Tante storie di passione italiana si sono rincorse ed incrociate nelle terre d’Istria, Carnaro e Dalmazia. Ho voluto raccoglierne alcune, scendendo idealmente lungo le strade d’Istria, per passare poi a Fiume e raggiungere Zara, unite dallo stesso filo: storie di donne e uomini, sconosciuti a più, che hanno legato i loro ultimi momenti terreni al tricolore, il simbolo dell’identità del proprio popolo, o al grido antico di “Viva l’Italia”!
La prima è di un’eroina istriana, di cui poco o nulla si sapeva fino a poco tempo fa. A quasi sessant’anni di distanza dal fatto, un partigiano yugoslavo raccontò al direttore del Museo di Albona – era il 2001 − di aver assistito alla morte di Odda Carboni, scomparsa nel marzo 1944 da quella città. La donna era un’impiegata trentanovenne. Un giorno non si presentò al lavoro e da allora fu semplicemente classificata come “scomparsa”. In realtà era stata prelevata dai partigiani e trascinata a Vines. Quella che veniva chiamata poeticamente “foiba dei colombi”, perché dalla sua grande imboccatura uscivano i colombi che entro le sue pareti trovavano riparo e nidificavano, era divenuta un lugubre inghiottitoio di persone. Odda conosceva bene il luogo e la fama sinistra dello stesso visto che, nell’ottobre dell’anno precedente, i vigili del fuoco di Pola avevano recuperato 84 corpi di infoibati. Ed infatti, come raccontò il partigiano, “portata sul ciglio della foiba, cosciente di quel che l’attendeva, non volle dare ai persecutori la soddisfazione di spingerla, ma vi si gettò dentro di propria iniziativa con il grido di “Viva l’Italia”.
La storia sembra ricalcarne un’altra, accaduta alcuni mesi prima, nel settembre del 1943, sempre alla foiba di Vines. Alberto Picchioni, di Firenze, era impiegato presso il pozzo carbonifero di Stremazio. Nel 1937 il regime fascista aveva fondato in Istria la città mineraria di Arsia e da vari luoghi d’Italia erano giunti ingegneri e impiegati minerari. Picchioni, arrestato dai partigiani e portato sul luogo dell’esecuzione, si gettò nella foiba gridando “viva l’Italia” prima che i titini facessero fuoco.
Anche il maresciallo dei carabinieri di Parenzo, Torquato Petracchi fu infoibato a Vines: nel 1954 fu la Repubblica Italiana a conferirgli la Medaglia d’Argento al Valor Militare riconoscendolo “strenuo assertore e difensore della sua italianità”. La motivazione così recita: “legato ai polsi col filo di ferro spinato e fatto precipitare in una foiba dai feroci aggressori suggellò con la morte, al grido di “Viva l’Italia” la sua inestinguibile fede nei destini della Patria”.
Anche Giovanni Sommaruga era un carabiniere, vicebrigadiere del presidio di Dignano: nel settembre del ’43, attaccato dai titini, difese fino all’ultimo la polveriera a cui era assegnato respingendo ogni proposta di resa. Catturato al termine del combattimento, fu a lungo interrogato e torturato ma non proferì parola: la sua unica risposta fu gridare “viva l’Italia” prima di essere ucciso con tre colpi alla nuca. La sua salma, rinvenuta dopo due settimane e con le mani amputate, fu composta al cimitero di Dignano ove venne sepolto con gli onori militari.
Risalendo il Carnaro verso Fiume si incontra Abbazia, una cittadina incantevole, famosa dall’’800 per i suoi hotel e stabilimenti balneari. Nel 1889 il governo austro-ungarico la definì prima località climatica balneare dell’Adriatico. Per tutti, allora, era semplicemente “la Perla del Quarnaro”.
Occupata dai titini nel maggio 1945 fu teatro della strage di sessantasei italiani passati per le armi senza processo. Direttore didattico di Abbazia era Giuseppe Tosi, un maestro istriano, fieramente italiano, religioso, amato dai suoi allievi. Fu convocato per un interrogatorio che si rivelò una tortura disumana. Bastonato e ferito, chiese da bere ma gli fu dato dai partigiani un bicchiere riempito del suo stesso sangue che scendeva copioso dalle ferite. Ne bevve un sorso e con un sorriso disse: “È buon sangue italiano”. A quel punto lo uccisero. Si raccontò che morendo avesse pronunciato parole di perdono per i suoi assassini.
Anche Fiume era in mano ai titini dal 3 di maggio. Il custode dei giardini di piazza Verdi si chiamava Adolfo Landriani. Veniva affettuosamente chiamato “Il Maresciallino” per via della sua piccola statura. Era arrivato a Fiume al seguito di d’Annunzio nel ’19, con un reparto di Arditi, e vi era rimasto. I partigiani lo presero e lo portarono in caserma intimandogli di gridare: «viva Fiume jugoslava», ma lui gridò: «viva Fiume italiana» e continuò a farlo, finchè ebbe voce, prima di morire con la testa spaccata contro la parete dove si divertirono a lanciarlo, come fosse un sacco da buttare.
In Dalmazia, a Zara distrutta dai bombardamenti, il 31 ottobre 1944, poco prima dell’arrivo dei partigiani yugoslavi, il tenente dei carabinieri Ignazio Terranova, che era membro del comitato per la lotta ai tedeschi, salì di corsa sul campanile della cattedrale di Sant’Anastasia, scampata alle bombe, e spiegò un grande bandiera tricolore, a ribadire l’italianità della città. Venne arrestato dai titini e sottoposto a continui interrogatori. Fu poi tradotto a Spalato, quindi a Sebenico. Finì il suo peregrinare nelle carceri yugoslave a Ragusa (quella che oggi chiamano Dubrovnik nonostante fosse stata la quinta Repubblica Marinara italiana) dove venne giudicato e condannato a morte da un tribunale militare titino. Terranova fu fucilato, proprio a Ragusa, nel mese di marzo del 1945.
Anche nelle isole di Dalmazia si moriva per quello stesso Tricolore. Guido Rocchi Luchich e sua figlia Dora, dirigente della scuola italiana di Lesina, vennero catturati dai partigiani, portati al cimitero di Lissa, messi al muro e fucilati: morirono abbracciati gridando “Viva l’Italia!”.
(dal libro di R. Menia, "10 Febbraio. Dalle Foibe all'Esodo)
Foto: maggio 1945, Capodistria occupata dai partigiani jugoslavi
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