Il Quarantotto triestino segnò «una pietra miliare nel processo di politicizzazione della società» ed ebbe «l’effetto di un catalizzatore rispetto alla formazione di correnti politiche, alla nascita di un giornalismo di opposizione, all’organizzazione di prime campagne elettorali e alla mobilitazione dell’opinione pubblica», ambedue gli schieramenti nazionali all'inizio erano composti da un pugno di persone ed erano quindi espressioni minoritarie della società triestina. Il numero dei patrioti italiani superava di gran lunga quello degli sloveni benché questi potessero contare sull’appoggio dei rappresentanti delle altre nazionalità slave presenti in città.
Nel 1848 la maggioranza degli elettori triestini sosteneva la Giunta triestina. Favorevole com’era alla difesa dell’autonomismo triestino, dimostrò poco interesse per il programma nazionale della Società dei triestini, mantenendo un rapporto alquanto ambivalente nei confronti delle rivendicazioni nazionali. La scarsa attrattiva del nazionalismo ai fini di una mobilitazione di massa era evidente anche da parte slovena.
La rappresentanza cittadina, sia nella sua espressione lealista che in quella più liberale e filoitaliana, si richiama infatti ai diritti autonomistici assegnati a Trieste dall’autorità centrale, mentre a Vienna chiedeva il rispetto dei diritti linguistici della popolazione di lingua italiana. In egual misura riconobbe «come italiana l’identità culturale della città» e decise di adottare l’italiano come lingua d’insegnamento nelle scuole pubbliche.
Il prosieguo del processo di nazionalizzazione della società triestina, con il rafforzamento del nucleo politico filo-italiano negli anni Sessanta del XIX secolo, l’acquisizione da parte sua della rappresentanza cittadina negli anni Settanta e la conquista del primato pubblico di italianità, avrebbe dato avvio a una politica di difesa nazionale della città che si tramutò a tutti gli effetti in un ostacolo al riconoscimento dei diritti della popolazione slovena a Trieste, sebbene nel contempo già acquisiti con la costituzione austriaca.
A partire dagli anni Sessanta del XIX secolo il vertice del partito liberal-nazionale italiano avrebbe infatti dimostrato nella prassi politica quotidiana un atteggiamento di forza che di fatto rifletteva la sua impreparazione a comprovare una qualsiasi forma di riconoscimento politico della presenza slovena nel centro cittadino. Per gli opinionisti sloveni, la resistenza contro la politica del primato italiano divenne invece il metro su cui poter misurare la riuscita e la crescita del proprio blocco politico nazionale.
L’ingrediente fondamentale della struttura simbolica sulla quale si appoggiava il processo di sensibilizzazione nazionale, sia nel caso della popolazione di lingua slovena che di quella di lingua italiana, era rappresentato dalla tradizione.
Richiamarsi alla tradizione, secondo una convinzione alquanto diffusa, equivaleva infatti richiamarsi ad una narrazione «autorevole». Per respingere i rimproveri di appartenere a una nazione «senza storia», i patrioti sloveni iniziarono a rispondere ai sostenitori dell’italianità di Trieste, che avevano giurato sulle radici romane e sulle origini italiane di Trieste, con un’ampia messe di esempi storici che avevano lo scopo di dimostrare la secolare ed ininterrotta presenza degli sloveni nel centro cittadino e quindi la loro appartenenza ad una nazione «con storia».
La fedeltà alle tradizioni si configurava come la principale regola di condotta dei patrioti, dal momento che essi si muovevano nella convinzione che il passato fosse più importante del presente.
Nell’immaginare la nazione, i suoi sostenitori trovarono una preziosa fonte di ispirazione nell’idea di un passato comune e pertanto si adoperarono per rafforzare le rappresentazioni della coesione della comunità nazionale, a cui andava il loro sostegno. A fronte della convinzione secondo cui una storia comune vale infatti a rafforzare i legami tra i sostenitori della stessa nazione con il chiaro intento di rinsaldare le fila della nuova «comunità immaginata», la narrazione storica finì per diventare l’asse centrale del processo di sensibilizzazione nazionale.
Avvalorando il mito della discendenza lineare e teleologica e rivendicando un passato comune, anche a Trieste si cominciò a plasmare il nuovo o, meglio, a creare una comunità razionalmente inedita, immaginando di appartenere ad una remota e dimenticata.
Ma veniamo ora a quelli che furono gli esordi del movimento nazionale sloveno a Trieste e nel suo circondario, entro la cui cornice prese forma il mito della Trieste slovena. Il 23 ottobre 1848 veniva fondato a Trieste lo Slavjanski zbor v Trstu (Il consesso slavo di Trieste) che nel novembre di quello stesso anno avrebbe iniziato la sua attività presso il palazzo del Tergesteo, vicino a piazza della Borsa. Ivan Vesel Koseski (Gorenje, 12 Settembre 1798 — Trieste, 26 Marzo 1884) vi assunse la carica di consiliere finanziario. Quattro mesi dopo, ormai ribattezzato come Slavjansko društvo (Associazione slava), esso contava ben 336 soci ordinari e 140 soci corrispondenti, per la maggior parte rappresentanti del nascente ceto medio sloveno oppure del clero, come l’allora vescovo di Trieste Jernej Legat (Naklo, 16 Agosto 1807 — Trieste, 12 Febbraio 1875), che coltivavano più un sentimento panslavista e in pochi appoggiarono tutti i punti del programma della Slovenia unita.
Entusiasmare alla slavità una base quanto più ampia possibile della popolazione slovena, compresi quanti avevano «tradito» le proprie origini adeguandosi alla lingua e alla cultura della maggioranza italiana, era il principale obiettivo di coloro che si incaricarono di risvegliare dal suo torpore l’attività culturale degli sloveni e degli slavi in genere nel centro cittadino.
La maggior parte della popolazione emigrata dalle regioni interne del Litorale, cioè dalla Carniola, dalla Stiria e dalla Carinzia, nel corso del XIX secolo, già nella prima, ma in modo definitivo nella seconda generazione, aveva infatti subito il processo di assimilazione alla maggioranza italiana, di fatto predominante in città. I passaggi nelle file tedesche furono invece meno frequenti e per lo più caratteristici dell’alta burocrazia e dell’imprenditoria.
Assai accentuata rimaneva però l’appartenenza regionale: il sentirsi carniolini, carinziani o stiriani, piuttosto che tedeschi o sloveni a Trieste era frequente ancora negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto tra i commercianti e gli impiegati statali immigrati in città.
Nella prospettiva dei patrioti sloveni che vivevano a Trieste, con la chiara percezione di essere a tutti gli effetti membri di quella comunità nazionale che iniziava a delinearsi in contemporanea con la mobilitazione a favore del programma politico della Slovenia unita, formulato da Matija Majar (Goriče, 7 Febbraio 1809 — Praga, 31 Luglio 1892), e da altri intellettuali sloveni residenti a Vienna, la diffusione della consapevolezza nazionale si configurava come l’unico mezzo efficace in grado di contrastare l’assimilazione nazionale degli emigrati e delle emigrate (in massa) slovene da parte della maggioranza italiana. Per instillare nei suoi membri un sentimento comune e contemporaneamente legarli alla convinzione che una nazione si fonda sulla lingua, lo Slavjansko društvo iniziò a pubblicare tra il marzo e l’agosto del 1849 lo Slavjanski rodoljub (il patriota slavo).
Tra gli articoli che avevano lo scopo di chiarire il concetto di lealtà alla nazione slovena, il foglio pubblicò anche una richiesta affinché agli sloveni di Trieste fosse riconosciuta l’uguaglianza dei diritti nazionali, venissero istituite in città scuole elementari con lingua d’insegnamento slovena e la lingua slovena fosse introdotta nell’amministrazione e, in genere, nei luoghi pubblici.
Dal momento che la rappresentanza politica del comune triestino rifiutò il riconoscimento nazionale degli sloveni di Trieste, adducendo quale motivazione il fatto che la popolazione cittadina apparteneva alla nazionalità italiana, i patrioti sloveni si apprestarono a giustificare l’affermazione politico-nazionale slovena dimostrando l’autoctonia degli sloveni non solo nel circondario, dove l’autorità cittadina italiana riconosceva loro il diritto allo studio nella loro lingua, ma pure in città dove la classe politica dirigente, anche grazie all’aiuto di studiosi di storia patria professionisti e non, aveva negato alla popolazione slovena la parità dei diritti nazionali.
Le argomentazioni a sostegno dell’autoctonia trovarono presto spazio nella stampa slovena di Trieste, prima sulle pagine dello «Slavjanski rodoljub», poi sull’«Ilirski primorjan» e più tardi sull’edizione triestina dell’«Edinost», seguendo per lo più degli schemi argomentativi standardizzati: gli antenati degli Sloveni si erano trasferiti nella fascia costiera triestina già durante la preistoria;
«gli Slavi tra i quali andiamo inclusi anche noi sloveni, o gli illiri, - nostri antenati vivevano nel Triestino molto prima che Trieste diventasse una colonia romana e cambiasse nome in Tergeste. Già molti anni prima della nascita di Cristo, gli slavi (illiri) abitavano le regioni lungo il mare Adriatico, che stanno qui davanti ai nostri occhi. Là possedevano regolarmente un loro regno [...] ovvero fintanto che non fu conquistato dai Romani con le armi e contro i quali gli slavi combatterono per molti anni impavidamente («con coraggio») ed eroicamente per difendere il loro autogoverno ed evitare l'assoggettamento».
Se facciamo nostra l’affermazione secondo cui il nazionalismo è un’azione di fede, che non ha bisogno di prove dall’esterno, può apparire anche comprensibile perché i patrioti sloveni, seguendo il modello argomentativo fra l’altro adottato anche dagli opinionisti italiani, si richiamassero ad un autoctonismo aprioristico. Coloro che si opponevano al riconoscimento di una presenza slovena a Trieste, difendendo i diritti della maggioranza italiana, si dichiaravano in effetti i discendenti della civilizzazione romana nel nord Adriatico, diventata con la sua cultura un baluardo invincibile contro la barbarie del mondo slavo.
In tutta risposta, i patrioti sloveni fecero valere il loro diritto di autoctonia:
«È una verità incontestabile che i suoi primi inquilini furono sloveni, poiché sarebbe stato impossibile che qualcun altro gli avesse dato un nome sloveno, quale fu assunto da tutti gli altri popoli. È ridicolo che alcuni facciano derivare questo nome dal latino “tergestum”».
La questione della lingua «nazionale» iniziò ad intrecciarsi sin dagli anni Cinquanta in modo indissolubile con il passato «nazionale», facendo sì che con il progressivo acuirsi del confrontobnazionale si accentuasse l’imperativo, anch'esso nazionale, di escludere gli altri.
Se inizialmente, dimostrando la presenza slava nel Triestino prima dell’arrivo dei romani, l’obiettivo principale era quello di attribuire il diritto di autoctonia agli sloveni triestini, per far sì che gli italiani fossero di conseguenza collocati nella posizione di forestieri, alla fine i patrioti sloveni puntarono a cambiare radicalmente le condizioni politiche della città adriatica. Il mito delle origini slovene di Trieste offrì loro la possibilità di rovesciare la situazione a cui li costringeva lo schieramento politico filoitaliano e di estirpare l’universo simbolico dei nemici:
«Se allora è dimostrato che gli slavi vivevano qui prima dei romani; se è vero che il luogo di un tempo, dove ora sorge Trieste, era come lo è ancora oggi particolarmente adatto per il commercio o tržtvo (da mercato, trg o terg). E che il commercio si è lì sviluppato già dai tempi antichi, e che lì quindi da allora anche si commerciava; e se di conseguenza è vero che gli slavi, che allora abitavano lungo il mare Adriatico («gli Illiri del Litorale») chiamavano il luogo, poiché abitualmente si commerciava [in sloveno, se trguje, N.d.A], Tržište (Teržište) (Mercato) e sicuramente anche Tergište - non c’è dubbio che i romani trovarono proprio questo nome nel momento in cui conquistarono questo luogo agli slavi, trasformandolo poi nel latino Tergeste.
Esso con il tempo si è guastato e trasformato in Trieste, Triest, Terst (Trst), Trieštje etc. (l’Inglese chiama questa città persino Trajst!). Il nome di Trieste è quindi, come abbiamo detto, davvero di origine slava, nemmeno i Tedeschi lo negano, si legga ad esempio il racconto di Lowenthal sulla nostra Trieste».
Se è indubbio che l’assunzione della teoria autoctonista da parte dei patrioti sloveni fu resa possibile innanzitutto dalla sua precedente affermazione nelle cerchie intellettuali slovene di Klagenfurt, Vienna e Lubiana.
La raffigurazione epica della realtà primitiva che veniva offerta dal mito della Trieste slovena adempiva infatti a legittimare un nuovo ordine nazionale, così che appellandosi alle tradizioni storiche e alle idee del diritto naturale i promotori del movimento nazionale sloveno divennero a tutti gli effetti dispensatori di legittimità.
Gli scrittori nazionalmente impegnati erano convinti che la conoscenza di ciò che veniva dipinto come un passato glorioso fosse in grado di risvegliare i singoli individui dall'ormai tiepido torpore nazionale. Come convenzionalmente avviene con le teorie autoctoniste, anche il passato triestino in chiave slovena veniva presentato come un processo lineare, ininterrotto e geneticamente determinato.
Grazie alla scoperta delle origini slovene della città, i patrioti sloveni immaginavano che una continuazione con «la gloriosa storia di un tempo» fosse possibile e nel contempo realizzabile. In quest’ottica, tentarono di riportare a nuova vita quello spirito di missione della
nazione che già nel passato si era distinta per la sua tenacia, ad esempio quando si era coraggiosamente opposta ai turchi e ai veneziani. Credettero inoltre altrettanto opportuno rivolgersi a chi aveva tradito le sue radici respingendo questo passato glorioso, cercando di dimostrargli che il popolo calpestato ed oppresso si era risollevato a nuova vita.
Sulle pagine dei fogli triestini in lingua slovena i patrioti sloveni iniziarono così a riproporre l'immagine del mitico re Matjaž, risvegliatosi dal sonno secolare per annunciare un nuovo periodo d’oro in cui gli sloveni sarebbero stati in grado di difendersi dagli italiani come i loro antenati avevano fatto con i turchi. A Trieste pertanto la slovenità non fu «immaginata» sul nuovo, bensì sulla falsa riga della rinascita di un passato che già esisteva e del suo riconoscimento; essa aveva bisogno solo «di un giardiniere, di un po’ di rugiada, a sarebbe riverdita perfettamente».
La convinzione legata all’esistenza di un periodo d’oro a Trieste risvegliò tra i patrioti sloveni l’interesse per il passato e per la tradizione orale. Il giurista Josip Godina-Vrdelski (Guardiella, frazione di Trieste, 20 Marzo 1808 — Guardiella, frazione di Trieste, 29 Gennaio 1884), all’epoca alto commissario finanziario in pensione, fu tra i primi ad intraprendere delle ricerche di storia patria, indirizzato – dato non certo privo di significato – dal deputato regionale e statale Ivan Nabergoj (Prosecco, 28 Maggio 1835 — Prosecco, 10 Settembre 1902), personaggio che per trentaquattro anni aveva cercato di convincere l’avversa maggioranza italiana nel consiglio cittadino di Trieste della fondatezza storica dei diritti nazionali e linguistici sloveni.
Nel suo Opis in zgodovina Trsta in njegove okolice (Descrizione storica di Trieste e del suo circondario), Josip Godina-Vrdelski si accinse ad esaminare l’intero periodo della presenza slovena in città e nei suoi dintorni. Egli si era avvicinato alla storia di Trieste come patriota appassionato, mosso innanzitutto dalla convinzione che gli sloveni di Trieste «dovessero fare» la propria storia, svelando ciò che era stato taciuto dagli storici tedeschi ed italiani:
«Quanto dobbiamo noi sloveni o in genere slavi rammaricarci del fatto che nessuno dei nostri connazionali finora ha mai scritto e poi divulgato tra di noi più ampiamente questa storia in lingua slava? E’ però certo, e si può anche dimostrare, e quanto sarà bello farlo, che qui ha abitato prima di tutto la gente appartenente alla nostra grande razza, che chiacchierino pure a causa di ciò i nostri ben noti oppositori o anche gli altri».
Nell’introduzione al suo Opis, Godina si doleva del fatto che nessuno prima di lui si era opposto «alle farneticazioni e al falso chiacchiericcio, alle dicerie e alle favole» dei cronisti triestini, con particolare riferimento al carmelitano Ireneo della Croce e a Pietro Kandler.
Quest’ultimo, contemporaneo di Godina e di professione procuratore comunale, aveva infatti diffuso delle rappresentazioni sui veteroslavi e slavi del sud dipingendoli come nefasti, ladri, rozzi e primitivi. Quale appassionato sostenitore di una concezione storica autoctonista, ripresa da Davorin Terstenjak (Kraljevci, 8 Novembre 1817 — Stari trg, 2 Febbraio 1890) e Matevž Ravnikar-Poženčan (Poženik, 1 Agosto 1802 — Predoslje, 14 Febbraio 1864) anche Godina si apprestò a fondare l’origine slovena di Trieste in chiave aprioristica. Secondo lui essa era incontestabilmente testimoniata sia dai toponimi slavi presenti nei dintorni di Trieste che dai «nomi delle vie nel centro cittadino alterati in modo slavo» :
«Che inizialmente a Trieste avessero abitato soltanto degli slavi e che da allora fino ad oggi fossero rimasti sul territorio slavo (proprio come ora), siamo assolutamente certi e una simile convinzione si fonda anche su sufficienti e a nostro avviso incontestabili prove – prove, diciamo, che i nostri noti oppositori non possono contestare con nessuna spiegazione».
Attraverso l’etimologizzazione, la comparazione delle parole con la loro immagine straniera e la spiegazione del tutto arbitraria dei toponimi, anche lo stesso Godina contribuì alla fine a fornire una spiegazione del tutto discutibile della storia triestina. Egli infatti non rifletté ma piuttosto concepì la scrittura della storia triestina come una giusta distribuzione di colpi che tenevano conto del numero degli slavi e del momento del loro insediamento sul confine occidentale.
Dopo Godina si sarebbe confrontato con la storia di Trieste anche lo scolastico Matija Sila (Poverio, 14 Febbraio 1840 — Tomadio, 7 Aprile 1925), all’epoca canonico nella Cattedrale di San Giusto, direttore della scuola normale imperial regia, nonché direttore diocesano delle scuole popolari e membro dell’Associazione storica carniolina.
Nella premessa al suo lavoro Trst in okolica (Trieste e il circondario), dato alle stampe dalla casa editrice Edinost nel 1882, egli focalizzò l’attenzione innanzitutto sulla tendenziosità degli storici triestini che, pur avendo giurato fedeltà alla disciplina, erano soliti interpretare il passato seguendo un gusto personale, contribuendo così a diffondere numerosi errori sul passato di Trieste. Ad accomunarli, il disconoscimento degli slavi quale soggetto uguale agli altri e la reticenza circa la storia slovena. A fronte di queste considerazioni, Matija Sila si augurava che con il tempo questa «muraglia cinese» di pregiudizi potesse cadere e che una corretta comprensione della storiografia potesse finalmente prevalere su quell’innaturale avversione verso gli slavi.
Al contrario di Godina, Sila era convinto che a Trieste e nei suoi dintorni, così come altrove in Europa, fosse impossibile risalire esattamente a quale «popolo si insediò qui per primo. [...] Questo è un periodo sordo che non risponde agli interrogativi». Tuttavia, ciò non lo dissuase dal far propria la teoria autoctonista e dal collocare sull’asse temporale il trasferimento degli slavi nel Triestino prima del VI secolo:
«Poiché gli sloveni, o meglio gli slavi, abitavano già da tempo immemorabile prima della nascita di Cristo nella regione settentrionale del mar Adriatico».
Mentre il canonico triestino metteva in guardia i suoi contemporanei circa l’uso prudente della tradizione orale, egli stesso non rinunciava all’etimologizzazione dilettantesca riportando il nome di Trieste ad una radice slava:
«Ci soffermiamo troppo su questi nomi, per quanto qualcuno possa obiettare, ma il nostro compito è quello di dimostrare ai nostri oppositori con prove incontestabili quanto si sbagliano, quando fanno di tutto per farci sloggiare dalle nostre antiche dimore, oppure vogliono per forza mettersi in testa che tra tutti i popoli europei noi siamo arrivati per ultimi».
Secondo Sila, gli sloveni sarebbero rimasti fuori della storia a causa del loro carattere pacifico, ereditato dagli antenati, pastori ed agricoltori slavi che avevano preferito lasciare la storia delle grandi battaglie e delle stragi sanguinarie ai loro vicini. A dimostrazione della docilità slava, Matija Sila indicava il fatto che i nuovi arrivati avevano infatti snazionalizzato i nomi dei luoghi slavi.
La storia patria slovena produttrice di miti ricevette una scossa dallo storico e geografo Janez Jesenko (Poljane, 7 Ottobre 1838 — Trieste , 31 Luglio 1908) professore presso il ginnasio triestino tra il 1867 e il 1899. Nella sua Občna zgodovina (Storia generale) del 1896 egli respinse la teoria autoctonista, collocando il trasferimento degli slavi alpini nel VI secolo. Tuttavia, anche dopo la pubblicazione di Jesenko il bisogno di dimostrare la slovenità di Trieste non venne certo meno, aspetto che è ad esempio attestato dalla descrizione storica di Trieste fatta da Simon Rutar (Nero o Cren/Krn villaggio vicino Caporetto, 12 Ottobre 1851 — Lubiana, 3 Maggio 1903); sarebbero tuttavia cambiati i termini dell’argomentazione.
In un contributo dal titolo Samosvoje mesto Trst in mejna grofija Istra (La città autonoma di Trieste e la contea di confine istriana), pubblicato dalla Slovenska Matica a Lubiana nel 1896, Rutar abbandonò l’interpretazione veneta e la teoria grande-illirica proclamandola «una spiegazione prefantastica». Esponente della prima generazione di storici che si erano formati a Vienna e a Graz sotto l’influsso della scuola storica austriaca, Rutar era ben consapevole di quale fosse il significato delle fonti d’archivio, diventando un sostenitore della ricerca «obiettiva» ed integrale del passato sloveno, anche se il voto al metodo storico non lo distolse dal manifestare un sentimento di fedeltà al movimento nazionale sloveno e dal riconoscere il perno della storia slovena nel programma della Zedinjena Slovenija (La Slovenia unita).
Aprendosi ai fatti storici, Simon Rutar dimostrò che la slavità sull’Adriatico non doveva considerarsi un residuo delle glorie passate bensì il risultato di una lotta lenta e di lungo periodo tra la slavità e la romanità. Poiché gli antichi sloveni che si erano trasferiti sulla costa adriatica nel VI secolo avevano dovuto strappare dalle mani della popolazione romana e germanica ogni palmo di terra, Rutar sosteneva che «a diritto quindi i nostri possono ritenersi autoctoni sulla costa orientale del Mare Adriatico, natii, seppure non erano gli antichi illiri, nemmeno in terzo o in quattro grado».
Rutar considerava sia la città di Trieste che l’Istria terre slovene benché, come egli stesso scrisse, la maggioranza della popolazione di questo territorio non fosse di nazionalità slovena. La presenza della popolazione italiana non fu però indicata come un ostacolo ineliminabile in seguito alla quale la città non poteva appartenere all’entroterra.
Anzi, la città apparteneva all’entroterra per ragioni dettate dalla storia e non perché tale circostanza era radicata nel passato. La spiegazione della storia triestina fatta da Rutar veniva così spostata «da un falso passato glorioso» a quelli che erano dei «fatti obiettivi», particolarmente incoraggianti per i contemporanei. Se si erano perse le tracce dei romani che avevano oltrepassato le Alpi, lo stesso sarebbe accaduto con i resti della civilizzazione veneziana sulla costa orientale dell’Adriatico:
«In quest’alba della storia, la slavità lungo l’Adriatico non suscita più in noi sensazioni malinconiche ed amare, come a Jenko, poiché non si tratta tanto dei resti della gloria e forza slava di un tempo, ma della romanità a cui spetta quel ruolo di residuo, immaginato dal pessimista Jenko come nostro».
Nel centro cittadino era attiva una rete di associazioni culturali ed economiche, di scuole e asili privati sloveni. Il processo di modernizzazione della società slovena e più in generale di Trieste rendeva la presenza nazionale slovena più spiccatamente politica. Il secondo censimento statale del 1910 registrava 56.916 sloveni, la maggior parte scesi dalla Carniola, Stiria e Carinzia, nelle elezioni all’assemblea nazionale del 1911 l’associazione politica Edinost a Trieste ottenne 10.653 voti.
In realtà anche l’ascesa sociale, economica e culturale della comunità slovena non volse l’ago della bilancia politica a suo favore. La maggioranza della popolazione triestina rimase di nazionalità italiana, mentre la rappresentanza cittadina fino allo scoppio della Prima guerra mondiale fu conservata dal partito italiano liberal-nazionale, tutt’altro che ben disposto verso la componente slovena. Benché le circostanze generali a Trieste fossero cambiate nell’interesse della popolazione slovena, tuttavia non lo furono mai abbastanza da far sì che, con l’attività concreta dei politici sloveni e dei fautori della crescita economica, le rappresentazioni generatrici di miti fossero abbandonate.
Se consideriamo la funzione pragmatica del mito e analizziamo il mito della Trieste slovena, notiamo che nel passaggio tra il XIX e il XX secolo esso era strutturato come un metalinguaggio e che operava con il suo contenuto manifesto e latente, sia su un piano diacronico che sincronico.
L’addensarsi di contenuti in grado di generare miti raggiunse l’apice nella metafora di Trieste - città polmone della nazione slovena. Coniata dallo scrittore Ivan Tavčar (Poljane, (28 Agosto 1851 – Visoko, 19 Febbraio 1923), essa valse indubbiamente ad accreditare l’appartenenza slovena della città adriatica. La metafora di Tavčar fu rafforzata nella sua carica emotiva da Ivan Cankar (Nauporto/Vrhnika, 10 Maggio 1876 – Lubiana, 11 Dicembre 1918), nel corso di una lezione triestina tenuta al Ljudski oder, circolo della socialdemocrazia slovena a Trieste, dal significativo titolo Očiščenje in pomlajenje (Purificazione e ringiovanimento). In essa lo scrittore si soffermò sul destino della città di confine e soprattutto sulla mutilazione che il «corpo nazionale sloveno» avrebbe subito nel caso dell’annessione di Trieste all’Italia. Cankar era convinto che senza Trieste non sarebbe potuta nascere nemmeno una Jugoslavia indipendente e democratica:
«Chi arriva qui da Lubiana si sente a casa, sente di stare su terre familiari, di parlare con persone simili che lo comprendono e condividono le sue stesse idee».
Le constatazioni fatte da Tavčar e dallo stesso Cankar rientravano in quella tradizione di appelli che a partire dal 1848 i patrioti sloveni avevano più volte rivolto al loro pubblico richiamando l’attenzione sulla conquista di Trieste ovvero sul significato tragico legato alla sua perdita:
«Il destino del popolo sloveno dipende dal mare Adriatico! Per gli sloveni la chiave d'accesso al mare Adriatico è Trieste! Pertanto se gli sloveni hanno in loro possesso questa città, se gli imprimono sulla fronte un carattere sloveno, in futuro potranno esercitare un dominio, altrimenti spariranno dal mondo!»
Ma vi erano anche altre argomentazioni a cui si rifaceva la vulgata slovena. La rappresentazione mitopoietica del carattere docile degli sloveni, dediti come i loro antenati slavi a praticare nei dintorni di Trieste l’agricoltura e l’allevamento, si accompagnava spesso alla constatazione della loro devozione e moralità. La religiosità degli sloveni e delle slovene di Trieste testimoniava in modo irrefutabile la loro superiorità morale in confronto alla popolazione di lingua italiana. Gli sloveni non solo sarebbero stati più devoti degli italiani ma anche «meno depravati».
La dimostrazione dell’integrità e della primordialità della stirpe slovena rappresentò per i patrioti sloveni uno stimolo aggiuntivo affinché la slovenità potesse alla fine uscire vittoriosa sulla costa adriatica. L'idea acclamata dai patrioti sloveni che Trieste era forse soltanto slovena dal momento che gli italiani si erano trasferiti su quello che in realtà era un territorio sloveno, fino alla Prima guerra mondiale conquistò una base sempre più ampia della popolazione slovena, soprattutto quella che trovò nell’associazione politica Edinost il suo rappresentante politico.
Quale fosse la portata dell’invenzione patriottarda della Trieste slovena, quando ad esempio si unì con la tradizione orale del luogo, è ben dimostrato dal contributo Spomini mojega deda (Ricordi di mio nonno), scritto tra le due guerre dall’impiegato postale Just Gruden (1871-1956) originario di Santa Croce, frazione in provincia di Trieste, ma residente a Trieste fino al suo pensionamento. Anche se abbonato all’«Edinost», ad un altro giornale sloveno e fruitore della pubblicistica del tempo, egli non utilizzò le argomentazioni di storia patria in circolazione alla fine del XIX secolo, ritenendo più convincente la spiegazione di Johann Weichard Valvasor (1641-1693), autore della Die Ehre dess Hertzogthums Crain, secondo la quale il toponimo Trst sarebbe derivato dalla parola «Terst» ovvero «terst» (canna). Con ogni probabilità le pratiche argomentative dei primi cultori di storia patria e dei patrioti sloveni all’impiegato postale Gruden risultarono troppo impegnative e per questo motivo si accontentò piuttosto di una spiegazione più familiare e verosimile:
«Ora ti racconterò della città di Trieste, soltanto il nome Trst o Trs – che è l’alto canneto che puoi vedere vicino al mare (ancora oggi presso S. Andrea). Nel corso del XV e XVI secolo tutta la periferia era immersa nella boscaglia tranne le acque che scorrevano tra i monti». Il nome Trieste è quindi di nazionalità slovena. I romani o i veneziani l’hanno battezzata Tergeste – Trieste- mio nonno diceva: il golfo di Trieste era coperto di querceti – le strade che portavano in città – quella da Monfalcone in su era a senso unico, ripida e rocciosa. I carrettieri portavano con difficoltà i viveri e la merce in città […]. I mercanti arrivavano dall’Italia e si sistemavano in città, arrivavano con i velieri – li chiamavano nostra mare- perché dallo stato romano arrivavano uomini acculturati che insegnavano a scrivere e a leggere – erano monaci che insegnavano ai pagani del luogo la santa fede, convertivano molti ricchi – principi e conti. I mercanti furono costretti a venire fin qui perché nel loro paese non erano sicuri dei loro averi – per la continua guerra che non assicurava viveri sufficienti per i suoi cittadini, costretti –o no- si trasferirono nella città di Trieste, arrivando come possibili padroni –pieni di zecchini d’oro. Qui furono accolti dai pescatori ignoranti con tanto di onori, e portarono loro nuovi strumenti per lavorare la terra- per tagliare gli alberi e trasportarli oltre mare. Sono arrivati giovani operai, muratori, falegnami e altri- erano fuggiti per cercare salvezza, hanno trovato pace – comprarono delle casupole dove abitare –i pescatori li avevano allontanati – fuori città. […] I pagani slavi hanno tacitamente ubbidito non hanno risposto e si sono piegati permettendo loro tutto ciò che pretendevano. L’Italiano li ha lodati perché ha visto che sono come le pecorelle, buona gente, «ščjavi». Questo epiteto si è conservato fino ad oggi, per farci vergognare, come quella volta quando il popolo ignorante aveva paura.
Questo mito è andato man mano accrescendo durante la seconda guerra mondiale, con l'istituzione dell'Osvobodilna Fronta e l'appoggio di cui godette l'Esercito di liberazione nazionale (NOV) tra la popolazione slovena filojugoslava, dando una speranza di una svolta. L'arrivo dell'esercito jugoslavo a Trieste il 1° maggio 1945 fece credere che il mito della Trieste slovena sarebbe diventato realtà. La presenza jugoslava a Trieste, durata 40 giorni, ha reso più forte l'affermazione che Trieste, città dall'anima italianissima, era stata invasa e insanguinata dalle orde slave.
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