venerdì 24 novembre 2023

Tomaso Luciani e il movimento patriottico istriano dal 1848 al 1866 (Camillo De Franceschi)

Ricordo sempre con dolce commozione una mia visita a Tomaso Luciani in Venezia, in quella sua modesta abitazione sulle Fondamenta del Vin, presso il Ponte di Rialto, ch'era la meta del reverente pellegrinaggio di quanti istriani amanti della patria e degli studi diretti ad illustrarla, si recavano a diporto o per affari nell'antica loro Dominante. E tutti sapevano di trovare in lui l'uomo dottissimo di bontà infinita, uso a prestarsi con volonteroso disinteressato affetto, consigliere guida coadiutore, a chiunque gli si rivolgeva col nome dell'Istria sulle labbra e col sospiro d'Italia nel cuore.

Era un ardente pomeriggio di luglio del 1889, e la vita della città fantastica languiva in una pace sonnolenta, quando salii timidamente l'erta scaletta di quella casa, che a me giovinetto appassionato ed entusiastico appariva quasi un santuario dell'Ideale irredentista, per portare il saluto di mio padre al vecchio amico ch'egli non rivedeva più da oltre un decennio. M' accolse e annunciò a lui la sua gentile figliuola, che trovai intenta alla lettura nel salottino di studio dalle pareti foderate di libri disposti in bell'ordine, tra cui spiccavano le edizioni cinquecentesche dei grandi scrittori istriani: i due Vergeri, Girolamo Muzio e Matteo Flacio, gloria albonese; e al mio nome da lei pronunciato intesi, nella stanza vicina, scattare un grido di compiacente meraviglia, a cui seguì tosto il rumore di passi affrettati che si avvicinavano. Ed ecco comparirmi dinanzi un vecchio dignitoso tutto vestito di nero, di alta statura, un po' curvo, con una bella testa dai lineamenti vigorosi e alquanto rudi, però addolciti da due occhietti vivaci e penetranti oltre le ampie lenti cerchiate d'oro, e da una bocca atteggiata al sorriso entro la bianca incorniciatura dei mustacchi spioventi che si univano e conformavano ad un largo e folto pizzo. Mi stese ambo le mani guardandomi negli occhi, e allorché io, vincendo l'interno turbamento, gli feci il nome del mio genitore, mi gettò le braccia al collo con tenerezza paterna, dicendo di voler riabbracciare in me il suo vecchio e caro amico, anzi fratello. Poi m'introdusse, a sinistra, nel salotto di ricevimento, ove attendevano Giuseppe Caprin la sua signora venuti a offrire in omaggio al venerato patriotta una copia delle Marine Istriane appena uscite.

Il Luciani mi chiese, come sempre soleva ai suoi visitatori comprovinciali, notizie dell'Istria, in particolare dell'aspra lotta elettorale per la rinnovazione della Dieta, che gl'istriani stavano allora sostenendo contro gli slavi appoggiati dal Gabinetto Taaffe, che permetteva illegalità e violenze pur di far trionfare singole candidature di preti croati e d'impiegati governativi. E s'interessava della dolorosa crisi in seno al partito italiano, di cui una frazione, capeggiata da un astensionista della prima Dieta aspirante al Capitanato provinciale, faceva troppo spesso sacrificio della dignità nazionale ad un vergognoso quanto inutile opportunismo; e pur nel suo linguaggio temperato aveva amare parole di biasimo contro i lenocini politici e i contaminatori del buon nome istriano. Transigere è tradire aveva sentenziato ancora nel 1861. Invece soggiunse illuminandosi in volto e stringendosi le mani con un suo moto abituale invece a Trieste si riscontra da qualche tempo un rallegrante risveglio patriottico. E alludeva alle dimostrazioni di protesta del Circolo Garibaldi per lo scoprimento del monumento commemorativo della dedizione di Trieste all'Austria e in occasione del varo dell'incrociatore Francesco Giuseppe I, alla presenza d'una rappresentanza parlamentare austriaca; come alludeva pure all'infierirvi delle persecuzioni poliziesche, culminate un mese prima nell' arresto di tutta la redazione e amministrazione dell' Indipendente.

lo cercai di tirarlo in discorso sulla sua passata attività politica per il riscatto dell'Istria - onore massimo della sua nobile esistenza spiegata da prima occultamente in patria dal 1848 al 1860, poi apertamente nel libero Regno dal 1861 al 1866; ma egli, nella sua grande modestia, rifuggiva dal parlare di sè e dell'opera propria altrimenti che come d'un dovere fedelmente compiuto. Questa naturale riluttanza a far pompa dei propri meriti valse a magnificare maggiormente ai miei occhi l'austera figura del patriotta, giacchè io ben sapevo dalla bocca di mio padre ciò ch'egli aveva dato alla patria per puro Sviscerato amore di lei: non soltanto il fervido apostolato politico e la fruttuosa solerzia di ricercatore storico e archeologico, ma la tranquilla prosperità della sua vita domestica col sacrifizio d'un ricco patrimonio, tanto da vedersi costretto nei più tardi anni e sino alla morte a logorare la sua stanca vecchiezza in un umile lavoro d'amanuense nello Archivio dei Frari per un guadagno di cento lire al mese, necessario complemento al sostentamento della sua famiglia.

La cittadina d'Albona, posta all'estremo limite dell'Istria, verso la costa liburnica, dove fiorì la giovinezza e maturò la virilità di Tomaso Luciani, non offriva elementi di vita intellettuale e politica atti a sviluppare da soli una forte coscienza nazionale. Vi durava, però assai vivo il tradizionale attaccamento a Venezia, consacrato nella storia dalla strenua difesa degli albonesi contro gli uscocchi, nel 1599, alla quale aveva partecipato don Priamo Luciani, della famiglia di Tomaso; mentre nella vicina Fianona, caduta preda di quei barbari, Gaspare Calavanich, miracolo di fortezza eroica, si lasciava scuoiare vivo anzichè tradire la sua fedeltà a S. Marco.

L'amore alle discipline storiche, infusogli dal suo precettore privato Lorenzini, che gli fece conoscere e ammirare, con orgoglio di figlio, le glorie di Roma e di Venezia; poscia le relazioni di amicizia coi giovani istriani più colti e ardenti di patriottismo, valsero ad aprire l'animo del Luciani alle nuove idee di libertà e d'indipendenza e all'odio santo contro lo straniero oppressore della sua terra.

Pochi ricordi ci restano dell'opera patriottica da lui svolta durante i grandi rivolgimenti politici del 1848-49, che colsero I'Istria bensì fremente di spirito italico, ma impreparata e irresoluta a un moto insurrezionale, per la mancata iniziativa di Trieste, che, dopo un vano tentativo di pochi audaci, si piegò su sè stessa e cadde in balia del partito austriaco. Giacché gli istriani, benchè figli devoti e alteri di Venezia, ma da cinquanta anni staccati da lei, tenevano gli occhi rivolti a Trieste, come al loro centro morale ed economico, stimando a ragione che senza l'appoggio di Trieste ogni loro conato di rivolta doveva fallire miseramente.

Tuttavia al primo annuncio della rivoluzione di Venezia, un vivo fermento si manifestò in tutte le città dell'Istria, non esclusa Albona, dov'era da un anno podestà Tomaso Luciani. Il quale, dopo avervi organizzato una dimostrazione popolare di solidarietà nazionale, con la diffusione d'innumerevoli coccarde tricolori e con acclamazioni a S. Marco, all'Italia, a Pio IX, dovette portarsi in deputazione a Pisino per placare l'ira del capitano circolare barone Grimschitz, che minacciava una spedizione punitiva d'orde croate raccogliticce contro la città ribelle.

Il generale d'artiglieria conte Nugent, superstite orgoglioso delle guerre napoleoniche, era accorso in Istria per prepararvi la difesa militare; e impressionato dall'agitazione popolare, che specialmente a Pirano, Isola, Parenzo, Rovigno e Dignano pareva dover prorompere da un momento all' altro in aperta sommossa, lanciava da Pola al governatore di Trieste la proposta di organizzare contro gl'italiani la leva in massa delle popolazioni rurali dei territori di Pisino, Pinguente, Castelnuovo e Volosca. In nessun luogo, forse, la tensione degli animi era così viva come a Pirano, dove la Guardia Nazionale, comandata dall'avvocato Francesco Venier, in stretti rapporti col patriotta concittadino Matteo Petronio, professore a Udine, portava sul petto la croce quale simbolo di redenzione, la musica comunale suonava liberamente, tra l'entusiasmo generale, gli inni della rivoluzione, e il quaresimalista Beltrame imprecava dal pergamo contro le stragi austriache in Lombardia.

Quali fossero in quel tempo i sentimenti degli albonesi lo lasciò scritto il dott. Luigi Barsan di Rovigno, allora medico condotto in Albona, nelle lettere inedite al fratello Giambattista di Pola, riboccanti d'amor patrio, più tardi sequestrate e incriminate dall'autorità austriaca. Noi qui siamo ora perfettamente tranquilli gli scriveva verso la fine di marzo ma incerti molto sul nostro avvenire. Ai nostri desideri, che credo comuni a tutta l'Istria ex veneta, non arridono le circostanze, ed è necessario per conseguenza aver pazienza e sperare in tempi più propizi. La dichiarazione di Trieste ci ha annichiliti... I primari del paese hanno dichiarato, nell' inscienza assoluta di ciò che aveano fatto le altre città dell'Istria, che Albona, avendo da vari secoli divisa la sorte dell' Istria ex veneta, non sarebbe mai per staccarsene, ed esser sempre pronta ai sacrifici che questa le imporrebbe...

E in data del 17 aprile: Ad eccezione di alcuni pochi che possono contarsi sulle dita, siamo qui tutti italiani, e desideriamo. ardentemente che prevalga la santa causa d'Italia, che Dio redense da un aborrito giogo ed uni in fraterna e, come sperasi, non mai peritura concordia. Secondi il cielo i nostri voti, e mentre ei sorride all'Italia, non torca lo sguardo da questa misera ed infelice Istria. Però temo che Trieste e Gorizia, vergognosamente dimentiche della propria nazionalità, ci tradiscano. Abituate al servaggio, non sentono ancora il bisogno di scuoterlo... Dal Municipio di Trieste giunse qui, coll'ultima posta, un eccitamento a far parte d'una deputazione da mandarsi a Vienna. Supendo il nostro podestà che gl'interessi di questa provincia, tanto politici che commerciali, non sono comuni con Trieste, e temendo dall'altro canto un' insidia da quell'eccitamento concepito in termini vaghi e misteriosi, ha voluto, prima di rispondere, sincerarsi di quanto aveano fatto nel proposito le altre città dell'Istria ex veneta, alle quali questa terra è fermamente decisa di rimanere sempre unita e a dividere con esso loro la propria sorte, qualunque ella sia. Si attende il ritorno dei messi. E i messi riferirono che la maggioranza dei podestà s'era accordata di non aderire all'invito di Trieste, ma di riunirsi per discutere sui propri interessi particolari.

Gli animi dei patriotti istriani venivano fortemente agitati dalle alterne notizie provenienti dal teatro della guerra d'Italia. Erano sussulti di pazza gioia ad ogni annuncio di qualche vittoria sarda; erano gemiti di disperazione ad ogni proclamazione ufficiale di qualche successo militare austriaco. E sentirsi soli, impotenti, dannati all'inazione, circuiti da spie e confidenti, pressati all'intorno da genti slave sobillate da iracondi funzionari governativi. Contro i deboli e gl' inermi la reazione aveva cominciato a far sentire il suo peso già alla fine di maggio, quando il Barsan scriveva al fratello: Tutti si lamentano che, nonostante la pubblicata costituzione, l'antico costume vige ancora con tutte le sue perniciose mostruosità. Spionaggio e mistero, raggiro e confusione, burocrazia e perfidia non sono elleno ancora all'ordine del giorno? Basta guardarsi un po' attorno per acquistarne la fatale e desolante certezza..

Ai primi animanti successi di Pastrengo e Goito, seguirono ben tosto le dolorose sconfitte di Vicenza e Sommacampagna, poi la resa di Milano e l'armistizio Salasco. La rivoluzione d'ottobre a Vienna valse a dare nuove illusioni alla fede patriottica degli istriani. L'Austria sentenziava il Barsan da buon medico che fa la diagnosi e la prognosi d' una malattia interessante è in agonia, la quale però può durare ancora, ma alla perfine ella deve morire; la sua costituzione ha sofferto in poco tempo troppe scosse per potersi riavere e guarire. Il male corrodeva di nascosto le interne sue viscere, benchè non desse indizio al di fuori. Scoppio ora tutto ad un tratto ed è irreparabile.

È vero che molti medici s'affaticano a guarirla, e se non altro a protrarle una mediocre esistenza; ma invano, i loro sforzi non possono essere da tanto; negli imperscrutabili decreti divini è deciso: ella deve morire. De profundis. E accennando alla questione nazionale dell'Istria diceva: L'Istria è stata e dev'essere sempre italiana, e gli slavi che vivono nella campagna dispersi e senza civili istituzioni si italianizzeranno un po' alla volta e senza difficoltà, senza impor loro con la forza la nostra nazionalità; da sé s'accosteranno a noi e con noi si fonderanno. Essi abbisognano di noi, ed una buona educazione elementare li persuaderà sempre più ad avvicinarci, locchè meglio si conseguirà cangiando tutto l'attual clero e sostituendovene uno più istrutto e nazionale... Giuste osservazioni, che ritornano oggi d'attualità, si da parer scritte da un chiaroveggente contemporaneo.

Tomaso Luciani partecipava col Barsan e con gli altri fidati amici albonesi alle poche consolazioni e alle molte ambasce di quel periodo fortunoso, mentre attendeva con sollecite intelligenti cure alle delicate mansioni del suo ufficio podestarile. Dal quale però si dimise con lettera aperta ai suoi concittadini, pubblicata nell' Osservatore Triestino del 20 settembre 1848, per dar loro agio di manifestare liberamente la propria volontà con l'applicazione del nuovo regolamento elettorale dei Comuni, mentre prima le nomine alle cariche comunali dipendevano dall'autorità politica. Nelle elezioni di dicembre il suo nome usci trionfante dall'urna, ed egli fu, tra il giubilo di tutta Albona, riconfermato podesta.

Quale stima godesse già allora il Luciani in provincia lo dice un brano di lettera di Carlo De Franceschi, deputato alla Costituente di Vienna, che gli scriveva irruenti parole di sdegno contro la minacciata unione dell' Istria alla Carniola, e gli riaffermava la necessità di concentrare l'azione patriottica degli istriani nell'organizzazione nazionale dei Comuni: Un'alacre attività, la disinteressatezza, la comprensione delle nuove idee liberali non possono trovarsi che in gente di questo secolo, e quindi alla testa dei Comuni pongansi i giovani che siano convinti del virgiliano: Novus saeclorum nascitur ordo. Oh ne avessimo molti pari a voi, non vi rincresca questa sincera lode, che meritatamente venite riguardato fra i più colti nostri ingegni, e come podestà a nessuno secondo!

Le comuni ansiose speranze da prima e gli amari disinganni di poi sono espressi anche nelle lettere che il Luciani scriveva agli amici e compagni di fede, delle quali però non molte per- vennero a noi, essendo andate distrutte negli anni della reazione per sottrarle alle ricerche della polizia. Dopo la caduta di Venezia, spenta l'ultima fiamma che aveva alimentate le speranze dei credenti nella giustizia e nella santità della causa italiana, e mentre il popolo depresso e sbigottito si rassegnava alla perdita della libertà, quando non applaudiva al raffermarsi dell'assolutismo, il Luciani apriva l'animo suo al dottor Barsan, passato da poco alla nativa Rovigno. «La cecità delle moltitudini gli scriveva il 23 settembre 1849 ella è cosa ben deplorabile, e pare impossibile come il popolo possa continuare a farsi strumento di schiavitù a sè stesso e a chi lo ama d'amore sincero. Se la libera stampa, se la libera associazione, se la Guardia Nazionale non fossero illusorie ma vere, non ci vorrebbe no molto a condurre il popolo cieco e ingannato sulla via della luce e della verità, ma finchè dura lo stato attuale di cose poco giova sperare nell'avvenire più prossimo. Ad ogni modo, il sangue versato non sarà indarno né per chi comanda né per chi ubbidisce. Ho letto lo scritto che Tommaseo lasciava partendo dal popolo veneziano, ne rimasi ammirato e commosso...»

E il 27 settembre 1850: Quando scrive al dottor Jona [di Gorizia) contraccambi ai saluti e gli dica che mi congratulo che anch' egli abbia avuto l'onore d'una occulta persecuzione. Queste sono le vere note onorifiche, le vere decorazioni! Ha veduto Ella T... decorato?! Dio mio, meglio tacere, perché non si direbbe mai abbastanza. Mi dispiace che sia stato decorato il dottor M... di Capodistria! Mi fu detto che un medico di Zara abbia avuto il coraggio di rifiutare apertamente una consimile decorazione nell'atto stesso che il vice luogotenente si apprestava ad appendergliela. Bisogna assicurarsi di questo atto, che sarebbe veramente eroico, e voglia Dio che sia vero e che trovi imitatori.

Poco tempo prima, alcuni patriotti istriani, tra cui il Luciani, il Barsan, il De Franceschi, il Fachinetti e l'avv. Antonio Madonizza, mente sagace e affinata di statista, spirito forte, autoritario e un po' burbanzoso e sarcastico, considerato il capo del partito nazionale, illusi da un residuo di libertà a cui pareva inspirata la nuova legge austriaca sulla stampa, avevano progettato la creazione d'un periodico provinciale, che, sul modello dell'audace Giornale di Gorizia, di Carlo Favetti, tenesse desto cautamente nel popolo l'amore della libertà e della italianità e promovesse i trasandati interessi economici dell'Istria. L'idea, ottima in sè e coraggiosa, si appalesò ben presto di non facile attuazione, anche per la mancanza in provincia d'una tipografia; allora qualcuno pensò d' indurre Pietro Kandler a cedere il suo periodico storico L'Istria, che, stentando la vita, gli cagionava gravi imbarazzi, per dargli maggiore sviluppo e diffusione col trasformarlo in politico, pur riservandone una parte agli studi di storia patria. Ma la negata adesione del Kandler, quasi sgomento della proposta, fece tramontare il progetto, che fu poi, in misura ridotta, attuato da Michele Fachinetti con la fondazione del modesto bisettimanale II Popolano dell'Istria, in cui collaborò, unitamente ai suoi amici e consenzienti politici, anche il Luciani. Ma il Popolano, osteggiato dalla polizia, che ne vietò la diffusione nel regno Lombardo-Veneto e ne condizionò l'ulteriore uscita al deposito d'una forte cauzione, dopo undici mesi di vita, dal 1 ottobre 1850 al 2 settembre 1851, dovette morire; e allora gl'istriani, per far sentire i loro lamenti e le loro proteste, ricorsero all'unica libera voce che osasse ancora levarsi nella Regione Giulia, alla voce, ben presto anch'essa soffocata, della triestina Favilla di Francesco Hermet.

Poi si fece ovunque silenzio, mentre le tenebre dell'imperiale dispotismo s' addensavano opprimenti sopra uomini e istituzioni, e le persecuzioni e vendette contro i compromessi del '48 destavano ansie e paure nelle famiglie dei patriotti. Michele Fachinetti nell'imperversare della bufera seguitava a tenere, quasi trasognato, gli occhi fissi, con immutata fede, nel suo grande Ideale. Nell'annunciare a un amico, dopo la morte del Popolano la sua collaborazione alla Favilla, chiudeva melanconicamente: Dureremo nell'opera patria finchè sarà possibile; e poi ci avvolgeremo nelle memorie, operando in silenzio sotto i verdi rami delle speranze.

E Tomaso Luciani, che cercava nella laboriosa vita campagnuola l'oblio delle disavventure della patria, deprecava con Luigi Barsani tempi mutati che non consentono nessuna buona novella, che gettano lo sconforto nell'anima, che fan cadere la penna di mano e morir la voce sul labbro. «Però non creda - seguitava ch'io sia divenuto altro uomo di quel ch'io era. Mutino pure i tempi le mille volte, io rimango fermo nei miei principi, e non potrò mai dire che vi sia luce dove sono tenebre fitte».

Queste lettere caddero poco dopo nelle mani della polizia in una perquisizione da essa eseguita a Rovigno nell'abitazione del Barsan, e diedero motivo ad altre visite domiciliari, tra cui in Albona al Luciani, che però ne fu a tempo prevenuto da un biglietto del De Franceschi, trasmessogli mediante Antonio Covaz di Pisino.

Allora egli fu iscritto nel registro dei precettati politici dell'Istria, che comprendeva 182 nomi tra i più chiari della provincia per intelligenza e posizione sociale, e vi rimase incluso sino al 1856, quando il barone Grimschitz lo fece radiare perché potesse conseguire la riconferma a podestà d'Albona. Il Luciani seguiva con animo angosciato le sorti degli amici maggiormente colpiti dall'odio bestiale del Grimschitz; in ispecie i tristi casi dell' amico De Franceschi, licenziato dopo vent'anni di onorevole servizio, senza procedimento disciplinare, dall'ufficio di assessore del Tribunale di Rovigno, e costretto a rifugiarsi, privo di mezzi, con la moglie e due teneri bambini, nel paesello natale, dove visse quasi a domicilio coatto, vigilato da gendarmi e da spie, circa un anno, finché gli fu concesso di esulare a Fiume a guadagnarsi un duro pane nello studio d'un avvocato.

Placati alquanto, finalmente, i furori della reazione, il Luciani ebbe vaghezza, dopo perduta nel 1855 la vecchia adorata madre, di conoscere più da vicino l'Italia e di visitarne biblioteche e archivi alla ricerca di libri e documenti riferentisi all'Istria, ai cui studi storici era stato già iniziato dal Kandler, del quale, come il De Franceschi, nonostante la profonda discordanza dei sentimenti politici, era amicissimo. Egli fu tra il febbraio e il marzo 1858 a Trieste, a Venezia a Milano, spingendosi sino al lago di Como; e un secondo più lungo viaggio intraprese nel maggio e giugno di quello stesso anno visitando Padova, Rovigo, Ferrara, Bologna, Firenze, Lucca, Pisa, Livorno, d'onde s'imbarcò per Civitavecchia e Roma, e dopo 12 giorni di fermata nella città eterna fece ritorno in Istria per la via d'Ancona.

Di questi suoi viaggi, ai quali non era del tutto estranea la politica, avendo egli cercato d'avvicinare ovunque nelle città percorse, ma specialmente in Toscana, allora sicuro asilo di esuli, gli uomini più eminenti del movimento nazionale, il Luciani dava fedele ragguaglio in lunghe lettere al De Franceschi a Fiume mostrandosi desideroso di potersi intrattenere a voce con lui su argomenti che in iscritto non era agevole trattare, durante qualche escursione archeologica che usavano intraprendere insieme sui monti Vena e sul Caldiera. Essi erano entrati in quel tempo in rapporti amichevoli con Carlo Combi, eletto ingegno, anima purissima d'apostolo infervorato da una duplice fede, divina e patriottica, il quale nella sua Capodistria, dove insegnava dal 1856 nel ginnasio-liceo, aveva cominciato a intessere le fila d'una oculata cospirazione, che andò rafforzandosi ed estendendosi negli anni successivi e durò, insospettata dalla polizia austriaca, sino al 1866. A codesta piccola fucina d'occulti maneggi politici facevano capo i patriotti dell'Istria e di Trieste, che riconoscevano nel giovane capodistriano l'autorità che gli derivava dalla coraggiosa iniziativa, dalla prudente serietà dei propositi, e soprattutto dalle straordinarie doti della mente e del cuore. Egli si era già reso noto favorevolmente in provincia e fuori con la pubblicazione della strenna popolare La Parta Orientale, di marcata tendenza unitaria, modellata sullo stampo del Nipote del Vesta Verde di Cesare Correnti, il quale gliene suggeri pure il nome in un articolo che trattava dell'Istria: Porta orientale d'Italia, anzi sola porta d'Italia, perché da tutte le altre bande il vento e il cholera non ci ponno venire che per mare o scavalcando il muro. Il muro, dico, dell'Alpi...

La guerra del 1859 trovò ancora non bene organizzato questo manipolo di ardimentosi; ma il suo duce non se ne stette inerte, bensì cercò di provvedere ad ogni sperabile evento, per rendere l'Istria compartecipe dei frutti della vittoria. Dopo le battaglie di Magenta e Solferino, credettero per un momento gli istriani, accesi di fiducioso entusiasmo, che le armi vittoriose degli alleati avrebbero incalzati gli austriaci nella pianura veneta, so- spingendoli oltre l'Isonzo; poi uno sforzo ancora, un supremo sforzo, e i valichi alpini sarebbero ripassati in fuga disordinata dall'esecrato straniero, e con Venezia anche tutta la Regione Giulia verrebbe rivendicata a libertà. Generosa illusione! Ai primi di luglio, mentre le flotte unite francese e sarda prendevano possesso delle isole del Quarnaro inalzando solennemente sul pubblico stendardo di Lussimpiccolo il duplice tricolore, ed en- travano poi nella rada di Fiume, Carlo De Franceschi varcava il Monte Maggiore per recarsi ai solitari Bagni di S. Stefano, ove ebbe un abboccamento con Leonardo d'Andri, che sette anni dopo doveva cadere gloriosamente a Custoza, presentatosi a lui con una lettera di Carlo Combi per concertarsi intorno a una comune azione intesa a incorporare amministrativamente l'Istria nel Veneto e farne condividere le sorti come parte integrante del nuovo Regno o almeno della progettata Confederazione di Stati italiani. Ma questo progetto, a cui Trieste non credette, per ragioni economiche, di aderire, fu ostacolato e impedito dall'Austria, sempre ligia al suo antico aforismo di stato: Divide et impera..

La fortuna d'Italia non subì che un momentaneo arresto dall'improvviso abbandono di Napoleone, conseguente al minaccioso atteggiamento del Governo prussiano; la mente di Cavour e il braccio di Garibaldi bastavano a condurre ad effetto la meravigliosa impresa dell'unificazione d'una grande Nazione in tanti brani, da secoli, smembrata. Ed ecco i cospiratori istriani intensificar l'opera d'organizzazione e di propaganda; bisognava anzitutto far conoscere ai reggitori e al popolo d'Italia l'esistenza di questa piccola provincia quasi ignorata, come l'esperienza del 1859 aveva dimostrato, e i sentimenti e le aspirazioni dei suoi abitanti; bisognava scuotere l'indifferenza delle sfere ufficiali, dissiparne le prevenzioni e i timori, comprovando specialmente l'infondatezza dei pretesi diritti della Confederazione germanica su Trieste e sull'Istria, ch'erano il più pericoloso ostacolo alla redenzione di queste; bisognava infine dimostrare che senza il completo possesso dell'Adriatico e delle Alpi Giulie, l'Italia non poteva procedere sicura sul cammino ascensionale della sua grandezza. Purtroppo eravamo caduti cosi in basso lamentava il Luciani in uno scritto del maggio 1861 a Eugenio Popovich, allora studente a Pisa da non conoscere i veri limiti del nostro territorio, da misconoscere i nostri fratelli, donde incertezze e timidità nel volere ciò che ci appartiene, che è nostro, che è necessario alla prosperità e sicurezza della Nazione..

Nell'autunno del 1859 l'abate Antonio Coiz di Faedis nel Friuli, amico e consigliere del Combi, rinunciò alla cattedra tenuta da otto anni nel ginnasio-liceo di Capodistria per portarsi a Milano, chiamatovi dal suo conterraneo Pacifico Valussi che gli procurò un posto nella redazione della Perseveranza, di cui era direttore. Il Valussi, considerato a ragione la personalità più eminente dell' emigrazione friulana, nutriva, come tutti gli uomini della prima Favilla che qui vissero e operarono a lungo, un grande affetto per Trieste e per l'Istria, mantenendovi antiche consuetudini d'amicizia con gli spiriti più colti e illuminati; ond'era ben ovvio che a lui ricorressero i nostri patriotti e in lui trovassero un fervido zelatore della loro causa nazionale. Intanto non pochi triestini e istriani, insofferenti del servaggio austriaco, passavano il Mincio per partecipare da vicino agli incalzanti avvenimenti della rivoluzione italiana, o come combattenti nelle file garibaldine o come propagandisti dei voti e delle speranze della patria. Tomaso Luciani, che per i suoi fini aveva saputo cattivarsi la simpatia e la piena fiducia del pretore Sedmack, consegui col suo mezzo, nella pri- mavera del 1860, un passaporto della durata di sei mesi per gli Stati italiani, e si recò, d'intesa col Combi, a Milano e Torino allo scopo d'annodare meglio le relazioni del Comitato istriano con quei due centri d'attività patriottica. Egli s'avvide, e ne fu anche avvertito dai capi dell'emigrazione veneta, che nei vari comitati nazionali per la liberazione delle province irredente che si andavano costituendo, dopo la guerra del '59, nelle principali città del Regno, mancava un autorevole rappresentante dell'Istria, che potesse parlare e agire quasi ufficialmente a nome di questa provincia e che moderasse e dirigesse ad un'unica azione concorde le diverse tendenze degli emigrati istriani e triestini.

Ritornato ad Albona prima della fine del permesso, aveva già fermato in sè il proposito di accettare l'offertogli posto di fiducia e di responsabilità in seno al Comitato di Milano, poi che il Combi, per la necessità di condurre personalmente con la provata sua autorità, valentia e prudenza il movimento nazionale in patria, oltre che per imprescindibili ragioni famigliari, era impossibilitato ad abbandonare Capodistria.

Il Luciani, ormai deciso di consacrarsi con tutto il fervore della sua anima alla causa nazionale dell'Istria, procedette con perspicace cautela nei preparativi della partenza, non confidando che a pochi intimi, tra cui ai fratelli dottor Antonio e Giovanni Scampicchio di Albona e al farmacista Giusto Lion di Pisino, il passo che stava per compiere. A preservare i suoi beni stabili da un possibile sequestro, ne concertò una vendita fittizia con Giovanni Scampicchio; quindi chiese alla Presidenza luogotenenziale di Trieste, mediante il pretore Sedmack, un nuovo passaporto per Milano, col pretesto di portarvi a vendere una grossa partita di semi di bachi da seta, alla cui coltura si dedicava. Ottenuto, senza difficoltà, anche questo foglio di via, e fissato il giorno della partenza, andò a congedarsi con grande affabilità dal pretore, al quale dichiarò che non sarebbe rimasto assente più d'un mese, anche perché voleva trovarsi in Albona per le imminenti elezioni comunali, nell' intento d'esercitarvi la propria influenza nella scelta d'una buona rappresentanza. Lasciò la diletta cittadina, non senza un' intima, profonda commozione, circa il 10 gennaio 1861, per recarsi da prima a Dignano a salutarvi il fratello avvocato Giuseppe, poi a Capodistria a prender congedo e le ultime istruzioni dal Combi; quindi abboccatosi a Trieste con quei consenzienti, parti alla volta di Milano, dove prese alloggio in casa Vaccari, al N. 7 di Contrada della Lups, mettendosi tosto a disposizione dell'emigrazione veneta. Questa stava allora riorganizzandosi sulla base d'un nuovo statuto che allargava la sua sfera d'attività anche alla Regione Giulia e al Trentino. Il 25 febbraio 1861 fu costituito il Comitato politico veneto di Milano, del quale entrarono a far parte Tomaso Luciani per l'Istria, Leone Fortis, redattore del Pungolo, per Trieste, Gaetano Manci, già podestà di Trento, per il Trentino, Pietro Correr e Francesco Sartorelli per il Veneto. Il Comitato di Milano, come quelli con- temporaneamente costituiti a Brescia, Ferrara, Genova, dipendeva dal Comitato centrale di Torino, composto di personalità eminenti, quali Alberto Cavalletto, Giuseppe Finzi e Sebastiano Tecchio, che onorarono il collega istriano della più confidente amicizia.

La comparsa del nome di Tomaso Luciani, sui pubblici fogli, tra i membri del Comitato milanese, fece un' enorme impressione sul governo austriaco, specialmente per la distinzione e popolarità dell'uomo e per la carica podestarile di cui figurava tuttora rivestito. La Direzione generale di polizia in Vienna ne diede tosto notizia al luogotenente di Trieste, che si rivolse per informazioni al pretore Sedmack, il quale si mostrò sbalordito e accasciato del tiro giuocatogli dal Luciani, che, a suo dire, non avrebbe confidato a nessuno, prima della partenza, la presa risoluzione, neppure al fratello, prevedendo che avrebbero cercato in tutti i modi di distoglierlo dal suo proposito. Tuttavia l'onesto Sedmack, nella responsiva al luogotenente, non potè fare a meno di tessere l'elogio morale del fuoruscito: ll Luciani egli scriveva per la sua onoratezza e per la sua coltura da tutti apprezzate, per il suo patriottismo e per i suoi incessanti sforzi, come podestà, a promuovere la prosperità di questo comune, è una persona che gode la stima generale e la massima fiducia...

Nuovo motivo d'allarme e d'indagini diede all'autorità politica austriaca la diserzione da Pola e il passaggio in Lombardia d'un tenente del 33° reggimento di fanteria, certo Augusto Knoflauch trentino, cognato del dottor Ercole Boccalari di Dignano. Il ministro della polizia notificava da Vienna, il 2 giugno, al luogotenente di Trieste, barone Burger, di essere venuto a conoscenza che in favore del Knoflauch erano state spedite da Trieste a Milano, al falso indirizzo di Antonio Colegni, con recapito al Caffè Martini, tre lettere commendatizie dirette a Tomaso Luciani, a Gaspare Trecchi, colonnello del r. esercito, e al marchese Pietro Araldi, senatore del Regno.

L'emigrazione giuliana era allora rappresentata, oltre che dal Luciani, da altri benemeriti patriotti, che in stretto accordo coi comitati di Trieste e dell'Istria, stavano svolgendo una seria e vasta azione per illuminare le sfere ufficiali e i partiti dirigenti sulla mal nota questione triestina e per convincere il conte di Cavour a comprenderla nel suo programma politico della liberazione del Veneto. II Cavour era stato messo a contatto con gli emigrati dal barone Raffaele Abro, triestino, d'origine armena, entrato da poco nella diplomazia italiana, e addetto al Ministero degli Esteri, Era questi la mente direttiva e il principale sovvenitore finanziario dell'opera di propaganda; al suo nome va unito quello dell'amico Buo Costantino Ressman, altro nobile figlio di Trieste, dedicatosi pur egli alla carriera diplomatica nell'intento precipuo di rendersi giovevole alla causa della città natale; gagliardo ingegno di pronta e sicura intuizione, spirito critico e mordace, entusiasta dell'idea nazionale, ma portato sempre da un sano senso pratico alla giusta valutazione della realtà. Da Parigi, dove era addetto alla Legazione italiana, il Ressman incuorava, spingeva, aiutava col consiglio e con l'opera gli amici triestini di Torino, in parti- colare l'Abro e Eugenio Solferini, attivissimo agitatore, compro- messo in patria e da poco rifuggito con Giulio Solitro, illibato idealista del '48, nella capitale del Regno.

Tomaso Luciani entrò subito nel vortice del movimento, prendendo parte alle proteste e polemiche suscitate da due articoli di Paul Merruan sul semiufficioso Constitutionnel di Parigi contro le aspirazioni unitarie dei triestini. Egli pubblicò, a nome degli istriani, una dignitosa protesta sulla Monarchia Nazionale, riportata anche, per interessamento di Raffaele Abro, sul giornale Le Nord di Bruxelles, poi che la stampa autorevole francese, per riguardi all'Austria, s'era schermita di accoglierla.

L'articolo incontrò l'approvazione del Ressman, che così ne scrisse il 5 febbraio all'amico Solferini: L'ho trovato ottimo e ne felicito caldamente il signor Luciani, col quale simpatizzai e simpatizzo molto prima di conoscerlo. L'amico di Pirano (Francesco Venier?) mi prega anch'esso di raccomandarlo con calore a voi tutti; ma la mia voce certo non varrebbe ad aggiungere alcun che a tanto merito, messo doppiamente in rilievo da un' abnegazione e da un sacrificio che ognuno saprà apprezzare in proporzione alla sua grandezza, non essendo certo più lieve l'esilio di un istriano di quello d'un veneto, ormai troppo sicuro del prossimo rimpatrio,

Il Luciani collaborò, dal 1861 al 1866, in molti altri giornali del Regno: nell'Alleanza e nella Perseveranza di Milano, nel Diritto e nell' Opinione di Torino, nella Nazione di Firenze, illu- strando la sua provincia nel campo storico, geografico, etnografico, linguistico, soprattutto rivendicandole il diritto d'appartenenza all'Italia.

Ma forse i maggiori meriti egli si acquistò con la solerte cooperazione ai principali lavori letterari sulla italianità della Venezia Giulia, pubblicati in quegli anni per iniziativa dei Comitati di Milano e Torino; come l'opuscolo del Valussi, tradotto poi in francese dal Ressman, Trieste e Istria e loro ragioni nella questione italiana (Milano, 1861), che fu detto giustamente il programma fondamentale dell' irredentismo giuliano; e il poderoso volume di Sigismondo. Bonfiglio Italia e Confederazione germanica (Torino, 1865), che dimostrava, sulla base di documenti irrefutabili, l'infondatezza delle pretensioni germaniche sul versante meridionale delle Alpi Giulie. A questa opera prestarono il loro concorso anche l'Abro e il Ressman, oltre ai fratelli Mezzacapo per la parte militare; e, dei patriotti di Trieste, il dottor Costantino Cumano, primo vicepresidente del Consiglio e conservatore dell'Archivio Diplomatico comunale, onde traeva in copia i documenti che spediva al Solferini a Torino, Raffaele Costantini, che forni tutti i dati commerciali, e l'avvocato Arrigo Hortis, che raccolse molta parte dei fondi per le spese di stampa..

Nel febbraio 1863, il Luciani rimetteva al Solferini in Torino, quale contributo per la pubblicazione del libro del Bonfiglio, l'importo di lire 500, ricevuto da Trieste; e nello stesso tempo gli notificava che per la sottoscrizione nazionale contro il brigantaggio erano state raccolte a Trieste lire 1000, in Istria lire 400 e nel Goriziano lire 300, eccitandolo a divulgare la notizia mediante i giornali non tanto per la somma, sebbene sia rimarchevole, non tanto per l'offerta come soccorso, ma come dimostrazione politica, come atto di coraggio civile, come sfida all'oppressore straniero, come protesta anti-autriaca, come espansione d'affetto per i fratelli sofferenti, come manifestazione di fratellanza e solidarietà con tutti gli italiani liberi o gementi sotto giogo austriaco o pretesco.. Anche alla compilazione di due altre operette del Bonfiglio concorse il nostro Luciani con copiosi e interessanti materiali d'archivio. I titoli dei due opuscoli bastano a determinarne l'importanza per la questione a cui si riferivano: Condizioni passate e presenti dell' Istria e conseguenze relative di pubblico diritto (Torino 1864), e I termini d'Italia dal Monte Nevoso al Quarnaro e la loro politica importanza (Firenze, 1866). In questi lavori il nome del patriotta albonese figura ripetutamente, e una volta viene fatto speciale onore ai di lui meriti con le parole: Tomaso Luciani, membro del Consiglio generale dell'emigrazione italiana e del Comitato di questa in Milano, è fra noi viva immagine del liberale e nazionale ardore della sua provincia natale, all'avvenire della quale egli dedica tutte le sue forze, usandone in quei molteplici modi con cui più efficacemente si propugna una causa politica.. E che il Luciani si prestasse con la massima fervidezza nella sua missione patriottica lo dimostra tutta l'ammirabile opera da lui compiuta. Egli fu per sei anni l'anello di congiunzione tra i Comitati politici del Regno e i capi del partito unitario dell'Istria, coi quali, in particolare col Combi, coltivò un'assidua corrispondenza segreta, ascoltandone i lamenti e i desideri e suggerendo loro la linea di condotta in armonia al movimento veneto e all'indirizzo della politica occulta italiana. Si deve al Luciani, oltre che al Combi e ad Antonio Madonizza, l'organizzazione della più solenne e significativa manifestazione separatista degli istriani con la negata nomina, in seno alla Dieta, di due deputati al Parlamento di Vienna; così pure tutte le altre successive affermazioni d'italianità che ebbero luogo in latria da parte di Comuni e di corporazioni furono ispirate e promosse da Tomaso Luciani. Il quale aveva assidua cura di far sentire in ogni opportuna occasione al Governo e al popolo d'Italia la voce dell'Istria tra quelle delle province venete imploranti la liberazione dal giogo austriaco; il 6 aprile 1861 veniva presentato in Torino al generale Garibaldi, a cui baciava, in segno di religiosa devozione, un lembo del mantello, e l'anno seguente gli offriva, insieme al Coiz e all'avv. Molinari, bergamasco di nascita ma triestino d'elezione, una raccolta di carte topografiche e idrografiche dell'Istria e della Dalmazia, che avrebbero dovuto servirgli, nella prossima guerra contro l'Austria, in uno sperato sbarco di volontari su quelle coste. 11 4 gennaio 1863 faceva poi parte, con Aleardo Aleardi, il conte Giambattista Giustinian e il conte Manci, d'una Commissione veneta che presentò a Vittorio Emanuele un indirizzo e un ricco albo, omaggio nuziale delle donne della Venezia, dell'Istria e del Trentino alla figlia principessa Maria Pia andata sposa al re del Portogallo.

Da alcune interessanti lettere di Tomaso Luciani, degli anni 1861-1867, comunicateci gentilmente da Eugenio Popovich, fortissima tempra di patriotta, ultimo superstite della nobile schiera di precursori che faticò in quel lontano periodo a far conoscere alla grande patria il nome della patria ristretta, possiamo trarre qualche notizia sui rapporti fra gli esuli istriani sparsi nei vari centri del Regno. Erano convenuti a Pisa, per frequentare quell' Ateneo, oltre al Popovich, Anteo Gravisi, Niccolò Madonizza, Domenico Vidacovich, poi un Marsich, un Filippini, un Trevisini e altri. la maggior parte capodistriani, proseliti di Carlo Combi, ai quali il Luciani era largo d'incoraggiamenti e d'appoggio. Ringraziate Dio scriveva loro il 31 dicembre 1861 di poter compiere gli studi in cotesto paradiso terrestre, e procurate di attirare sull'Arno quei vostri concittadini che si annoiano e si snaturano forse sulla Mur e sulla Wien. Mantenete sempre viva tra voi la fiamma dell'amor patrio, e benchè siamo in momenti di sosta e incertezza, abbiate fede incrollabile nell'avvenire, nella onnipotenza delle umane sorti. L'Italia si farà, non dubitatene, e noi vedremo un di sventolare il benedetto vessillo anche sulle nostre torri. E li ringraziava delle felicitazioni di capo d'anno ch'essi gli avevano fatto pervenire: Accolgo con gioia i vostri auguri e le vostre patrie aspirazioni, le accolgo e le divido. Con gioia del pari li accolse l'inseparabile e insuperabile amico Coiz. Anche gli altri amici e conoscenti sono grati ai vostri ricordi e vi contraccambiano. Quello che dico a voi intendo ripetere a tutta la Colonia Triestino-Istriana, e quindi vi prego di essermi interprete verso ciascuno di codesti buoni amici che la compongono. Il 21 febbraio 1862 il Luciani cercava di calmare l'animo bollente del giovane Popovich, che nelle sue lettere al capo dell'emigrazione istriana faceva sentire i fremiti d'una sdegnosa impazienza: Mi pare che le cose vadano un po' lente, si, ma non diffido, non dispero, non temo nè m'irrito come voi fate.... perchè ogni giorno si procede, si guadagna terreno, si consolida, si unifica, si organizza, si arma. Errori se ne sono commessi e se ne commetteranno ancora; ma bisogna essere giusti e ragionevoli. nel giudicare. Chi è fuori del giuoco vede sempre meglio che il giuocatore; più facile criticare che operare; difficilissimo governare una nave lanciata in alto mare (concedetemi la similitudine) prima che sia compiuta. Ricasoli non è Cavour, ma pur pure ci guida a Roma.... lo non sono idolatra di nessuno, ma non mi piace imprecare a coloro che fanno pel bene e pel decoro della patria. tutto quello di più e di meglio che sanno fare: La nuova generazione avrà uomini più esercitati nella vita politica; per oggi dobbiamo contentarci, aiutare e non creare imbarazzi. Eccovi le mie idee.. E accennando alla propria opera gli diceva: Sono occupato sempre e poi sempre da mane a sera, e non in cose frivole o inutili o di vacuo piacere. Servo alla patria come meglio so e posso, e servo più particolarmente alle nostre terre natali. Povera Istria, quanta miseria e quanta rassegnazione e fede ad un tempo!

Così in tutte le altre lettere, il pensiero del Luciani si manifestava costantemente rivolto all'Istria sua e al modo di affrettarne la liberazione: E utile che ci rivediamo talvolta tra istriani, che ci comunichiamo di viva voce le speranze e i timori, che ci concertiamo e rinfuochiamo nell'operare il bene per il povero nostro paese. Le dimostrazioni di Trieste furono una vera prov- videnza, e ad ogni buona occasione bisogna lodare e animare quei poveri oppressi. Spero che le parole di Garibaldi saranno state di grande conforto, di grande eccitamento colà (9 luglio 1862). A dimostrare poi le assidue cure dell' Albonese nel sovvenire i comprovinciali profughi nel Regno, basta citare queste parole d'una sua lettera al Popovich con la quale gli raccomandava un giovane emigrato, certo Rovis: Mi fa pena pensare a lui! E l'unico istriano, o quasi, al quale non ho potuto fare un poco di bene.

Amicissimo di Alberto Cavalletto, uno dei condannati a morte nei processi di Mantova, ne seguiva le tendenze monarchiche e moderate, talora in fiero contrasto coi partiti più avanzati; ebbe anche qualche contesa coi fuorusciti triestini, avendo preferito, nei primi tempi, di tener distinta la causa dell'Istria da quella di Trieste, che a suo giudizio non rispondeva abbastanza volonterosa all'appello per un risoluto procedimento comune. Però in seguito, specialmente dopo il coraggioso contegno del Consiglio comunale di Trieste, che rifiutò, nel gennaio del 1865, un indirizzo d'omaggio all'imperatore, l'accordo e la fusione tra i due gruppi provinciali divennero completi.

Intanto maturavano gli eventi della politice estera d'Italia. e l'alleanza di questa con la Prussia preludeva alla terza guerra contro l'Austria. Gli animi degli istriani e dei triestini s'accesero ancora una volta delle più liete speranze, benchè gli statisti che reggevano le sorti del Regno, timidi e dubitosi nei loro atteggiamenti, non contribuissero ad alimentarle.

Costantino Ressman, che seguiva da Parigi, con acuto sguardo diplomatico, gli avvenimenti d'Italia, trepidando, anche negli istanti più propizi, per le sorti politiche della sua Trieste, scriveva il 7 giugno a Eugenio Solferini con una tinta di oscuro pessimismo: Occuperemo Trieste, lo spero e vi confido. Ci sarà poi possibile di tenerla? Qui comincia l'ardua questione. lo per me rispondo si, se il Governo e la Nazione sanno volerlo energicamente e sopratutto se i Triestini sanno agire nell'ora opportuna. Non farti illusioni; le illusioni in questo momento sarebbero funeste per chi vuole Trieste definitivamente unita all'Italia. Il fatto militare dell'occupazione sarà lunge ancora dall'essere una guarentigia per l'effettuazione della nostra più cara speranza. Regnano negli uomini tra noi più influenti fatali prevenzioni riguardo a quel territorio; e colà dove furono dissipate rimane tuttora molta fiacchezza di desiderio relativamente a quell'acquisto, mentre non in Germania soltanto, ma in tutta Europa, in tutta la diplomazia, in tutta la stampa non si ammette nè si ammetterà di leggieri l'annessione di tutto quanto sta oltre Isonzo. I nostri cari alleati, i Prussiani, saranno i primi a protestare con furore; e nel Re, nel Generale La Marmora ed in altri la soddisfazione d'avere il Veneto farà facilmente rinunziare a Trieste...

Un intenso lavorio di preparazione occupava intanto gli emigrati che si erano dati convegno nella nuova capitale, e le cui file si andavano ingrossando di nuovi profughi e degli sbanditi dalla polizia austriaca. I giovani accorrevano in buon numero ad arruolarsi sotto Garibaldi o nell' esercito regio; i non più atti alle armi venivano a portare il loro contributo d'attività perché nell'imminenza del grande cimento la causa della regione Giulia non rimanesse disconosciuta e negletta. Carlo Combi e Antonio Madonizza abbandonarono Capodistria prima di ricevere l'intimazione dello sfratto già deciso contro di loro, e si recarono renze, dove convennero molti altri istriani, tra cui Niccolò a Fi- De Rin, Francesco Sbisà, Sebastiano Picciola, Giuseppe Ver- gottini, Antonio Vidacovich e i triestini Francesco Hermet Arrigo Hortis, i quali, unitisi ai vecchi emigrati, costituirono quel Comitato Triestino-Istriano che fu, durante la guerra, l'interprete e l'assertore dei sentimenti e delle aspirazioni delle due province giuliane. L'anima di codesto Comitato era Tomaso Luciani, che, coadiuvato specialmente dal Combi, vi dedicò tutta la sua fervorosa ed entusiastica solerzia; furono stesi da lui la maggior parte degli indirizzi e memoriali presentati al re e ai ministri d'Italia per richiamare la loro attenzione e sollecitare il loro interessamento alla questione della frontiera orientale del Regno. L'Italia senza l'Istria non è compiuta scriveva ad Agostino Depretis, ministro della Marina non è sicura, non potrà disarmare, non potrà assestarsi, non potrà prosperare. L'Istria, per quanto piccola ed estrema possa apparire sulle carte geografiche, è importantissima noi; lasciata in mano dell'Austria, sarebbe lievito di future discordie... L'Austria posseditrice delle Alpi Giulie e dell'Istria, avrebbe sul nostro territorio, in casa nostra, un campo trincerato più formidabile dell'attuale Quadrilatero, dal quale potrebbe, e per terra e per mare, riattaccarci a tutto suo agio. Dalle prealpi e dalla sottoposta pianura è aperto, è patente il passaggio nel Friuli; da Pola ove, trasportando l'Arsenale di Venezia, accumulò ogni argomento di guerra, potrebbe in una notte lanciarsi su qualunque punto della nostra costa adriatica. Parole tanto vere. che sembrano oggi profetiche, confermate come furono dagli avveni- menti dell'ultima guerra! E il 14 luglio, mentre, nella triste prospettiva d'un imminente armistizio, Bettino Ricasoli riconosceva, con tardo ravvedimento, primo dei ministri italiani, l'importanza della questione di Trieste e dell'Istria e proclamava la necessità della loro occupazione militare, il Luciani scriveva in un memoriale Emilio Visconti-Venosta, allora ministro degli Esteri: «Nativi di Trieste e dell'Istria, province per ogni rispetto italiane, ma non ancora confessate tali da tutta la diplomazia, noi trepidiamo al pensiero d'una pace prematura, e trepidiamo non solo come Istriani, ma come Italiani; chè la doppia qualità ne costituisce in noi una sola..

Due giorni dopo egli otteneva dal ministro della guerra un salvacondotto per il Quartiere generale, dove si recava col Combi e con l'Hortis, l'animo esaltato dalla lusinga d'un miraggio che pareva realtà; il 19 luglio giunse a Bologna, e quivi lo colse la fulminante notizia della sconfitta di Lissa, che doveva far crollare d'un subito in lui e negli istriani tutte le illusioni e tutte le speranze!

Ancora alla vigilia della guerra egli aveva chiesto l'imbarco sopra una corazzata, nella speranza di portare primo all'Istria sua il messaggio della redenzione; più tardi, quando la flotta s'accingeva, sotto la pressione del Governo, ad agire, ripeté la domanda a cui l'ammiraglio Persano non credette di accondiscendere, temendo forse l'inframmettenza politica dell'agitatore istriano nelle operazioni militari. Forse, chi sa, nell'indicibile angoscia per la sciagura di Lissa, l'ardente patriotta ebbe ad imprecare contro il destino che non gli concesse di morire inghiottito, col suo Ideale, dai gorghi dell'Adriatico!

L'amaritudine del disinganno patito dagli italiani delle Giulie scoppia in dolorosi lamenti, in aspre rampogne contro i governanti d'Italia, in uno scritto del Ressman al Solferini, del 25 ottobre, poco dopo la conclusione della pace: Non so dirti quanto e come facessi eco alle sdegnose parole della tua lettera di luglio! Le abitudini diplomatiche avevano fin allora considerevolmente calmato il mio sangue, altre volte non tiepido per Iddio! Ma quando vidi che cosa si faceva della nostra povera Italia, e cosa erano al fatto i pretesi suoi sommi (ed io molta parte della tragedia vedevo dalle quinte) tornai a bollire come non aveva bollito mai, ed oggi l'ho a ventura se non impazzii. Si, mio caro, furono inetti e codardi su tutta la linea. Il nome della nostra Trieste e dell'Istria non osarono nemmeno proferire mai; nemmeno allorquando era d'evidente utilità di dare almeno buone ragioni del perchè la retrocessione francese non potesse colmare gli Italiani d'entusiasmo. E con un po' di previdenza e di buon senso si sarebbe invece preparata una marcia trionfale a Vienna! Ma che vale! A furia d'ottimismo si persuaderà ben tosto alle moltitudini, non senza ragione dette vili da Thiers, che l'ottenuto fu anche troppo. Che cosa c'è ancora in Italia? Gloria militare, no. Danaro, meno. Intelligenza? Ne dubiterei, vedendo ora come i migliori periodici rimproverino quasi a chi le mise innanzi le aspirazioni sull'Istria. Riparleremo un giorno, amico mio, di questa trista fase; ma dubito che sarà per consolarcene. Per noi l'occasione, occasione inspe rata, favolosa, unica, è sfuggita. Dispero che la mia vita più basti a vedere esaudito il più caro voto della mia infanzia».

Tristi parole, che rivelano lo sconforto di chi ha ormai perduta la fede nel trionfo della causa alla quale aveva consacrato tutto il suo entusiasmo giovanile.

Ventisei anni dopo Costantino Ressman, divenuto ambasciatore a Parigi, aveva accettati i principi di acquiescente adattamento della politica triplicista, così da non nascondere neppure agli antichi compagni, come al Luciani, la sua decisa opposizione a qualunque forma di propaganda irredentista, ritenuta da lui e da altri, compreso Graziadio Ascoli, pregiudizievole agli interessi nazionali degli italiani della Venezia Giulia. Al Ressman, che nel suo scetticismo si meravigliava di trovarlo sempre animato degli stessi sentimenti e delle stesse speranze, il vecchio patriotta albonese protestava l'incrollabilità della sua fiducia nella redenzione dell'Istria: «In quanto alle speranze sul futuro, non creda ch'io pretenda troppo, ma non posso rinunziare a ritenere che avvenimenti imprevedibili non debbano, presto o tardi, far trionfare una causa si giusta e si utile per l'Italia...»

Il Luciani non rinunciò mai alla sua temperata, ma infaticabile attività patriottica, anche dopo che il movimento irredentista ebbe assunto, dal 1878, nuovo indirizzo e nuovo impulso ad opera specialmente del partito repubblicano, adottando nel Regno e nelle province irredente mezzi più vivaci di propaganda e d'azione. Egli si tenne bensì appartato dal gruppo dei giovani militanti, dedicandosi preferentemente ai diletti studi storici, in particolare alle ricerche d'archivio; ma ogni iniziativa patriottica, ogni manifestazione d'italianità della sua terra trovava in lui pronta adesione e cooperazione. Vecchio moderato di Destra, non isdegnava il contatto degli uomini politici e dei parlamentari più avanzati, come Matteo Renato Imbriani, quando si trattava di giovare alla causa dell'Istria. Lo stesso tragico atto di Guglielmo Oberdan non destò in lui ripulsione e biasimo; anzi egli onorò tosto nel giovine triestino il martire dell' Idea, ammirandone la sublimità del sacrificio. Il 15 novembre 1886, pur declinando l'invito di Riccardo Fabris a collaborare in una pubblicazione del Circolo Garibaldi di Trieste, esprimeva il compiacimento del vecchio milite d'essere ancora vivo nella memoria dei giovani che si preparano all'evento di nuove battaglie. E seguitava: «Fino al '66 ho combattuto anch'io in prima fila, ma siccome ebbi la disgrazia (comune del resto a moltissimi nostri) di non vincere nè morire, così molti hanno creduto e credono ch'io sia stato abborrente dal fuoco.

E sia!.... già d'allora, per legge di natura, sono passato nella seconda, nella terza fila, nella riserva, dove per altro non vivo nell'azio, nè improvido dell'avvenire, chè anzi il mio cuore risponde con tutti i suoi palpiti alle parole pronunziate testé solennemente da Benedetto Cairoli: Fidi nei ricordi, ci troveremo uniti nel caso di nuove battaglie, adempiendo così il testamento dei nostri martiri.»

È ben degna d'ammirazione in Tomaso Luciani, come in tanti altri gloriosi patriotti istriani, questa tenace credenza nel trionfo dell'Ideale, credenza che l'ala del tempo e il cumulo dei disinganni non riuscivano a spegnere né affievolire nei loro cuori. L'amore all'Italia, all'Istria, al paesello natale era la sacra fiamma che il Luciani custodiva in sé gelosamente. Ogni giorno il suo pensiero varcava l'Adriatico e si posava sulla opposta sponda, là dove il Quarnaro ostenta i suoi sorrisi e fa sentire le sue collere. E nel 1892, quasi presentendo la sua prossima fine, volle rivedere ancora una volta i luoghi del suo grande amore e prendere congedo com' egli disse dalle tombe dei suoi avi, per ritornare poi nel tranquillo rifugio di Venezia a morirvi esule in terra italiana.

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