo il finimondo, per cui, tutto sommato, gli ho salvato anche la vita!"

21) Mi ha detto di sapere chi è stato a fare esplodere le mine a Vergarolla...

R.: "Un certo K. di Trieste, che faceva parte dell'OZNA, insieme ad altri. Perché a Trieste, nonostante ci fossero gli alleati, c'era il centro dell'OZNA, mascherato come hai voglia. E loro viaggiavano costantemente tra Fiume e Trieste. E adesso c'è gente che andando in Inghilterra, hanno scoperto questa cosa qui, i nomi e tutto quanto. E questo ha determinato il panico tra le gente."

22) Immagino...

R.: "Tra le foibe... Arrivavano e non si poteva... Io conosco un ex partigiano italiano, che ha detto che alla sera dovevano andare in gruppo, perché erano provocati dagli slavi. Perché gli slavi venivano a Pola liberamente, noi per andare fuori dovevamo avere mille lasciapassare, ma quelli venivano liberamente, tanto venivano a fare la loro propaganda."

23) Quindi Vergarolla ha aumentato la paura?

R.: "Beh, si, è ovvio. Se tanto mi da tanto, scusa... Si parla tanto di attentati, ma il primo attentato lo abbiamo avuto noi durante la guerra, e nessuno ne ha mai parlato!"

24) Parliamo dell'esodo. Lei quando è partito da Pola?

R.: "Ma, intanto io ho fatto tre anni sotto Tito."

25) Ah, ho capito, parliamone...

R.: "Eri militarizzato anche da civile, altro che fascismo! Il fascismo era rosa e fiori, perché io col fascismo potevo anche fare il furbetto e non avere la divisa da balilla e non andare al saggio ginnico, ma tutto finiva là! Invece i sabati eri obbligato ad andare a fare il premilitare, con il fucile di legno - sagome di fucile di legno - e obbedendo a ordini in una lingua che non era la tua! Io sono stato fortunato in un certo modo, perché sono venuto a lavorare in officina quando la città era passata alla Jugoslavia, e però c'era anche un circolo italiano molto finalizzato alla propaganda, in cui c'era una filodrammatica cui ho partecipato. E abbiamo partecipato a una rassegna e abbiamo vinto la rassegna , naturalmente con un dramma sulla vita partigiana! Questo è servito però. E c'era uno che veniva da Cuneo, meridionale di Napoli, che ha riparato con tutta la famiglia in Jugoslavia, perché se fosse rimasto in Italia avrebbe dovuto subire determinati processi, va bene? Però, tutto sommato, questo qua avendo la passione per il teatro, è riuscito a coinvolgere quelli del partito comunista e ha realizzato per un anno e mezzo un teatro semi-stabile, e mi ha chiamato a far parte di questo teatro semistabile. Ora, mentre Pola si era svuotata, a Rovigno e negli altri centri della costa, l'esodo era ancora alla spicciolata, l'elemento italiano era ancora abbastanza integro, perché non sono andati via col Toscana come a Pola, migliaia e migliaia per volta. E allora la mia soddisfazione era quella di recitare in italiano in un territorio che era diventato slavo. Poi siccome abbiamo recitato Goldoni, Ibsen, Cecov, una critica della borghesia... Ma il partito voleva addirittura i lavori sovietici, e ne abbiamo fatta una, ne abbiamo messa in scena una, solo che c'erano quei quattro gatti del partito, ma non c'era il pubblico! E han chiuso il teatro. Siccome i quadri culturali erano a livello molto terra, terra, anche io che ero un po' studentello con qualche velleità diversa...Poi, tra l'altro, un bel giorno, quando han chiuso, mio padre - io ero ancora minorenne - aveva fatto l'opzione, firmato l'opzione per voler mantenere la cittadinanza italiana. Ma siccome lui lo impiegavano ad andare a prendere il latte per tutta le regione, non lo mandavano via! Era in sospeso, e così in sospeso restavo anche io. E mi ricordo che nella primavera del '50, mi avevano dato in mano la gestione del cinema, arrivavano tutte le cose [pellicole] in croato e io non capivo niente! Ma questo era il meno. La mia porta [d'ufficio] era di fronte a quella del Fronte popolare che equivaleva al Comune, all'amministrazione. Io ho visto una vecchietta che vendeva un po' di legna, mandata via da lì come i cani rognosi, va bene? Dalla sinistra, dal partito comunista jugoslavo! E allora quando mi hanno chiamato dalla segreteria del partito, per farmi entrare nel partito a me, ho detto: come me la cavo? Ho detto sa, io sono giovane, il partito è una cosa importante per poter prendere una decisione e cose così. E allora mi han lasciato, sono tornato a casa, mi hanno licenziato dal cinema. E allora io sono andato a lavorare al Cantiere Navale Scoglio Olivi. Perché bisognava andare a lavorare e, naturalmente, era peggio dell'annonaria fascista!"

26) Cioè c'era poca roba da mangiare?

R.: "Mia madre andava a fare, poveretta, delle file, e quando lavorava sul banco non trovava più niente. Non ti dico...Intanto al cantiere navale erano arrivati i monfalconesi, perché il cantiere navale, era rimasto privo della forza lavoro. E tra le altre cose, in quei quarantacinque giorni prima di andare via da Pola e lasciarla agli alleati, gli slavi avevano portato via dei macchinari dall'Arsenale. Ai cantieri costruivano delle navi e a luglio mi ricordo che c'erano queste lamiere che scottavano, un caldo bestiale! Io avevo... Ero aggregato al capo operaio, perché facevo l'apprendista, e si sono presi a pugni per avere prima uno dell'altro la gru per fissare le paratie, che sarebbero le ossature della nave. Per cui ogni mattina che dovevo andare là dentro, sembrava di dover andare all'inferno: il caldo, l'angoscia, madonna, una roba da matti! Fortunatamente, tra virgolette, un giorno ho messo il piede su un asse che era male sistemata tra due tubi, e son caduto giù, di sotto e mi son storto il piede, per cui son stato a casa. Poi dopo nel frattempo è venuto l'approvazione per poter partire. Meno male, perché mi avevano già incasellato a rischio di leva: avrei dovuto andare nell'esercito jugoslavo, senza sapere una parola!"

27) Ma invece dei monfalconesi cosa ricorda?

R.: "Ma, insomma, cosa ricordo... Erano qualche migliaia, si che però poi dopo anche loro hanno avuto la brutta sorpresa del Cominform, e son finiti anche all'Isola Calva! Ma meno male, son contento per loro voglio dire."

28) Quindi a Pola sono arrivati? Ce n'era qualcuno...

R.: "Si, però la città era ancora abbastanza spopolata a quel tempo, eh..."

29) Lei va via nel 1950, giusto? Ma prima di andare via lei vede Pola svuotarsi. Riesce a descrivermi la città in quei giorni?

R.: "Tremendo, tremendo. Intanto i miei amici son scomparsi quasi tutti, chi con la famiglia, chi col gruppo. Che poi dopo quelli dell'azione cattolica, si son trasferiti tutti ad Oderso in provincia di Treviso, in un convitto. Io no, che mio padre aveva deciso di vedere come si sviluppavano le cose e son rimasto là, son rimasto isolato. Per cui mi sono fatto qualche amico nell'ambiente del lavoro, nell'officina dove lavoravo, però non era la stessa cosa, insomma."

30) Quindi era una città che si svuotava...

R.: "Si, si, era tremendo. Io sinceramente evitavo di andare in centro, evitavo di andare in centro, perché tu vedevi porte sprangate, strade deserte e con l'inverno che passava, [era] una roba tremenda. Era che anche nella stessa baracca dove abitavo io, saremmo rimasti un terzo di tutta la gente [che c'era]. Che poi era gente operaia, non era gente così... Non era gente che aveva - come dire - particolari passioni politiche. Però, sa, è contagioso: va via uno, va via l'altro, e insomma...Ti dico, una città che aveva trentadue-trentacinque mila abitanti, per quattro quinti, insomma, ventottomila se ne sono andati. Ti rendi conto? Fiume e le altre parti, o il resto dell'Istria si è spopolata piano, piano. Ma Pola, tremendo, tremendo! Che poi, abbi pazienza, mia madre nata e cresciuta a Pola, che doveva - come dire - sistemare i vari indumenti, si arrangiava, non aveva mai fatto la sarta, però, voglio dire, nella mia famiglia, la donna aveva sempre quella capacità di sistemare le cose senza essere una professionista. Per avere un po' di zucchero, di farina e una cosa e l'altra, là dove abitavamo noi, son venute le famiglie dei sottoufficiali, perché gli ufficiali erano alle palazzine della Marina, quelle migliori, no? Però loro avevano lo spazio per conto loro, capisci? Però loro vivevano per conto loro, noi no. E la rabbia mia era: ma come, mia madre nata lì, deve vivere per fare la serva? E a quel punto no, capisci? Eh... Ah, poi, tra le altre cose in quel periodo là, la prima cosa quando sono arrivati [è stata che] ogni settimana, al venerdì, raduno al Fronte Popolare, perché il Fronte Popolare in ogni - come si dice - rione, borgo, aveva la sua sede, no? E ogni casa aveva - come dire - il responsabile di partito che controllava che tutti facessero questo, facessero quest'altro, andare alla riunione, andare a fare il lavoro volontario, a tirare sassi di qua e metterli dall'altra parte. Là, se non facevi quello che ti dicevano, cominciavano a guardarti [male]."

31) Posso chiederle qual è stato il motivo per cui siete partiti?

R.: "Intanto io ringrazio i miei genitori per cosa han fatto. Perché io che volevo scrivere... Ho vinto anche un premio con la Schiava istriana, e cioè mi sono inventato una storia al tempo di Roma, mettendo nei romani la classe prepotente rispetto al popolo degli istriani, perché è così: i romani hanno invaso l'Istria, hanno fatto la guerra che sarà durata sette o dieci anni - adesso non mi ricordo più - per sottomettere quelle popolazioni. Perché altrimenti non potevi scrivere: o scrivevi del partito, o non scrivevi, ma peggio del fascismo! Perché non avevi vie traverse, dovevi scrivere la lode a Tito o cosa. Io ho dei libri che ti danno il senso di quello che poteva essere la scrittura o la cultura a quel tempo là. O ti adeguavi a quello che volevano quelli del partito, o non facevi niente. Anzi, cominciavi ad essere guardato con sospetto."

32) Quindi perché siete partiti?

R.: "Ma, intanto ci si sentiva condizionati al massimo, almeno io, e parlo per me, non vedevo l'ora di andarmene via. Dico sarà quel che sarà, tra il campo profughi e il cavallo, ma almeno potrò dire crepa se mi veniva da dire crepa, capisci? Io, sinceramente... Poi niente, era diventato asfissiante il clima politico."

33) In che senso?

R.: "Nel senso cha a un certo punto, tutto doveva essere organizzato come voleva il partito. Non c'era una vita sociale autonoma, venivi inquadrato e basta. Il lavoro, si, andava bene, però dovevi stare attento a cosa leggevi."

34) Un regime che quindi penetrava in ogni aspetto della vita quotidiana...

R.: "Ma certamente, perché non potevi dire niente, perché a un certo punto incontravi chi riferiva ed era finita. Ma, voglio dire, nella Russia hanno fatto così, non è che ci sia stato molto diverso, eh!"

35) Ribaltando la domanda, ora le chiedo chi è rimasto, secondo lei, perché lo ha fatto?

R.: "Ci sono quelli che son rimasti anche per ideologia, no? Sono una minoranza, ma ci sono anche quelli. Altri [sono rimasti] perché, tutto sommato, insomma, [dicevano] ho una casa, ho un terreno, ma dove vado? Capisci, cioè? Quelli son rimasti in questo senso qua, capisci? E, tra le altre cose, quelli che adesso si vantano dell'italianità, perché fa comodo, sono i famosi [R.], che uno è vicesindaco, e l'altro è deputato a Zagabria. Il loro padre era un funzionario del partito, che partito? Comunista! Hai capito? Voglio dire che si riciclano quella gente là. Io non voglio far ricadere le colpe dei padri sui figli, se sono rimasti è perché c'era una ragione. E guarda che chi aveva in mano il potere, ha fatto poi le sue brave berlusconate, eh, eh!"

36) Si ricorda il viaggio?

R.: "Io parto la notte di San Martino del 1950. Io sono partito in treno insieme a qualche altra decina di persone che avevamo quella sera, come dire, il permesso di andare a Trieste."

37) E dietro avete portato tutto con voi o c'erano delle limitazioni?

R.: "No, si poteva portare i propri effetti personali, per cui mia madre che ha penato una vita per farsi la mobilia - a rete e una cosa e l'altra - ha dovuto disfarsene prima, così, per quattro soldi e via! "

38) Del viaggio che ricordi ha?

R.: "Che non finiva mai quella notte! Siamo arrivati a Opicina, sopra Trieste, che pioveva che dio la mandava, e se non la mandava lui, la mandava qualche d'un altro! Allora, ci hanno messo dentro delle baracche, con i letti a castello e a mezzogiorno, un calderone così di roba fumante dentro la gavetta, che noi la chiamavamo la gamella. Bon, insomma, roba da guerra. E ho passato la prima notte così, e ho subito, come tutti gli altri un interrogatorio: ah, lei lavorava al cantiere navale! Una cosa e un'altra, e io cosa dovevo dire? Si, beh, costruivo le navi! Questo la polizia italiana, o alleata, comunque. Un disagio della madonna, insomma."

39) Un disagio, perché?

R.: "Eh, campo profughi perché ti trovi là, non è che ti mandano in camera d'albergo, insieme ai tuoi letti ci sono gli altri, hai capito? Non parliamo poi del campo profughi di Novara! E allora ci mandano a Udine, che è un campo di smistamento."

40) Lei si ricorda il campo di Udine? Cos'era una scuola, una caserma?

R.: "Io mi ricordo un grande stanzone, dove c'erano vari cosi - materassi, questo e quell'altro, un gran casino -, un grande stanzone. Che però io a Novara sono capitato per caso, perché se avessi seguito la sorte di quelli che son venuti fuori dalla Jugoslavia insieme a me - che, notare, io ritornavo in territorio italiano, non è che ero diverso, che ero extracomunitario! - loro son finiti a L'Aquila. Io con la mia famiglia siamo andati da Udine, abbiamo chiesto di andare a trovare mia nonna e le sorelle di mia mamma [a Verona], che mio zio era già morto, e tra le altre cose, faceva il carabiniere a Verona. E allora ci hanno dato il permesso, come militari, [di andare] una settimana a Verona, e siamo andati."

41) Però non in campo...

R.: "No, no, a casa di mia nonna. Chi aveva i parenti, insomma... Loro non potevano ospitarci perché erano già con due figli in una camera e cucina e in una stanzina. Quella settimana, però, avevo la roba... Avevo un cappotto fatto con la coperta di lana, un cappotto a tre quarti, proprio da pellegrini! Ma quando siamo tornati poi a Udine - era domenica - è venuta da Novara la richiesta di posti che erano disponibili, e allora niente, ci hanno convogliato a Novara. Anche là, abbiam mangiato una pastasciutta alla stazione di Milano alla sera, poi abbiamo aspettato il treno del mattino per arrivare qua a Novara che c'era una nebbia!"

42) E a Milano la pastasciutta chi ve l'ha data? Qualche organizzazione di assistenza?

R.: "No, no, per conto nostro. No, io non sono stato in quei convogli della gente, quelli sono venuti prima di me. Perché vedi, a Novara ci son pochi polesani, o polesi, come ci chiamavano per distinguerci da quelli del Polesine. Perché tutti quelli che son partiti col Toscana o son venuti via così, lavorando all'Arsenale o alla Fabbrica Tabacchi, hanno trovato il posto a Torino, La Spezia, Venezia, tutti luoghi dove hanno potuto, come dire, trovare una sistemazione quanto meno provvisoria, ma una sistemazione. Quando sono arrivato a Novara io, ci hanno sistemato tutti - sei famiglie - in uno stanzone che sarà stato lungo da là alla porta e qualche metro più largo: c'era i listelli con le coperte che delimitavano sia il corridoio - che c'era la finestra in fondo - e la porta chiusa dal corridoio. Sei famiglie, tre da una parte e tre dall'altra: chi scoreggiava, chi pompava col petrolio per cucinare qualcosa, un casino della madonna! E poi, sa, poco alla volta uno si sistema, perché magari uno va via, trova posto e ti lascia più spazio. Quel posto di prima accoglienza, non esiste più, perché adesso c'è il parcheggio delle automobili. Perché l'unico danno che ha avuto dalla guerra Novara, è stato un attentato che ha fatto crollare una parte della Caserma Perrone. Ma roba più dimostrativa che altro. Di bombardamenti hanno avuto dei mitragliamenti sulla stazione e qualche spezzone così e basta, non l'han toccata. Evidentemente c'era un nucleo antifascista, partigiano, molto forte qua. E anche nella localizzazione del campo profughi, [a] quel tempo la politica era in mano alla Democrazia Cristiana, e allora la destra, il MSI, ci utilizzava come quelli che ecco, avete visto, il paradiso comunista eccetera, eccetera. I democristiani ci mandavano qua e là dove c'erano le amministrazioni di sinistra per bilanciare i voti: si, ci hanno dato il sussidio, non più la minestra da calderone ma il sussidio, per cui uno poteva organizzarsi un pochettino, ma però l'abbiamo pagata! C'era però... Che quando sono arrivato io, era già buona, perché all'inizio i miei compagni di sventura - chiamiamoli così - dovevano girare, soprattutto di sera a gruppi, perché c'era a Novara chi non ci poteva vedere. Venite a portarci via il pane! [dicevano]. Tant'è vero che quando io ho lavorato alla De Agostini, c'era uno che abbiamo lavorato insieme per diciotto anni. Eppure dopo tanto tempo, non so per che quale discussione [mi ha detto]: eh, se non ci fossi tu qua! Era il più negato a fare quel lavoro, aveva sempre bisogno di qualcuno, comunque! Era comunista, milanista e mangiatore per dieci! Mi fa: se non ci fossi qua tu, ci sarebbe mio fratello! [Gli ho detto]: guarda, senti un po', mio padre è andato in Russia con la colonna dell'esercito italiano, per cui, voglio dire, io ho gli stessi diritti tuoi sia che abiti a Novara che da un'altra parte della città. E dopo tanto tempo, eh!"

43) Ad esempio, com'era la vita nel campo profughi?

R.: "Ah beh, la vita nel campo profughi era già un dato acquisito quando sono arrivato io. Noi avevamo tutto un altro modo di concepire la vita, perché non dimenticare che sono nato e vissuto in una città. Perchè Novara adesso si è ingrandita, ma quella volta, per me, era più vuota di Pola, perché non prendevano iniziative. Allora a Pola avevamo i gruppi di ragazzi e ragazze che con la chitarra si suonava; cioè, c'è uno spirito diverso. Mi ricordo che tra le altre cose, siccome c'era chi lavorava... Ma si faceva quei lavori che capitavano: portare il carbone nelle cantine, portare i cesti di frutta al mercato all'ingrosso. Io per esempio ho preso parte alla canalizzazione del gas tutta intorno a Novara. Ma tutti lavori, come dire, a termine insomma. Per cui, voglio dire, c'era chi aveva qualche soldo in tasca e chi no. Allora quando c'era la festa, facevamo i nostri gruppi, cioè ragazze e ragazzi insieme... Ma non, come dire... Noi avevamo un cameratismo che qua non c'era. E allora andavamo, pigliavamo, affittavamo a carnevale una stanza dietro a un'osteria, c'era il giradischi, noi portavamo da bere, le ragazze portavano i panini e si ballava, si faceva i giochi di società, sa, quei giochi a premi e quelle stupidaggini là. E il padrone del locale ci diceva: se volete, ci sono le stanze di sopra, e noi gli abbiamo fatto una risata in faccia. Si, c'erano quei ragazzi che oramai erano già fidanzati, però, in compagnia, non si permettevano di appartarsi come poi ho visto fare qua un sacco di volte, o una ragazza che si stringe a me poi bam, si stacca con la mamma che aspetta che finisca di ballare. Capisci? Per cui era tutto un altro rapporto, ci divertivamo come potevamo, alla fine. Però, vedi, le nostre ragazze erano prese per puttane soltanto perché fraternizzavano coi maschi. E' soltanto che eravamo amici."

44) Qui a Novara come siete stati accolti?

R.: "Con molto distacco. Intanto non ti dicono mai niente: pensano e parlano ma non ti dicono mai niente, poi sotto sotto ti tagliano i panni addosso. Questa è proprio una caratteristica [dei novaresi]. Tanto è vero che nei tanti anni che ho passato coi miei colleghi alla De Agostini, noi eravamo un gruppo di cromisti, una dozzina di persone. Tante cene, nei vari trattorie e ristoranti ma mai un novarese - dopo quindici o venti anni - che mi avesse chiamato in casa. In casa sono andato di gente che era venuta come me dal meridione, ma di novaresi no. Il novarese è molto cortese però ti lasciava dove ti trovi."

45) Lei ha provato sulla sua pelle l'essere accostato al grande stereotipo, ovviamente sbagliato, dell'istriano fascista?

R.: "Ah, quello, quello era sottinteso! Non te lo dicevano ma lo pensavano. Anche perché, parliamoci chiaro, io non ho avuto l'avventura di arrivare col piroscafo a Venezia o ad Ancona, o di viaggiare a Bologna col treno, che son stati fatti eclatanti, però era sempre come dire, ah si? Anche perché. Non dimentichiamo quell'idea, che Novara è di sinistra. Io poi ho fatto una grossa amicizia col sindaco socialista, che mi ha dato anche i biglietti per andare a Roma gratis, per esempio. Ma perché i socialisti erano già diversi, più bonaccioni. Ma quello invece che era comunista, come quello che mi ha detto se non c'eri qua tu c'era mio fratello, beh, quello non guardava in faccia nessuno."

46) Mi interessava sapere sempre relativamente all'arrivo a Novara il capitolo del lavoro.

R.:" Qui, a parte il fatto del lavoro precario, c'era chi era già andato che avvisava gli altri: c'era un passaparola per questi lavori qua. Per quanto riguarda invece il lavoro da sistemarsi, c'era una legge che diceva che una parte delle assunzioni deve essere riservata ai profughi. Io non mi è mai piaciuto chiamarmi profugo, ho sempre preferito chiamarmi esule, perché poi è stata anche una scelta politica. Come mi rifiutavo di indossare la divisa balilla, peggio ancora quell'altra! Ma perché non faceva parte della mia etnia. Io per esempio sono entrato [in De Agostini] perché avevo la licenza di un avviamento professionale, e allora avevo le carte in regola, ma è molto facile che abbia...Io non lo so, voglio dire, ho fatto la domanda e mi hanno assunto. Non so se sono rientrato in quella percentuale oppure andava bene quello che avevo come individuo."

47) E il resto dei suoi conterranei dove ha lavorato, nelle fabbriche?

R.: "Si, per lo più si. Qui c'era la Pavesi, c'era le fabbriche della chimica, dell'azoto. Si, insomma, ci si è un po' sparsi un po' dappertutto."

48) C'è stata poi l'ultima parentesi che è quella del Villaggio Dalmazia. Lei come è arrivato qui e com'era il quartiere ai tempi?

R.: "Io non sono... Io sono qua soltanto da otto anni, perché? Perché la prima occasione che ci è capitata con la mia famiglia - quelle dei miei genitori - siamo andati nelle case popolari dell'INA."

49) L'INA Casas...

R.: "Si. Anche in quel caso là, un certo numero, una certa percentuale veniva riservata ai profughi, per cui la mia famiglia si è sistemata là. Erano due zone: una era Bicocca, e uno era Santa Babbio e ancora un'altra era dalle parti del Sacro Cuore. Si, ma voglio dire, sparsi, chi di qua e chi di là. Noi appena possibile abbiamo cercato di venire. Perché, quando siamo andati via noi, c'era ancora il campo profughi, e poi ho fatto la mia vita quando mi son sposato e ho vissuto in parecchi borghi. E soltanto ultimamente perché il mio reddito cominciava a essere scarso nei confronti delle esigenze di chi mi affittava l'appartamento, e allora mi han detto: guarda che tu potresti andare. Ho fatto la domanda e anche qua, siccome le case non sono del comune ma sono del demanio e sfuggono alle caratteristiche delle case popolari, ed essendo uno per il quale sono state costruite, me le hanno date. Ma son già otto anni."

50) Lei ritorna a Pola?

R.: "Tornavo, ma adesso non posso andare perché ho dei problemi di salute, per cui come faccio a muovermi con la debolezza di cuore che ho adesso? Prima andavo, andavo si."

51) Lei ha nostalgia dell'Istria?

R.: "Oh! Più passa il tempo e peggio è! Dopo che avrai letto le mie cose, capirai quanto... Insomma, anche perché è un'identità, la mia, da istriano, anomala a Novara. Gli altri sono accasati, si sono integrati, e io non sono mai riuscito a integrarmi casa lavoro, lavoro casa. Come dire, ho sempre avuto questa spinta alla creatività, se non c'è qualcosa cerco di crearla."

52) Da Pola e dal suo mare arriva qui a Novara, dove di acqua, ben che vada, c'è quella delle risaie. Io penso abbia fatto un po' di effetto...

R.: "Uh, mamma mia, che estati! Che estati tremende! Perché poi qui tra le altre cose, quando c'è l'afa... Quando c'è l'afa ti tagliano le gambe. Io ho sempre detto - adesso non lo posso dire più per ragioni mie personali -, che a Novara è maglio l'inverno che l'estate. Perché d'inverno se fa freddo ti copri, ma d'estate non puoi andar nudo. Poi il mare mi è sempre mancato, anche se io non ero un patito per il mare. Ma poi, abbi pazienza, quelle rocce bianche e quel mare pulito! Ma io non vado neanche sulla riviera Romagnola. Sono andato per qualche anno a Viareggio perché c'è la fiera del libro. [Sono andato] un po' per lavoro e un po' per passione, però anche a Viareggio andavo a metà della diga a fare il bagno. Noi avevamo un paradiso e non sapevamo di averlo. Adesso tutti corrono là, i tedeschi... Poi un'altra cosa: adesso forse han cambiato - e vogliono entrare in Europa - ma vendevano le case agli stranieri e non agli italiani, lo sapevi? Hai capito? Ai tedeschi si, agli italiani no. No, capisci? Vedi che razza... E vogliono entrare in Europa."

53) Secondo me non ci entreranno...

R.: "Magari, magari! Io spero che perdano anche la partita di calcio coi turchi, venerdì. Insomma, son mie speranze!"