sabato 21 ottobre 2023

Un grande storico onora la Dalmazia

Un grande storico, che onora l’Italia con la sua monumentale «Storia dell’Arte», Adolfo Venturi, affermò, scrivendo una delle sue magnifiche pagine sulla italianità della Dalmazia, che nella storia, nel pensiero, nell’arte prendono forma, colore, fuoco le idealità di un popolo che sa esprimersi con caratteri inconfondibili con quelli di qualsiasi altro popolo, che non discenda da uno stesso ceppo. Questo si può affermare, senza limiti di spazio e di tempo; questo si può affermare in particolare della Dalmazia.

Che dice, dunque, la storia?

Quando l'antica Roma cominciò ad estendere, gradatamente, il suo dominio ad altri paesi, non estese, automaticamente, ai popoli assoggettati, il diritto di cittadinanza romana, di cui fu sempre gelosissima.

Ma questo diritto di cittadinanza, che aveva per effetto di porre sullo stesso piano di eguaglianza coloro che ne erano investiti, veniva concesso, di regola, a quelle città che potevano vantare la loro origine italica.

Orbene, ai dalmati della costa, e a molti altri nuclei anche dell’interno, troviamo riconosciuto il diritto di cittadinanza romana, e le loro città sono fra i più antichi municipi di diritto romano. Mentre altre città, che non potevano vantare origine italica, si trovavano, rispetto a Roma, in condizioni diverse: in condizioni, cioè, o di città federate, o di città immuni, ossia di diritto latino; tutte le rimanenti, quelle, cioè, abitate da barbari sottomessi, costituivano la massa dei così detti peregrini deditici.

La Dalmazia, autonoma prima di Roma, diventa romana sotto Augusto, per il valore del console Metello, e dà a Roma uno dei più sapienti imperatori, Diocleziano, che ritiratosi, vecchio, a vita privata, costruisce a Spalato, non lungi dalla nativa Salona, quel meraviglioso palazzo dioclezianeo, che oggi ancora si ammira fra le più imponenti vestigia romane.

Alla caduta dell’impero romano d’occidente è invasa da orde di goti, avari, slavi, che travolgono, rovinano, distruggono alcune delle più fiorenti città della Dalmazia, tra le quali Salona, che ben può chiamarsi la Pompei dalmatica.

Poi è la volta degli ungari; ma già Venezia, col doge Orseolo II, si appresta a raccogliere l’eredità di Roma, sulla sponda orientale dell’Adriatico, e a porla sotto la protezione dello stendardo di San Marco. E quando cadde la repubblica di Venezia, dopo il trattato di Campoformio, i dalmati, con pubbliche solenni cerimonie, resero gli ultimi onori al vessillo della Serenissima, dopo di che lo seppellirono bagnato delle loro lacrime virili negli altari dei loro templi, affidandolo alla custodia, al culto e alla rivendicazione delle generazioni future.

Estrema, toccante manifestazione di fedeltà al veneto gonfalone: accanto ad esso, fedeli, in vita; accanto ad esso fedeli anche dopo la morte, nello stesso tempio, sotto la stessa terra, sacra alle memorie e alle glorie degli avi.

Dopo è storia recente. È la volta degli austriaci, 

dei francesi, e poi ancora degli austriaci; ed ora dei 

jugoslavi: ma la Dalmazia rimane sempre romana e veneziana, fedele alla sua origine italica.

L'alato Leone di di San Marco, che aveva rifatto il cammino delle vetuste aquile imperiali, sull’Adriatico orientale, fu strappato dalle sue nicchie e mandato in frantumi dalla rabbia dei nuovi dominatori; ma esso vi tornerà, siamone certi, con le nuove aquile imperiali di Roma fascista, malgrado la rabbia jugoslava, impotente a distruggere venti secoli di una civiltà, che non è mai morta, che non morirà mai nei secoli; Perché dove el Leon ga piantà la so zampa,

«No ghe xe forza al mondo che sgrafi via la stampa».

Questo per la storia.

E che dice il pensiero dalmata?

A Spalato, Marcantonio De Dominis, precursore di Newton, scopre la rifrazione della luce, ed è arso, come Giordano Bruno, in Campo dei Fiori a Roma; 

a Ragusa, Elio Cerva, primo umanista dalmata, cantore in latino delle glorie di Roma, indirizza le sue elegie a Isabella di Mantova, ed è incoronato col lauro del poetico trionfo in Campidoglio, a Roma, come un altro grande: Francesco Petrarca; a Sebenico, Nicolò Tommaseo, fondatore fra i più insigni della scuola moderna di filologia romanza, ed ultimo difensore, col Manin, della repubblica di Venezia; a Knin, Anton Maria Lorgna, fondatore della famosa società dei Quaranta (scienziati) il cui statuto conteneva un articolo in cui si ripeteva l’ultimo verso del ritornello della canzone popolare dalmata «El si», cioè «non si parla che italiano» ; a Traù, Giovanni Lucio, storico, grande assertore di italianità; a Zara, Pier Alessandro Paravia, accademico della Crusca, e primo fondatore della biblioteca civica, che ne porta il nome.

Ma questa non è che una piccola parte della schiera gloriosa: ci sono ancora poeti latini, come Alvise Cippico e Pietro Marnilo, che cantano le glorie di Venezia; Raimondo Conich e Benedetto Stay, che traducono in versi latini il primo l’Iliade, il secondo l’Odissea di Omero; e poi scienziati come Ruggero Boscovich e Giorgio Baglivi, astronomo il primo, davanti al cui genio si inchinò Napoleone, e creatore dell'Osservatorio di Brera; innovatore delle scienze mediche il secondo; e poi grammatici come Francesco Fortunio, che pubblicò in Ancona la prima grammatica italiana, e Adolfo Mussafia, autore di una grammatica italiana ad uso degli stranieri, che ebbe la fortuna di numerosissime edizioni; e poi patriotti, come Federico Doda, che fu a Vicenza e a Roma con Mazzini e Garibaldi; Paolo Tivaroni, storico e patriotta, che combattè nel Trentino e a Mentana con Garibaldi; e Francesco Rismondo, l’ «assunto», ferito e catturato sul S. Michele e finito martire come Cesare Battisti.

Questo il pensiero dei dalmati, senza soluzione di continuità, attraverso i secoli.

E che dice l’arte?

Artisti: architetti, scultori, pittori come Giorgio 

Orsini, Francesco e Luciano Laurana e Andre Meidola per citare i più gloriosi — hanno consegnato ai secoli, in ogni città della Dalmazia, nella penisola ed anche oltralpe, monumenti della più pura, schietta arte italiana, tra i quali eccelle il Duomo di Sebenico, che Giorgio Orsini, modificando il primitivo piano, inquinato di ogivale, del veneziano Antonio Delle Masegne, seppe restituire alla dignità del più bel Rinascimento.

Fuori della Dalmazia, di Luciano Laurana: il palazzo ducale di Urbino e il castello di Alfonso d'Aragona a Napoli; del fratello Francesco Laurana: l’arco trionfale dello stesso castello a Napoli, il castello di Tarascona di re Renato d’Angiò e la chiesa di S. Didier ad Avignone; e del Meldola un S. Giovanni Evangelista, custodito nel Museo del Louvre, a Parigi, che richiama alla mente in modo impressionante il mirabile Cristo di Leonardo.

Questo è il linguaggio dell’arte, puramente, schiettamente italiano, come quello fiorito nella penisola per merito del Brunelleschi, del Bramante, del Tiziano e degli altri grandi Maestri del Rinascimento, eredi e continuatori della grandiosa arte di Roma, che impresse il suggello indelebile del suo genio sulle due sponde opposte dell’ancor amarissimo, ma pur sempre italianissimo Adriatico.

Ne giudichi ciascuno da sè.

Ecco Arbe: col campanile del Duomo, del 1200; 

la Loggia pubblica coi capitelli romanici ; il palazzo del Conte, in ogivale veneziano, e il palazzo De Dominis Nimira.

Ecco Zara: romanica nella Porta Marina, parte interna, sormontata dal Leone la parte esterna; nei rudimenti di S. Donato e nelle opere d’arte del Museo omonimo; con le absidi di S. Crisogono (X-XII secolo); S. Maria delle Benedettine col campanile romanico dell ’XI secolo; il Duomo di S. Anastasia del XIII secolo, col campanile d’imitazione romanica, ed il bassorilievo, opera di Giovanni di Francesco Laurana, ora nel Museo di S. Donato; il cortile della casa De CrisogonoVovò, del 1400; la casa Pasini-Marchi-Davanzati, con putti di Giorgio Orsini e scolari ; la casa De Petrizio, con la vera del pozzo, della scuola di Giorgio Orsini: la Porta di Terraferma del 1543, pure sormontata dal Leone; la Loggia pubblica ; la Gran Guardia e la Torre dell’orologio del 1562, ove al posto dell’aquila bicipite, abbattuta dal furore popolare il 31 ottobre 1918, è stato ricollocato, con solenne rito di riconsacrazione, l’alato Leone veneto di San Marco.

Ecco Sebenico: con la piazza dei Signori, la Loggia Grande (sede del Circolo Italiano o Casino di Lettura); il Duomo, il cui primo piano delle navate e della facciata è opera di Antonio Delle Masegne, veneziano (I43I' I44I); crocera, absidi, volte e cupola sono invece opera di Giorgio Orsini e dei suoi scolari (1441- 1475); come pure di Giorgio Orsini sono la Porta Maggiore o Porta dei Leoni, i tabernacoli e, all’interno, l'altare delle reliquie nel sancta sanctorum, uno dei piloni sostenenti la cupola, le scale di accesso alla sacrestia nell’abside meridionale; mentre il cancello, gli stalli, la cantoria dell’Epistola sono opera di Niccolò Fiorentino (1499). E poi: S. Giovanni Battista, con la scalinata aperta della via alla cantoria della chiesa e la finestra della sacrestia, della scuola di Giorgio Orsini; Palazzo Foscolo, ora convento dei Francescani di S. Lorenzo, del 1450; il forte di S. Niccolò, con lo storico Leone, ed il Leone di Porta di Terraferma, ora relegato in un deposito del Comune, ma sempre in attesa di tornare al sole d’Italia.

Ecco Traù: col Duomo romanico del 1200, il portale di Radovano, il pulpito romanico, il campanile Rinascimento; Porta Marina e di Terraferma, col Leone veneto; il chiostro di S. Domenico del 1300; la Loggia pubblica, con capitelli romanici di spoglio e la Torre dell’orologio; Palazzo Cippico, veneziano.

Ecco Spalato: romana in gran parte; con la sua famosa e bellissima Venere vincitrice, conservata nel Museo, e numerosi sarcofagi rappresentanti uno il mito della caccia di Meleagro, un altro il mito di Ippolito e Fedra; un altro, dell’èra cristiana, il passaggio del Mar Rosso; col Palazzo di Diocleziano, il Mausoleo, oggi Duomo, col campanile romanico, pulpito romanico del Buvina e altare di S. Anastasio di Giorgio Orsini; il tempio di Giove, oggi Battistero; il palazzo municipale del 1432, ricostruito nel 1891; il palazzo Dalla Costa-Papali del X V secolo, ogivale; l’arca di S. Anastasia, nel Duomo, opera di Giorgio Orsini; la flagellazione, particolare dell’arca; il torrione veneziano del demolito castello veneziano del 1450; il bastione Priuli, con l’immancabile Leone; le procuratie, imitazione di quelle di Venezia, ideate dal « podestà mirabile » Antonio Baiamonti (1800-1880); ed in fondo la monumentale fontana Bajamonti.

Ecco Salona: coi suoi ruderi dell’anfiteatro, del I secolo dopo Cristo; coi resti della Basilica Urbana (V?), della Basilica e del Cimitero dei Martiri (VI secolo).

Ecco Ragusa: con la sua cattedrale, con S. Biagio, il chiostro dei Francescani del 1317; il convento dei Domenicani del XV secolo; la sponza (l'antica Zecca) ; la fontana di Onofrio del 1438, opera di Onofrio di Giordano di La Cava; la fontana di La Cava, in piazza della Loggia; il Palazzo dei Rettori, opera di Onofrio di Giordano di La Cava (1436), ricostruito da Giorgio Orsini nel 1465.

Ecco Lesina: con la Loggia pubblica del Sammicheli, la Torre dell’orologio e la colonna dello stendardo, col Leone, che vide issare le mille volte lo stendardo di Venezia; e il Palazzo Leporini del secolo XV.

Ecco Curzola: col suo Duomo dalle basi romaniche; in piazza della Cattedrale, S. Marco, la colonna col Leone, il palazzo ora Zanetti del 1400; il palazzo della Comunità, la colonna dello stendardo, col Leone in moleca del 1515; il cortile secentesco del palazzo Artieri; la piazzetta Saliso, Porta di Terraferma (ricostruita nel 1650); la Loggetta del Comune, la colonna commemorativa col Leone in cima; il torrione Alvise Barbarigo; il San Marco del torrione di Alvise Balbi del 1449.

Ecco Cattaro: col suo Duomo romanico, con restauri posteriori, e ciborio pure romanico; Piazza Marina con la Torre dell’orologio e l’Ara votiva romana.

Ecco Perasto: col suo campanile veneziano e il palazzo Smecchia.

Ovunque, su ogni zolla di questa terra, pur se il nefasto scatenarsi delle forze brute dei barbari invasori contro le forze affievolentisi dell’Impero Romano disperse l'augurio di una Roma sempre più grande che Giustiniano faceva incidere sulla facciata di un tempio a Salona; pur se dai baluardi dell’opposta sponda dalmatica più non rugge che simbolicamente il Leone; ovunque, dico, su ogni zolla di questa terra, nonostante l’imbarbarimento che oggi la minaccia, causa la presenza dei nuovi dominatori, una divinità trina, in uno spirito solo, regna ancora sovrana: Roma, Venezia, Italia; e un canto solo echeggia ancora dalle rive, dai monti, dalle isole:

«Noi semo tutti zente del si» e una volontà sola infiamma i cuori dei dalmati impazienti d’indugi e smaniosi d’azione: «no vai le ciacole, ghe voi el si».

Terra dove il si suona, è terra d’Italia; e là, in Dalmazia, come in Italia, si parlò e si scrisse prima in latino, nella lingua in cui si espresse il genio della comune razza, con l'universalità dell’arte, l’universalità del diritto, l’universalità della Religione.E come non richiamare ancora una volta, in chiusa di questa rapida corsa nel passato, quegli che abbiamo chiamato il «podestà mirabile», Antonio Baiamonti? Il quale, fra le altre opere memorabili di italianità condotte a termine, rimise in efficenza le terme di Diocleziano, che per una conduttura di 11 Km. portavano 15 mila litri di acqua al giorno al palazzo dell’imperatore, e che oggi ancora danno acqua potabile agli pseudo-padroni di «Split», storpiatura jugoslava dell’italianissima Spalato.

Ma Spalato è nome che non si cancella, perché vive nel grido di battaglia delle legioni fiumane di Gabriele d'Annunzio e delle legioni dei volontari di guerra che hanno l'onore altissimo di agitare la fiaccola dell’italianità delle terre non ancora redente.

Povero e grande Baiamonti! Quando, nel 1885, fu creata a Trento l'associazione « Pro Patria » egli volle che la sua Dalmazia vi fosse compresa. Ma l’Austria aveva già deciso di sbarazzarsi ad ogni costo di lui, e lo perseguitò armandogli contro il suo antagonista slavo, diffondendo ed accreditando voci calunniose sul suo conto, sino alla mostruosa montatura del processo tristamente famoso, rimasto come documento insuperato di gesuitismo e di perfidia. Il Bajamonti ne fu scosso a tal punto, che ne morì, lasciando queste parole ai posteri: «A noi Italiani della Dalmazia non rimane altro diritto che quello di soffrire».

E come non ricordare, da ultimo, quel Giacomo Pasini, scultore, il quale, nei restauri del 1850 del Duomo di Sebenico, per dar sfogo al prepotente sentimento di italianità, sempre così ardente nella città del Tommaseo, in due medaglioni scolpiti in cima alla colonnina di destra della Porta dei Leoni (facciata settentrionale) effigiò fra i santi del Paradiso i santi della Patria, ai quali si volgevano fiduciosi i cuori di tutti gli italiani dell’una e dell’altra sponda, ossia Garibaldi e Vittorio Emanuele II?

Attendono, sulla zona di terra che dette loro i natali, ombre implacate, tutti i grandi spiriti eletti dei dalmati, che donarono all’Italia canti che sono tra i più belli dell’epopea nazionale. E non attenderanno a lungo. E non attenderanno invano!

Dalmazia! Nome di italica bellezza armoniosa, che fece battere il cuore dell’eroe dei due mondi. Sono parole di Giuseppe Garibaldi, queste, che ad ogni fanciullo d’Italia dovrebbero essere fatte mandare a memoria:

«In Dalmazia, terra latina, la razza primitiva (romano italico - veneta) mai non potè esser soverchiata nè depressa dall'Austria, spadroneggiante, autoritaria e violenta. Le sue città, presso che tutte, di romana o veneziana origine, la sua civiltà italica, sempre. Dalmazia! Nome di italica fierezza, mai doma, che fece pronunziare la più secca condanna delle pretese panslaviste o panserbiste ad un grande italiano della Dalmazia, Niccolò Tommaseo da Sebenico:«Il diritto storico degli slavi non ha radici, ma è un palo secco, piantato per reggere le nuove tende».

Queste poche parole del Tommaseo ammoniscano tutti gli stranieri, più o meno complici di quella così detta «pace adriatica», che doveva trasformare in covi di insidie contro la Patria le italianissime coste dalmate.

Ogni italiano imprima nella mente e nel cuore la invocazione dei dalmati, che richiama due epoche: 1848 e 1920 e che ogni fanciullo dalmata recita in chiusa delle sue preghiere a Dio:

«Nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, noi popolo dalmata, in virtù dei diritti nostri antichissimi, e per la nostra piena ed unanime volontà, il più antico di tutti i diritti e di tutte le leggi, alle generazioni presenti e all'ultime a venire protestiamo, dinanzi agli altari, e dinanzi ai nostri fuglioli, sulle fonti del nostro battesimo, sui poveri sepolcri dei nostri antenati; protestiamo dai nostri lidi e dai nostri monti e dall'isole nostre al cospetto santo di Dio: non vogliamo essere croati... ».



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