Riccardo Gigante (Fiume, 29 gennaio 1881 – Castua, 4 maggio 1945) è stato un politico, giornalista e imprenditore italiano.
Intrapresa la carriera giornalistica, nel 1907 a 26 anni, divenne direttore del periodico "La Giovane Fiume". Avvicinatosi alle idee dell'irredentismo nel 1915 si arruolò e combatté nel Regio Esercito dove ottenne la Croce di guerra al valor militare. Al termine della guerra ricoprì la carica di sindaco di Fiume (dal novembre 1919 al dicembre 1920), poi, con l'annessione di Fiume all'Italia aderì al Partito Nazionale Fascista (1924) e dal 1930 al 1934 ricoprì la carica di podestà di Fiume. Nel 1934 venne nominato senatore, carica che mantenne fino alla caduta del fascismo. Nel 1937 divenne anche presidente della Società fiumana di navigazione. Dopo la caduta del fascismo aderì alla Repubblica Sociale Italiana e venne nominato nel 1943 governatore della provincia di Fiume, carica che mantenne per 3 settimane. Sul quotidiano fiumano La Vedetta d'Italia assunse posizioni contro la politica di assimilazione forzata operata negli anni precedenti.
Rimasto in città anche dopo l'arrivo dell'armata di liberazione iugoslava, il 3 maggio 1945, venne prelevato dall'OZNA e fucilato il giorno dopo a Castua.
La fossa comune dove è stato gettato, nel bosco di Loza in località Crekvina, è stata individuata nel 1992. La fossa è stata scavata il 4 luglio 2018. Sono state esumate le ossa poi risultate di 8 persone, i resti sono stati consegnati al Consolato italiano di Fiume.
Il 15 settembre dello stesso anno è stata celebrata una messa nella Chiesa parrocchiale di Sant'Elena a Castua dal parroco don Franjo Jurčević in collaborazione con il consolato italiano e la Società di Studi Fiumani. I resti sono quindi tornati in Italia il 20 ottobre 2018 accolte con una cerimonia presso il Tempio Ossario di Udine. Dopo gli esami condotti dai Carabinieri dei Ris di Parma i resti sono stati attribuiti ufficialmente e dopo una cerimonia a Udine del 13 febbraio 2020 i resti sono giunti il 14 dello stesso mese a Gardone Riviera al mausoleo del Vittoriale degli italiani.
Poesia di Marino Micich (maggio 2017).
A Riccardo Gigante e a tutti i caduti senza croce e umana giustizia delle terre istriane fiumane e dalmate
Nella sera si ode l’eco ormai spento dei proiettili,
il tonfo cupo di una granata e poi il silenzio.
Il vento porta cenere da Santa Caterina.
Il monte e il mare
presto torneranno quieti.
Le onde del Quarnaro
disperdono dubbi di interi anni.
La battaglia non ha più forma
e non è nostra la vittoria.
Verso la Torre Civica vanno incontro
i partigiani slavi con la stella.
Scendono guardinghi da Drenova
nella città muta, sgomenta.
Io che studiai la storia e le leggi,
gli usi e i costumi, la lingua avita.
Io Riccardo Gigante, la cui voce
dichiarò forte e decisa
la libertà italiana di Fiume
solo, sconfitto
guardo oltre i vetri delle finestre
senza più speranza, né timore
la città Olocausta.
Come l’Eneo che scorre veloce incontro al mare
dovrò presto cadere,
ritornare al mistero
che ci rende tutti uguali.
La notte impallidisce ovunque
la fredda morte mi cerca.
Battono stivali stranieri le calli
della Cittavecchia,
solo il ferro fa eco al silenzio
voci nell’ombra si rincorrono.
Io che desideravo essere soprattutto uomo di libri,
di arte, di poesia, di storia e di civiltà,
tra breve giacerò nell’umida e nuda terra.
Andrò incontro al mio destino
senza cercar la fuga
orgoglioso mi presenterò
a chi vuol cancellare Fiume.
Armi, divise, corone
della nostra Patria
da tempo ci hanno abbandonato.
Il cerchio degli eventi si sta chiudendo
finalmente scopro la mia sorte,
la forma che Dio
sapeva dall’inizio.
Nello specchio delle prime luci
scorgo il mio volto eterno illuminarsi.
Il calpestio dei passi, le ombre dei mitra
un urlo rivolto alle scale
l’indice puntato
sul mio petto
vogliono me e i fiumani.
Mi spingono lungo le scale
mani ruvide
fin dove si apre la strada.
Siamo forse una decina,
fratelli in un’unica fede
che il piombo e l’acciaio delle lame dilanieranno.
Passano veloci i pochi attimi di vita
camminiamo verso il colle di Castua.
Muti con i volti chini
entriamo nella cittadina.
Lungo le mura diroccate
di una vecchia chiesa
ci fermano rauche voci straniere.
Rimaniamo fermi, in piedi, silenziosi.
Brilla ancora nel cielo qualche rara stella.
I nostri occhi fissi sui carnefici
in attesa della fine.
Un ultimo grido ancora si leva fra noi a salutare l’Italia!
Siamo ancora vivi.
Ecco il primo colpo,
ne segue un altro
e un altro ancora!!
Ecco il duro piombo
a squarciarmi il petto..
Ecco il freddo coltello
conficcarsi nella gola.
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