mercoledì 8 novembre 2023

Gino de Finetti

Figlio dell'ingegner Giambattista, di antica e nobile famiglia di Gradisca, e di Anna Radaelli, padovana, nacque a Pisino d'Istria il 9 agosto 1877, mentre il padre sovrintendeva alla costruzione della ferrovia di Pola. La professione paterna condusse in seguito la famiglia a Tarvisio, Vienna, Gorizia, Innsbruck e, dal 1884, a Trieste. Qui, de Finetti, che aveva mostrato fin da bambino propensione per il disegno, frequentò ginnasio e liceo, esercitandosi nel contempo nell'illustrazione e nei disegni satirici. Cominciò anche a frequentare lo studio dei pittori Scomparini e Zuccaro.

Sovente in questi anni egli trascorreva le vacanze nelle numerose proprietà della famiglia in Friuli (Gradisca, Latisana, Udine), dove restava affascinato dai nobili e begli edifici e dalla dolcezza del paesaggio, ma dove aveva anche la possibilità di sviluppare il suo interesse per i cavalli, fin dagli anni giovanili uno dei soggetti preferiti delle sue opere. È anche di questi anni la "scoperta" dei Tintoretto, che rimase poi un modello grandemente amato e perennemente stimolante.

Terminati gli studi liceali, nel 1895 si iscrisse all'accademia di Monaco, ove scelse il corso di pittura di Zúgel, noto soprattutto come animalista e convinto pleinairista. Per quanto de Finetti si sottraesse abbastanza presto alla troppo forte personalità del maestro, è indubbio che la frequentazione del corso abbia contribuito ad accentuare ulteriormente in lui l'interesse per i cavalli, anche se via via questo si andò configurando sempre più come un aspetto particolare dell'interesse più generale verso la rappresentazione del movimento.

L'istintiva vena ironica e la feconda pratica della caricatura lo portavano intanto a prediligere, nella rappresentazione, il momento della sintesi, della riduzione all'essenziale. Coerentemente con questo indirizzo, terminato il servizio militare, de Finetti decise di stabilirsi a Monaco, dove si dedicò al cartellonismo e divenne uno dei più importanti collaboratori di riviste satiriche come Simplicissimus e Jugend. Tali impegni, oltre a renderlo economicamente indipendente, rispondevano ad una scelta programmatica, come ebbe a precisare l'artista stesso più tardi in una sua confessione.

Si trattava insomma per il de Finetti di risolvere il problema di un'arte sempre più avulsa dal mondo reale, sempre più cerebrale e atrofizzata, sempre meno capace di riflettere la vita contemporanea con semplicità e naturalezza. La soluzione si trovava nelle arti illustrative, nel cartellone, portavoce modesti, ma schietti di questa vita moderna così tumultuosa.

Nel 1904 accettò di trasferirsi a Berlino come collaboratore degli editori Ullstein e Scherl. Per quanto il clima berlinese gli si rivelasse ben presto meno congeniale di quel che avesse sperato, qui lavorò intensamente, ideando copertine di riviste e libri e collaborando, con illustrazioni e vignette, a importanti periodici quali Berliner Illustrierte Zeitung, Lustige Blaetter e Dame. A Berlino ebbe anche modo di conoscere direttamente alcune opere di impressionisti francesi, conoscenza che approfondì nel 1905 durante il suo primo viaggio a Parigi. Furono inoltre fondamentali, per le sue ricerche sul movimento, Degas e Toulouse-Lautrec, come pure Géricault e Delacroix.

Rientrato a Berlino, proseguì nel suo lavoro di cartellonista (è datato 1905 un famoso manifesto per il Torneo internazionale di scherma di Trieste) e di illustratore.

Nel 1911 ritornò a Parigi e probabilmente lavorò come costumista per il balletto Petruška su musica di Stravinskij, messo in scena dalla compagnia dei Ballets russes di Djagilev. Anche se in seguito le scene e i costumi furono tutti firmati da A. N. Benois, rimangono del de Finetti alcuni oli e alcuni schizzi di ballerine e personaggi del balletto, e in particolare un Arlecchino all'acquerello del 1911-12, sul retro del quale c'è una nota autografa relativa alla collaborazione con Djagilev per Petruška. Di nuovo a Berlino, dove allora gli espressionisti andavano realizzando importanti esperimenti in campo cinematografico e teatrale, l'artista ideò bozzetti scenografici e manifesti per la casa cinematografica tedesca U.F.A., ma soprattutto si accostò all'ambiente teatrale grazie al decisivo incontro con Max Reinhardt. Tale ambiente gli fornì numerosi soggetti per le sue opere di piccolo formato (disegni, litografie, anche oli), ma gli diede pure la possibilità di por mano a lavori di più ampio respiro: gli fu affidata infatti la decorazione di vari teatri berlinesi, come il Lessing Theater, il Deutsches Theater e il Wellner Theater.

Nonostante che si fosse stabilito ormai definitivamente a Berlino, dove nel 1911 aveva sposato Martha Bermann, originaria di Hannover, e dove aveva aperto uno studio, e per quanto la sua opera ottenesse sempre maggiori riconoscimenti da parte della critica tedesca, de Finetti continuò ad avere contatti con l'Italia. Infatti la sua attività espositiva, che divenne via via sempre più frequente in Germania, Polonia, Olanda, comprese sempre anche l'allesfimento di mostre personali o la partecipazione a esposizioni collettive in patria.

Ricordiamo da un lato la sua presenza alle esposizioni della Secessione berlinese nel 1906 e poi costantemente dal 1912 al 1933, e l'allestimento di mostre personali a Berlino, Amsterdam, Düsseldorf, Stoccarda, Varsavia, Parigi; dall'altro lato la partecipazione alle Biennali veneziane dei '20, '24, '28, '32, '34 e ancora nel 1953, alle Sindacali triestine dal 1925 in poi, alla Mostra sul Novecento italiano a Milano nel 1928, alla Quadriennale romana nel 1931. Nel 1924 riscosse notevoli consensi la sua personale alla "Bottega di poesia" di Milano, presentata da Carlo Carrà, come pure, nello stesso anno, la personale al Circolo artistico di Trieste.

Si faceva conoscere anche con la pubblicazione in Italia di cartelle di stampe, come Ritmi (10 litografie con Arlecchini, ballerine, cavalli, pugili, ecc.), Corse al galoppo (12 acqueforti) e In sella (ancora 10 litografie), oltre che con la sempre più intensa attività di cartellonista di soggetto sportivo (ippico in particolare) e persino di disegnatore di figurini di moda, in cui non di rado fungeva da modella la bella moglie.

Nel 1934, come conseguenza dell'avvento dei nazismo, i coniugi abbandonarono la Germania e si stabilirono nella vecchia dimora di Corona (Gorizia), dove, nonostante la vita piuttosto schiva e appartata, l'artista proseguì la sua attività, dipingendo e disegnando molto, ma anche collaborando come illustratore a riviste italiane come La Lettura e Il Cavallo italiano e al quotidiano La Gazzetta dello sport; né troncò il sodalizio con l'editore berlinese Ullstein, per il quale lavorò fino alla morte.

Dopo il suo rientro in Italia partecipò ancor più assiduamente alle mostre sindacali triestine ed espose anche a Varsavia, Cracovia, Bucarest, Sofia, Budapest e Berlino.

Copiosa fu in questo periodo la sua produzione ad olio (soggetti ippici, paesaggi, ritratti) i cui "elementi distintivi... sono gli effetti di 'mosso' fotografico e l'impostazione prospettica obliqua, cui s'accoppiano, in funzione di sostegno strutturale, scatti sinuosi di ricordo secessionista". Continuò comunque a prediligere la grafica e a dedicarsi con grande impegno all'illustrazione: sono della fine del quarto decennio le decine e decine di disegni e schizzi, in cui innumerevoli figurine mobilissime, silhouettes scattanti, macchiette appena abbozzate illustrano episodi della Guerra gradiscana dello storico seicentesco Faustino Moissesso (52 disegni sono stati pubbl. nel volume edito a Gorizia nel 1959). Assai evidente è in tutte le raffigurazioni il sorriso ironico con cui l'artista guarda ora ad un vorace Falstaff, ora ad uno spavaldo Capitan Fracassa, ora ad un pavido fante travolto dalla mischia, anche se alla fine tutte queste figure sono viste come patetiche e inconsapevoli marionette di quella stupida commedia che è la guerra.

Dopo il secondo conflitto mondiale il rifiuto di quella brutale violenza si fece più serio e commosso. Gli scorci arditi, la tensione dinamica delle linee e dei piani, i toni delicati e smorzati dei colori concorsero ad esprimere questa sua accorata meditazione sulla guerra nelle opere degli ultimi anni: il S. Sebastiano (Galleria regionale d'arte contemporanea L. Spazzapan di Gradisca), Gli infoibati (Musei provinciali, Gorizia) e la drammatica Via Crucis, che il pittore volle dedicare alla parrocchiale del paese di Corona (pubblicata nel 1950 a Gorizia con presentazione di A. Riccoboni). Ancora nel pieno della sua attività, morì improvvisamente a Gorizia il 5 agosto 1955.

Mostre restrospettive si tennero nello stesso 1955 a Trieste, nel 1957-58 a Gorizia, nel 1967 a Gradisca, e ancora a Gradisca nel 1977 in occasione del centenario della nascita. Particolare attenzione è stata riservata negli ultimi anni alla sua produzione cartellonista e suoi manifesti sono statì esposti in varie rassegne collettive.

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