«Da quando il numero ha determinato il diritto? La sola elencazione delle cifre entra nel campo dell'aritmetica, e non già nel codice, nel diritto, nella politica. L'enumerazione è un argomento che si fa con le dita e non con il cervello e con il cuore. La storia nega quest'aritmetica e l'umanità la respinge».
Con queste parole di Niccolò Tommaseo riportate dal dott. Ivo Rubic nel suo recente libro «Talijani na Primorju Kraljevine Jugoslavije» (Spalato 1930) noi apriamo queste note, che non hanno solo scopo polemico, ma soprattutto vogliono essere richiamo ad una realtà che, per gl'italiani di Dalmazia, ha i precisi contorni di una tragedia. Dalle cifre che ingenuamente ci fornisce il dott. Rubic e dall'esposizione economica ch'egli ci illustra, appare chiaro purtroppo che «le rocce del potere italiano in Dalmazia vanno definitivamente franando». Le file degli italiani si assottigliano, la loro potenza economica si va sgretolando. Il processo di slavizzazione totalitaria della Dalmazia, iniziato dall'Austria nel 1866, accelerato nel ritmo negli ultimi anni che precedettero la guerra, si va concludendo sotto l'implacabile azione dello Stato jugoslavo. Della vecchia gloriosa Dalmazia veneta, Zara è salva, ma ormai quasi tutto il resto è sommerso dalla fiumana che cala dalla Balcania; sole resistono, con disperata volontà di vita, poche oasi a dare, con la loro presenza, un conforto umano al meraviglioso patrimonio artistico, lasciato da Roma e da Venezia, patrimonio che testimonia di una civiltà e di una vita dalmatiche che nessun artificio statistico e nessuna preponderanza numerica varranno a rendere croate, anche se lo scalpello jugoslavo si accanirà con nuovo furore contro gli alati leoni di San Marco. Ma, malgrado il suffragio della statistica, tanto si sente estraneo alla Dalmazia il Regno dei Karageorgevic, che, dopo due millenni, tenta ora di distruggerne l'unità e il nome, spezzandola nei Banati della Primorska, della Savska, della Zetska. Esamineremo diffusamente il libro del dott. Rubic, ma prima d'inoltrarci vogliamo affacciargli un breve quesito: se tanto provato e così pacifico è il carattere assolutamente jugoslavo della Dalmazia, se così infinitesime e trascurabili sono le minoranze italiane in Dalmazia, perchè mobilitare la statistica, disturbare l'aritmetica, riesumare testi, perché sfoderare tutte queste formidabili armi per abbattere il fantasma dell'inesistente italianità dalmata? Questa necessità di difendersi, di attaccare, di documentare, non è forse la migliore dimostrazione che in codesto fantasma vi è ancora molta vita?
L'affanno del dott. Rubic per dimostrare la contradditorietà delle statistiche compilate o citate da scrittori italiani (Giotto Dainelli, Attilio Tamaro, Antonino d'Alia, A. Brunialti e S. Grande, Oscar Randi, Fr. Mussoni, De Michelis, G. Belletti, U. Nani, Mimistero degli Affari Esteri) ci sembra sia male speso, Nessuno di tali autori, nessuna di tali statistiche, vogliono dimostrare che la maggioranza della popolazione della Dalmazia è di nazionalità italiana. Ma tutti i citati autori tendono a dimostrare:
a) che la civiltà della Dalmazia è inseparabile dalla civiltà latina e italica, cioè prima romana e poi veneziana, e che duemila anni di storia confermano la continuità di un tale processo integrativo;
b) che la Dalmazia, tagliata fuori dai Balcani dalle Alpi Bebie e dalle Dinariche, ha vissuto tutta la sua vita sull'Adriatico e la corona delle sue città costiere ha riflesso in pieno la vita e la civiltà dell'Italia, così che tali città, per secoli, ebbero un'impronta italiana;
c) che anche nel periodo napoleonico la Dalmazia aveva istituti e reggimento completamente italiani e che, specialmente dopo il 1866, l'Austria adottò una politica di snazionalizzazione, alle volte sottile, alle volte violenta, ai danni degli italiani, in modo che nel 1914 non restava che un solo Comune in mano agli italiani;
d) che dalle stesse statistiche ufficiali austriache, dal 1865 al 1910, appare alla luce del sole tale opera di disitalianizzazione della Dalmazia, tanto che nel censimento austriaco del 1910 gli italiani di Dalmazia sono ridotti a 18.028 su circa 650.000 abitanti, vale a dire il 3%, mentre nel 1816 su 295.000 abitanti gl'italiani erano quasi 60.000;
e) che la coscienza civile degli italiani di Dalmazia resta documentata da una lotta tenacissima combattuta per oltre mezzo secolo e coronata con il glorioso tributo di sangue dato dai 219 dalmati accorsi volontari nelle file dell'Esercito italiano nell'ultima guerra, i quali lasciarono 20 Caduti sul campo dell'onore;
f) che quattro secoli di dominio veneziano e una secolare continuità di rapporti economici e culturali fra l'Italia e la Dalmazia, diedero a quest'ultima l'aspetto e il carattere di una regione italiana, anche se la maggioranza degli abitatori era di nazionalità slava, e quindi in fatto di diritto era equo non prevalesse la forza bruta del numero sulla forza della storia, dell'arte, dell'economia. della civiltà, fattori indistruttibili nei destini dei popoli, come è dimostrato dalla storia, da quella romana a quella inglese;
g) che, pur essendo una minoranza, sono stati gl'italiani a dare quell'impronta originale, che la distingue da tutte le altre regioni, alla Dalmazia, e non gli slavi.
Ma, d'altronde, e detto per incidenza, sembra proprio al dott. Rubic che la Jugoslavia possa sinceramente farsi paladina del diritto assoluto del numero? Non ha essa forse superato tale concetto nel costituirsi a stato unitario, includendosi regioni prevalente mente abitate da altre nazionalità? Di 4.122.000 abitanti dei territori cedutile dall'Ungheria 1.727.000 sono croati della Croazia-Slavonia, ma nelle rimanenti regioni della Voivodina, dei 2.395.000 abitanti: 1.029.000 sono serbi e gli altri 1.366.000 sono ungheresi e tedeschi. Qui, evidentemente, la teoria del numero non vale, Secondo le stesse statistiche ufficiali jugoslave e sa Iddio solo quanto possano essere giuste, specialmente quelle delia Macedonia dove i bulgari sono addirittura ufficialmente scomparsi! contro un 52% di serbi, un 22% di croati. un 9% di sloveni, vi è un 17% (cioè quasi 2.400.000) di altre nazionalità.
E, tirato su questo terreno, probabilmente il dott. Rubic sosterrà che l'etnografico è un fattore, ma non il solo fattore base, per la costituzione di uno Stato. Altri fattori vi concorrono: l'economia, la storia, la tradizione, la geografia, le necessità militari. E, allora, per la Dalmazia che ha una civiltà, una storia, una tradizione artistica, culturale, economica, prettamente italiane può valere il solo fattore numerico?
A non andare oltre, nei secoli più lontani, vogliamo guardare brevemente, come lo consente la brevità di queste note la Dalmazia dalla caduta della Repubblica di San Marco in qua. E- poichè il dott. Rubic parla di servaggio dei dalmati sotto la dominazione veneta e poichè tace il passato glorioso di Ragusa tutto illuminato da una radiosa luce di latinità premettiamo qualche osservazione e qualche ricordo circa Ragusa e circa l'oppressione del Dominio di Venezia.
Ragusa, dal 1300 al 1800, è la più fiorente aiuola italiana sull'altra sponda dell'Adriatico. Echeggia dei canti che percorrono la Penisola. Ha il diritto romano come base degli ordinamenti politici e sociali, ed il suo statuto è uniformato, fin dal 1272, a quello di Venezia per opera del veneziano Marco Giustiniani. Gli ordinamenti scolastici le sono compilati dal cremonese Giovanni Musoni, che è il rettore delle scuole, e il suo poeta laureato Aelius Lampridius Cerva invoca l'aiuto degli dei perché ritorni in auge la favella dei quiriti, sopraffatta dagli sciti e dagli illiri. Nel 1472 la Repubblica approva la legge secondo la quale tutti gli atti del senato dovevano essere redatti in italiano e, ancora nel 1811, Urbano Appendini pubblicava i poemi latini dei suoi contemporanei «Selecta illustrium ragusinorum poemata».
Affacciata sullo specchio dell'Adriatico, Ragusa riflette fedelmente l'Italia del Rinascimento. Quale conoscenza mirabile della mitologia, dei classici e di Dante nell'abate benedettino Mauro Vetrani, che nel suo «Pellegrino» si studia di imitare la «Divina Commedia»! Con lui Andrea Ciubranovich, il Palmotta, il Giorgi e il sommo Giovanni Gondola, il cantore dell'«Osman» e tanti altri stanno a dimostrare che Ragusa era permeata di tutta la cultura italiana, dalla poesia religiosa ai misteri, dai drammi pastorali ai canti carnascialeschi dell'epoca di Lorenzo il Magnifico. Così erano sorte anche le Accademie: celebre, quella fondata a Vruciza, sulla penisola di Sabioncello, dal poeta Domenico Ragnina e più celebre an cora l'Accademia dei Concordi che aveva la sede a Palazzo Sponza, costruito nel più bel stile del Rinascimento.
E per Ragusa, dalla ancora inedita storia di Ragusa del conte di Zamagna, vogliamo riportare qui l'elenco di tutte le famiglie gentilizie del 1600 per dimostrare, con i nomi, come il patriziato raguseo fosse schiettamente italiano. Ecco l'elenco preciso delle famiglie patrizie di Ragusa, alcune ormai estinte, altre sopravviventi e disperse: Martinis, Luccari, Palmotta, Proculo, Mesti, Bosdari, Prodanello, Paoli, Clasci, Pozza, Giorgi, Magnina, Natali, Volzo, Gondola, Gradi, Bonda, Bucchia, Bona, Slatavich, Caboga, Saraca. Menze, Zamagna, Ghetaldi, Cerva, Sorgo, Gozze, Binciola, Croce, Bassegli, Bobali, Menze, Benessa, Bussignola e Judisi: su trentasei famiglie gentilizie, come si vede, la quasi totalità appare di nazionalità italiana.
Quanto poi a fare un bilancio della dominazione veneta, nei 387 anni che la Serenissima fu signora della Dalmazia, percorra ancora oggi tutta la costa il dott. Rubic e nell'architettura, nella pittura, nella scultura, in tutte le manifestazioni dell'arte, troverà tanto patrimonio di Venezia in Dalmazia che gli jugoslavi non hanno prodotto nè, forse, produrranno mai. E in quattro secoli i dalmati, combattendo sotto il gonfalone di San Marco, dimostrarono una fedeltà e un amore ormai acquisiti alla storia. E, sebbene superflua, vogliamo aggiungere soltanto qualche citazione e ricordiamo che già nel 992 de città dalmate confederate invocano, contro i pirati della Narenta, la protezione della Serenissima. Il doge Orseolo II li debella e, a premio, il Senato gli conferisce il titolo onorifico, per lui ed eredi, di doge di Venezia e di Dalmazia. Giuseppe Modrich: La Dalmazia Edizione L. Roux e Co., 1892: «Spalato fiorì sotto il dominio veneto. Vi faceva capo il commercio con le Indie e con la Persia. La città si estese sensibilmente e molte nobilissime famiglie venete vi presero stabile dimora. Anche oggidì i discendenti di quel le famiglie ne formano il fiore intellettuale». (Idem, Ibidem. Siamo nel 1892 e scrive uno scrittore che è tutt'altro che un nazionalista italiano). Si potrebbe continuare, ma basta ricordare ancora le manifestazioni di dolore avvenute in tutta la Dalmazia alla caduta della Repubblica per avere un'idea di quanto Venezia aderiva all'animo dei dalmati e quanto fosse amato il «servaggio» veneziano.
«Quando, dopo il Trattato di Campoformio, la Dalmazia fu costretta ad abbassare ie bandiere di San Marco, in molte città esse furono portate in processione nelle chiese. Gli Austriaci assistettero commossi a dimostrazioni di tanto affetto, e fecero bene a lasciare al governo delle città quegli stessi Conti veneti che dirigevano la cosa pubblica sotto la Serenissima. A Zara il ritiro del vessillo di San Marco avvenne il 10 luglio 1797 fra il pianto e i singhiozzi dei militi e di grande quantità di popolo. A Perasto, il 22 Agosto di quell'anno, il comandante della fortezza, un dalmata, consegnata la piazza al generale austriaco Rukavina, portò il gonfalone di Venezia in chiesa, lo chiuse in una cassetta, e lo pose poi come una reliquia sotto l'altare maggiore parlando ai presenti in modo da farli lagrimare. (A. d'Alia: «La Dalmazia». 1928). E, dopo mezzo secolo, nel 1848, a Daniele Manin, a Venezia, si presentano giovani dalmati a offrire ii loro sangue per il Leone di San Marco. Tanto fu forte l'azione di Venezia sulle popolazioni dalmate, da attrarne dopo cinquant'anni dalla caduta della Repubblica, i giovani alla sua difesa.
Dopo un breve periodo di occupazione austriaca, i Francesi oсcupano alla lor volta la Dalmazia, nel 1806. Il generale francese Dumas, in nome di Napoleone, lancia ai Dalmati il seguente proclama:
«Dalmati! L'Imperatore Napoleone, Re d'Italia, vostro Re, vi rende alla vostra Patria. Egli vi ha fissato i vostri destini: il Tratato di Presburgo garantisce la riunione della Dalmazia al Regno d'Italia. «Bravi dalmati, compite i vostri destini, riprendete il vostro rango, quello degli avi vostri fra le Nazioni, mostratevi fedeli alla Patria comune, zelanti al servizio del vostro Sovrano, sottomessi alle leggi sotto le quali Egli ha riunito i popoli d'Italia come membri di una sola famiglia; mostratevi degni di essere calcolati nel numero dei figli di Napoleone».
Dopo quattro secoli di dominio veneto. Napoleone e i francesi nella Dalmazia ritrovavano il volto dell'Italia e al Regno d'Italia la rendevano. Il carattere nazionale e l'aspetto della Dalmazia, evidentemente, non lasciavano dubbi.
Nel 1815 la Dalmazia ritorna sotto il dominio austriaco, e vi resta sino al 1918. È il secolo più drammatico per gl'italiani di Dalmazia. Dopo un periodo di stasi, che durò sino alla battaglia di Lissa, si inizia la grande offensiva contro l'italianità della Dalmazia. I comuni cadono uno dopo l'altro; le scuole si slavizzano; la lingua italiana viene bandita dagli uffici; gl'italiani, uno alla volta, sono sfrattati dal Parlamento; il numero degli italiani decresce anno per anno.
Dopo la battaglia di Lissa e la perdita del Veneto data in modo cronologicamente esatto l'inizio della lotta antitaliana, sul finire del 1866 l'Austria si convinse che, per troncare ogni velleità irredentista dell'Italia sull'altra sponda, conveniva snaturare il carattere nazionale della Dalmazia. In quest'azione trovò alleati spontanei alcuni fattori naturali: il risveglio della coscienza nazionale degli slavi; il fenomeno urbanistico che attirava un numero sempre maggiore di campagnoli slavi nelle città ancora italiane; la lotta di classe, predicata dai socialisti, che metteva in conflitto le masse rurali prevalentemente slave contro i proprietari italiani, dando luogo ad uno strano miscuglio psicologico classista e nazionale. Il progressivo allargamento del suffragio elettorale al Parlamento, alla Dieta, nei Comuni, portando un poco alla volta le masse slave rozze ed analfabete ad un livello di parità politica con la minoranza italiana, intellettualmente ed economicamente assai più elevata, veniva. poi, nelle elezioni, in forma costituzionale e legalitaria, a soffocare gl'italiani. Il suffragio universale nel 1907, infatti, segna la fine della rappresentanza dalmata al Parlamento di Vienna.
Ma se l'Austria trovò questi fattori naturali ad aiutarla nella sua azione disitalianizzatrice, è fuori d'ogni dubbio ch'essa e soltanto essa volle, promosse, diresse la lotta contro l'italianità, così come tentò di distruggerla a Trieste, a Gorizia, nell'Istria, dove non ebbe l'aiuto di fattori così decisivi e dove non trovò terreno così favorevole. A sfatare la leggenda del dott. Rubic che l'Austria imperiale fosse così feroce nemica degli slavi e cosi tenera protettrice degl'italiani basterebbe un fatto solo: l'offerta della intera sua flotta, fatta il 10 Novembre 1918, alla Jugoslavia pur di sottrarre la flotta stessa all'Italia vittoriosa.
Ma guardiamo appunto attraverso alle cifre, tanto benvolute dal dott. Rubic, questa progressiva azione distruttrice dell'italianità dalmatica. Prendiamo per buone, sin dall'inizio, quelle austriache, certi che saranno sfavorevoli agl'italiani. E aggiungiamo, alle molte dell'Autore, una sola citazione ad avvalorare la veridicità dei dati del censimento austriaco del 1865, cifra di partenza. A. A. Schmidl in «Koenigreich Dalmatien» (Stuttgart, 1842) su una popolazione della Dalmazia di 375.000 anime dà 320.000 slavi e oltre 40.000 italiani. Non dovrebbe essere una testimonianza sospetta, questa dello Schmidl, anche perché non manifesta alcuna simpatia speciale per gl'italiani. Ora, com'è possibile che, per un fenomeno puramente naturale, i 320.000 slavi del 1842 salgano a 610.000 nel 1910, e nello stesso periodo gl'italiani da 40.000 scendano a 18.000?
Prendiamo dal Dainelli («La Dalmazia», Novara, 1918) i dati dei censimenti ufficiali austriaci dell'ultimo mezzo secolo:
La decrescita degl'italiani è sintomatica. (Notiamo che il miglioramento riscontrato all'ultimo censimento è da ascriversi all'opera intensificata della Lega Nazionale). Per una strana coincidenza, la decrescita degli italiani è accompagnata da alcuni altri sintomatici avvenimenti. Un decreto del Governo austriaco dell'8 Novembre 1866 trasforma numerose scuole dalmate da italiane in croate. Un altro decreto austriaco, del 10 Dicembre 1866, obbliga gl'impiegati della provincia alla conoscenza della lingua slava. Comincia, poi, il crollo dei Comuni: quello di Gelsa cade in mano dei croati nel 1868. Nel 1873 viene abbattuto il Comune di Sebenico che, tra violenze e soprusi d'ogni genere, cade in mano degli slavi. Nel 1875 cade il Comune di Curzola; nel 1876 agli italiani viene strappato il Comune di Signa; Ragusa cadde nel 1878; nel 1881 cade Traù; nel 1882, fra violenze inaudite e con la minacciosa presenza di navi da guerra austriache in porto, cade il glorioso Comune di Spalato fieramente difeso da Antonio Bajamonti; Lissa cade in mano degli slavi nel 1886 e nel 1887 cade Cittavecchia. Nel giro di meno di vent'anni nove Comuni i principali della Dalmazia passano da un'amministrazione italiana ad un'amministrazione croata. Resiste sola Zara. È forse cambiata la fisionomia di queste città? Vediamo, ad esempio, cosa scrive in un viaggio nel 1892 Giuseppe Modrich, nel suo libro sulla «Dalmazia», di Signa: «Avvicinando alcuni cittadini e frequentando i loro ritrovi mi sorprese che, in quell'ambiente prettamente morlacco, tutti parlassero a preferenza l'italiano. Conoscono anche lo slavo, e benissimo; ma non lo adoperano nei rapporti sociali». Non siamo alla costa, siamo a Signa, in Morlacchia, sedici anni dopo che il Comune è in mano degli slavi! Riportiamo quanto scrive lo stesso Giuseppe Modrich, sempre nel 1892 cioè dieci anni dopo che il Comune di Spalato è caduto in mano dei croati dell'ultimo podestà italiano di Spalato, Antonio Bajamonti: «La ferrovia, l'acquedotto dioclezianeo ricostruito, le Procuratie, la riva nuova, la diga che tutela il porto, la fontana monumentale di fronte al suo palazzo, lo ricorderanno ai posteri perpetuamente, siccome un Figlio, prodigo sì, ma innamorato della sua Spalato. Ne resse, par oltre un ventennio, i destini in qualità di borgomastro. C'era un'epoca che a Spalato, specie nei sobborghi, lo adoravano addirittura (Si vede, dott. Rubic, che la dittatura degli italiani nei Comuni dalmati non era poi tanto odiata! N. d. R.). E l'anno scorso, quando morì, migliaia di popolane piansero e pregarono sul suo feretro come dinanzi alle reliquie di San Doimo, il protettore della città. Fu un lutto sincero e generale. Lungo la marina sfilò il corteo funebre, degno di un principe benefico, di un somme personaggio storico. A parte le lotte politiche e i motivi che le inaspriscono, io, quando riveggo Spalato, dopo la morte del dott. Bajamonti, mi sembra che nell'ambiente cittadino manchi qualcosa: vi manca la sua figura geniale». Da ciò si può anche dedurre che, se l'Austria non avesse sciolto il Consiglio comunale di Spalato nel 1879 e non vi avesse mantenuto per tre anni un commissario imperialregio a preparare il varo di una maggioranza croata, il Comune di Spalato nel 1882 sarebbe rimasto, quasi certamente, in mano degli italiani. Altro che partigianeria austriaca per gl'italiani!
Di pari passo con la perdita dei Comuni, procedevano le perdite degli italiani nella rappresentanza al Parlamento di Vienna e alla Dieta di Dalmazia. Di nove deputati assegnati alla Dalmazia, con la legge del 1873 a suffragio diretto, il partito italiano fino al 1879 ne ebbe 5. Nelle elezioni politiche del 1879, però, grazie alle illegalità e alle irregolarità tollerate e aiutate dal Governo austriaco, i croati ottennero otto mandati e agl'italiani rimase un solo deputato, il conte Bonda di Ragusa. Così, nel giro di pochi anni, agli italiani, che avevano la maggioranza dei 15 deputati dietali, nel 1900 non rimanevano che sei seggi: Ziliotto, Ghiglianovich, Salvi, Krekich , Pini e Smerchinich.
Dal 1866 data pure la progressiva disitalianizzazione delle Scuole. Nel 1861, su 157 scuole elementari in Dalmazia, 9 erano italiane, 125 bilingui italo-slave, 23 croate. Eccetto che a Zara, nel 1914 non esistono in Dalmazia che le poche scuole elementari italiane mantenute dalla Lega Nazionale. Delle scuole medie, il ginnasio di Ragusa viene croatizzato nel 1868, quello di Spalato nel 1880. Sempre per...favorire gl'italiani, il Governo austriaco nel 1897 concede un ginnasio croato a Zara, dove gli slavi sono trascurabile minoranza. Anche nel campo religioso nel quale si predicava, a Spalato e a Sebenico, in italiano sino al 1911 e al 1912 la lingua italiana viene bandita. Dagli uffici pubblici viene, infine, adottata la lingua croata come lingua d'ufficio nel 1909. Il processo di disitalianizzazione della Dalmazia, iniziato con precisione matematica subito dopo Lissa, favorito con chiara evidenza dall'Austria, aiutato da innegabili fattori naturali e generali quali il risveglio del sentimento nazionale slavo e la democratizzazione degli ordinamenti pubblici austriaci, è compiuto quasi totalmente.
Salva Zara, appare chiaro dalle cifre e dai dati pubblicati dal dott. Rubic che la distruzione degli italiani nel resto di Dalmazia è assai vicina.
Vedremo ora le elaborazioni statistiche del Rubic. Facciamo una premessa, Gl'italiani, dei quali parleranno le sue cifre, non sono più, in un senso, politico e giuridico, italiani autoctoni. Sono tutti cittadini italiani, cioè o già regnicoli o ex cittadini austriaci che hanno optato per l'Italia. Sono, in pratica, cittadini «esteri» privi d'ogni diritto politico nello Stato in cui vivono. La personalità giuridica dell'italiano che possa svolgere una attività «politica» nella Dalmazia jugoslava è scomparsa.
Gli italiani sono nuclei esteri, anche se nati da famiglie vissute da secoli sul posto che vivono come colonie senza possibilità di partecipare con l'adesione o con l'opposizione, senza aderire in alcun modo, allo Stato in cui vivono. C'è da domandarsi se il Trattato di Rapallo che giuridicamente ha divelto dalla Dalmazia ogni arboscello di vita politica italiana non è stato esiziale agl'interessi italiani anche da tale punto di vista. Che cosa ha risolto in favore degl'italiani autoctoni di Dalmazia la facoltà di opzione per l'Italia? Che, quelli che non hanno optato sono divenuti jugoslavi a tutti gli effetti e tali sono considerati, mentre coloro che hanno optato, sono oggi politicamente e giuridicamente stranieri a casa propria e in nessun modo possono influire sullo Stato in cui vivono. E non per ciò sono meno odiati e meno osteggiati dagli slavi, come è dimostrato dal costante esodo di proprietà e persone, quasi tutti autoctoni e non ex-regnicoli.
Una tutela e una garanzia di vita come minoranza nazionale nel nesso dello Stato jugoslavo, forse, avrebbe assai di più giovato alle possibilità di vita italiana in Dalmazia, la quale avrebbe se non altro potuto mantenere vive quelle correnti culturali e artistiche che, nel passato, tanto giovarono ad entrambi i popoli. E' invece un po' difficile «giuridicamente» sostenere che esista, nelle attuali condizioni, una minoranza italiana in Dalmazia.
Fatta questa considerazione, esaminiamo le statistiche compilate dal dott. Rubic, statistiche ch'egli assicura matematicamente esatte. Scrive, egli, dunque: «Secondo la posizione del 1.0 giugno 1929 ci sono in tutto sulle nostre sponde 5.609 italiani e secondo la posizione del 1.0 giugno 1930, soltanto 4.900, perchè nell'ultimo anno sono emigrate 709 persone. Di fronte alla totale popolazione delle nostre sponde che contano 764.699 abitanti, gl'italiani rappresentano 0.64%.
Considerando gli agglomeramenti maggiori, secondo il numero assoluto, vedremo che essi superano i 100 abitanti in queste città:
Negli altri luoghi, non giungono agli 80.
Se consideriamo gl'italiani nei singoli luoghi in proporzione con gli jugoslavi, i loro agglomeramenti cambiano d'aspetto:
Qui ho enumerato soltanto quei luoghi, dove gl'italiani arrivano fino al 2% in relazione con gli jugoslavi; non ho menzionato i luoghi sotto il 2%. Il loro numero risulta dalla statistica annessa.
Considerando il numero assoluto, si vede che Spalato è la sola città, ove ci sono agglomerati più di 1.000 italiani; al secondo posto viene Veglia e poi Sussak. I numeri relativi parlano diversamente. Mettiamo vicine a queste alcune tabelle statistiche dei censimenti ufficiali austriaci, per intelligente paragone.
Riportiamo ora i risultati di quattro censimenti dal 1880:
Malgrado gl'italiani non sieno in alcun modo trattati male, non sieno boicottati, non sieno perseguitati, essi emigrano e vendono le proprietà. Chi sa mai, perché. Il quadro di questo esodo è quanto mai triste per noi italiani. Sulla vendita continua di terre d'italiani, scrive il Rubic:
«Dopo il crollo dell'Austria, i latifondisti italiani, desiderosi di emigrare da questa sponda e di andare in Italia, cominciarono a vendere i loro possedimenti agli jugoslavi. Qui ricordiamo soltanto i nomi più conosciuti di ricche famiglie italiane che hanno venduto del tutto o in parte i loro beni immobili in Dalmazia.
Nella città di Veglia gl'italiani hanno venduto 21 case con terreni, mentre nel resto del Litorale settentrionale non hanno venduto possedimenti. In quella zona ci sono pochi grandi possedimenti.
Si caicola che nel 1921 ci fossero in Dalmazia 600 italiani che possedessero terreni. 55 di questi 600 avevano grandi possedimenti da 50 a 150 ettari. Il loro possesso complessivo comprendeva circa 11.000 ettari coltivati e 12.000 ettari non coltivati. Coltivavano in propria regia circa 2000 ettari, mentre il resto era stato dato ai coloni che secondo il patto colonico davano ai proprietari parte delle entrate in natura».
Secondo il Rubic nei dintorni di Zara (dunque intorno a Bencovazzo, Obrovazzo e Nona) hanno venduto terreni ad jugoslavi i seguenti cittadini italiani:
Maria Bakmaz, maritata Foresi a Firenze, ha venduto fra il 1918 e il 1928 circa 160 ettari (1.600.000 m²) di terreno, e le restarono ancora 20 ettari di terreno. Essa ha dunque venduto 1'80% del suo possesso. Giovanni Barbalich ha venduto circa 10 ettari (100.000 m²) di terreno, e gli sono rimasti ancora 20 ettari (200.000 m²), dunque il 66%. Antonio Perlini ha venduto circa 20 ettari (200.000 m²) e gli restano ancora circa 15 ettari (150.000 m²), dunque il 60%. Il conte Begna in tutto circa 15 ettari (150.000 m²). Ha venduto in tutto il 2% della sua tenuta. Antonio Sala ha venduto circa 20 ettari di arativo (200.000 m³), ossia il 66% di tutta la sua tenuta. Bakmaz ha venduto 100 ettari (1.000.000 m²) di terreno, ossia il 10%. Il nobile Hoberth ha venduto circa 1 ettaro (10.000 m²). E' interessante il caso di Remigio cav. Trigari fu Nicolò, morto quest'anno a Zara. Con il suo testamento del 10-XII-1929, completato da 4 codicilli, egli lasciò in proprietà ai suoi contadini, sudditi jugoslavi, tutte le terre di sua proprietà. Questa tenuta ha la superficie di 120-150 ettari (1.200.000-1.500.000 m²), ossia il 96% dell'intero possedimento. Nel distretto di Oltre, gl'italiani hanno venduto questi terreni: De Vergada Giovanni-Damiani 8.35 ettari (83.500 m²), ossia il 60% dell'intera tenuta; Salghetti ved. Savina 27.35 ettari e 93 m² (273.593 m²), ossia il 50% dell'intera tenuta; De Ponte Carlo 95.99 m² (9599 m²), ossia il 15% dell'intera tenuta; Artale Giuseppe Spirin 13.99 m² (1399 m²) ossia il 2%; Dunatov Carlo 5.39.26 m² (53.926 m²), ossia il 35%; Nakich Giorgio 143 m²; Salghetti-Drioli Simeone 10.125 m², ossia il 50%; Filippi Alessandro 390.000 m², ossia l'intera tenuta; Bosich Giorgio fu Elia 94,436 m², ossia il 15%; Cattich Bianca ved. Sime 1016 m²; la fondazione Zmajevic 958.207 m²; Petricioli Augusto 28.356 m², ossia il 60% della tenuta. Inoltre gl'italiani hanno ven duto ad jugoslavi soltanto a Oltre 4 case con orti. Gl'italiani hanno venduto dunque a cittadini jugoslavi nei dintorni di Zara in tutto 7.214.298 m².
«La maggior parte di piccoli possedimenti continua testualmente il Rubic sono stati venduti dai cittadini italiani ai nostri cittadini nei dintorni di Sebenico. Ecco una tabella dei terreni venduti.
Gl'italiani dunque nei dintorni di Sebenico hanno venduto in tutto ai nostri cittadini 1.293.800 m² (ossia 1 chil., 29 ettari, 38 are). Inoltre sono emigrati dalla città molti esercenti italiani.
A Traù ha venduto più di tutti la famiglia de Fanfogna, e precisamente 5 ettari e 33 are (53.300 m²).
Nei dintorni di Spalato hanno venduto terreni le seguenti famiglie italiane: Tacconi 36 are 40 m² (364 m²); De Micheli-Vitturi 1 ettaro, 25 are 56 m² (12.556 m²); Jelicic-Martinis-Marchi 200 ettari (200.000 m²); Burich 30 ettari 65 are 3 m² (306.503 m²); Capogrosso- Cavagnin 1 ettaro 43 are 26 m² (14.326 m²); Pezzoli 2 ettari 43 are 41 m² (24.341 m²); Pezzi 5 are 62 m² (562 m²).
Nelle isole della Dalmazia centrale gl'italiani hanno venduto meno terreni. Nei dintorni di Spalato gl'italiani hanno venduto ai nostri cittadini in tutto 2.415.228 m² (ossia 2 chil., 41 ettari, 52 are, 28 m²).
A Curzola le famiglie Smerchinich hanno venduto circa 230 ettari di terreno (2.300.000 m², mentre i Benussi hanno venduto circa 20 ettari (200.000 m²).
Nei dintorni di Ragusa i cittadini italiani hanno pochi terreni. La famiglia Mayneri, la sola e la più ricca, ha venduto circa il 2% della tenuta di Zupa (circa 59 ettari ossia 590.000 m²). Nemmeno nelle Bocche di Cattaro i cittadini italiani posseggono vasti terreni. Nella Dalmazia meridionale hanno dunque venduto 3.090.000 m² (ossia 3 chil ., 9 ettari). Secondo i dati citati, i cittadini italiani hanno venduto sulla nostra sponda in questi dieci anni 14.013.326 m² (ossia 14 chil.", 1 ettaro, 33 are, 26 m²), ed è rimasto loro ancora circa il 2% dell'intero patrimonio terriero in Dalmazia».
Continua poi il Rubic:
«E mentre gli optanti vendono le loro tenute, i regnicoli dalla Italia ritirano i loro capitali dalle loro maggiori imprese sulla nostra sponda. Così nell'ultimo anno hanno venduto la «Sufid» ai Francesi, abbandonando le imprese che avevano a Gubaviza, a Dugi Rat e a Sebenico; in base a contratto dovranno cedere la centrale elettrica sulla cascata del Cherca ai fratelli Supuk di Sebenico e la miniera «Promina» non viene più sfruttata come prima. Invece del capitale italiano affluisce il capitale francese che viene investito nella «Dalmatienne» (impresa del cianocarbido) e nel bauxite. Così decresce il numero e il capitale degli italiani».
Il quadro è veramente triste. Tanto più triste perché in Dalmazia, sotto la patina demografica slava, ancora al finir della guerra v'erano latenti tutte le possibilità di un risveglio italiano. Perché la croatizzazione era solo alla superficie. Quanto possono essere croati i de Borelli, famiglia bolognese residente in Dalmazia dalla metà del '700, quanto i Tartaglia, d'origine toscana, quanto i Bian hini, marchigiani, quanto i Bressan, i Dominis, i Grisogono, i Tommaseo, i Mladineo, i Fabris, i Lupis? Quanto possono essere croati i nipoti, i figli, dei migliori patriotti italiani? Quanto, tutti gl'italiani che, attraverso il filtro delle scuole slavizzate, sotto la costante pressione di fattori economici e morali, prigionieri delle necessità della vita, sono stati, forzosamente o spontaneamente, snazionalizzati? Sarebbe bastato che un'occupazione italiana avesse dato l'ossigeno italiano necessario, perché in un decennio l'italianità costiera della Dalmazia fosse nuovamente rifulsa alla luce solare. L'attuale. situazione sarebbe capovolta. Ma sono inutili tutte queste considerazioni a quindici anni dal fallito Patto di Londra e a dieci dal Trattato di Rapallo. Meglio è vedere la situazione così com'è e lasciare all'avvenire la definitiva parola sul peso che ancora potrà avere la Dalmazia nel destino dei due popoli.
E diamo, per concludere nuovamente uno sguardo alle varie tappe della Dalmazia nell'ultimo secolo di sua storia.
1797. Dominio Veneto. Reggimento della cosa pubblica, istituti, scuola, economia, totalmente italiani. Popolazione, su circa 280.000 abitanti, italiani 60.000 circa, cioè oltre il 20%.
1806. Provincia del Regno d'Italia, con Napoleone Re d'Italia. Reggimento provinciale, Municipi, scuole, tutto italiano. 1815. Regno di Dalmazia, Provincia dell'Impero d'Austria. Amministrazioni provinciali e comunali, scuole, ordinamenti, tutto italiano.
1865. Idem. Dieta in maggioranza italiana. Italiani i dieci comuni principali: Zara, Spalato, Sebenico, Ragusa, Traù, Lissa, Curzola, Signa, Cittavecchia, Gelsa. Lingua d'uso degli uffici, ita liana. Scuole medie, tutte italiane. Scuole elementari, 9 italiane, 125 italiane-slave, 23 slave. Popolazione: slavi 384.180, italiani 55.020, cioè il 12.5%.
1866. Idem. Inizio dell'azione disitalianizzatrice. 1910. Idem. Undici deputati, tutti slavi. Dieta Provinciale, 39. slavi e 6 italiani. Tutti i Comuni agli slavi, eccetto Zara. Tutte le scuole della Provincia e dello Stato, slave. Lingua d'ufficio, slava. Popolazione 610.669 slavi, 18.028 italiani, cioè il 2.8%.
1929. Zara all'Italia. Il resto della Dalmazia alla Jugoslavia. Scomparsa ufficiale del nome di Dalmazia. Gl'italiani divenuti colonia straniera nel Regno jugoslavo e ridotti a 4900, cioè a 0.64% dell'intera popolazione. Progressiva espropriazione volontaria delle proprietà italiane a favore degli slavi, progressiva scomparsa dell'influenza economica e culturale italiana.
In 132 anni una regione che aveva volto e animo italiani, e caratteristiche sue proprie che da ogni altra regione la distinguevano, nazionalmente è pressochè livellata dal rullo balcanico. Sventola solo su Zara, la bella e indomita capitale della Dalmazia, il tricolore d'Italia, ma la luce di Venezia sale da tutte le città e da tutte le castella dalmate a rompere la nebbia grigia del numero che mai riuscirà a soffocare il lume della civiltà, perché ripetiamo con Niccolò Tommaseo «la sola elencazione delle cifre non può creare il diritto».
Ma giacchè siamo indotti a scrivere queste note sulla pubblicazione del dott. Rubic che, osserviamo per incidenza, anche lui rifugge dall'usare il nome di Dalmazia sin nel titolo, perocchè chiama il suo libro «Gl'Italiani nel Litorale del Regno Jugoslavo» e giacchè l'Autore vuole imprigionare in una ridda di statistiche e in una selva di freddi numeri ogni possibile diritto italiano sulla Dalmazia, vogliamo aggiungere, anche noi, alla chiusura di queste note, qualche cifra.
Cifre che sanno di sangue e di sacrificio e che comprovano come, accanto agli incomparabili documenti dell'arte e della civiltà, allo scoppiar della guerra vi era ancora in Dalmazia una passione umana capace del massimo sacrificio, passione certo non morta nonostante il soverchiare delle maggioranze. Diamo qui appresso l'elenco dei volontari dalmati, divisi per località, accorsi nelle file dell'Esercito italiano durante l'ultima grande guerra. E' un plebiscito anche questo, e di altro valore che i plebisciti elettorali fatti all'ombra dei gendarmi austriaci o serbi:
Sono 219 giovani accorsi a dimostrare col sangue la fede italiana dei dalmati. Di essi, sono morti per l'Italia e la Dalmazia:
Benevenia Menotti, Codognato Francesco, Croce Egidio, Croce Renato, Fabbrovich Ferruccio, Fiorentino Beniamino, Kraglievich Mirando, Kraglievich Roberto, Lana Umberto, Linz Gregorio, Rismondo Francesco, Stefanini Pietro, Stojan Spiridione, Streinz-Sereni Giovanni, Tommaseo-Ponzetta Antonio, Vucassovich Riccardo, Zink Cornelio, Zink Ezio, Zongaro Giacomo, Zongaro Umberto. In fatto di statistiche, converrà il dott, Rubic che queste cifre e questi nomi hanno un valore documentario ben alto: assai più alto della fredda elencazione di numeri, sia pure assai cospicui, sulla lingua d'uso sulla nazionalità dichiarata. E' il suggello del sangue, questo, che gli italiani di Dalmazia vollero dare ad una lotta semisecolare, tutta soffusa di un'eroica bellezza e che non ha riscontro nelle lotte nazionali di nessun altro paese. Lotta nazionale che come lo attesta anche l'affanno dello scrittore jugoslavo la storia non ha ancora passato all'archivio.
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