sabato 24 febbraio 2024

Marina Smaila testimone: «Italiana per nascita e scelta»

«Ero coccolata e anche un po’ viziata. Sono entrata nel campo profughi e ho smesso di essere bambina, non sono più stata capace di giocare». 

Marina Smaila aveva otto anni quando, il 10 febbraio 1947, con i trattati di pace di Parigi vennero ridisegnati i confini orientali dell’Italia e anche la città di Fiume, assieme all’Istria e alla Dalmazia, passò alla Jugoslavia. Agli italiani che vivevano lì da sempre venne detto di scegliere: se rimanere italiani pagando il prezzo di lasciare tutto (soldi in banca compresi) per emigrare all’interno dei nuovi confini della Patria, oppure restare dove erano nati rinunciando alla cittadinanza italiana e sottomettendosi al regime comunista di Tito. 

Marina Smaila ha raccontato la sua storia di esule fiumana a Castelnuovo del Garda nel corso della serata organizzata dal Comune in collaborazione con l’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, per commemorare il Giorno del ricordo, che dal 2004 viene celebrato il 10 febbraio di ogni anno. A chi, al termine dell’incontro, la ringraziava della sua testimonianza, Marina Smaila rispondeva ringraziando a sua volta per averla ascoltata.

Perché per lei, come per tutte le vittime scampate a persecuzioni e massacri di ogni matrice, poter testimoniare è un privilegio. Lo è ancor più per gli esuli istriani fiumani e dalmati, costretti per decenni a non raccontare ciò che avevano vissuto o visto subire ad altri conterranei uccisi e gettati nelle foibe. 

«Per anni di noi non si è potuto parlare, eravamo l’emblema che l’Italia aveva perso la guerra». E il suo debito di guerra con la Jugoslavia l’Italia «lo pagò con i nostri beni che avevamo lasciato a casa», ha ricordato la testimone descrivendo l’odissea della sua famiglia (oltre a lei, i genitori con la madre incinta e altri tre figli). L’arrivo a Trieste, poi a Udine nel centro smistamento profughi, poi l’approdo nel campo profughi di Mantova in cui la famiglia Smaila rimase per due anni prima di essere trasferita nel campo di Verona allestito nel chiostro San Francesco dove oggi c’è il Polo Zanotto, sede dell’università. Al trauma di vivere in condizioni di estrema povertà, si aggiunse i primi anni quello dell’emarginazione: «Qui ci chiamavano slavi, mentre a Fiume dopo il ’45 eravamo “sporchi italiani”, considerati tutti fascisti». Alle compagne di scuola che alle medie, a Mantova, la prendevano in giro per la sua origine, il padre le disse di rispondere che lei era italiana due volte: «Per nascita e per scelta, perché noi per rimanere italiani abbiamo perso tutto».

K.F. L’Arena (23.02.2019)

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