Il 14 Ottobre di tre anni fa ci lasciava l'istriana Graziella Gianolla, classe 1935, residente a Trieste.
«Tante volte ho desiderato essere buttata in una foiba, come mia madre, invece i titini mi hanno portato via con loro lasciandomi vivere, ma forse è stato peggio che morire», raccontava spesso Graziella Gianolla, che parlando della sua tragica esperienza sembrava quasi liberarsi dal peso terribile dei ricordi.
Nel 1944 a Momiano, un piccolo paese nel centro dell'lstria, aveva solo nove anni, troppo pochi per affrontare l'inferno.
«Mio padre era nella Milizia e sono venuti a prenderlo il 31 gennaio 1944. Ricordo una decina di partigiani che mi hanno obbligato ad aprire il negozio per portar via quello che trovavano. Le ultime parole di papà furono: «Stai tranquilla e chiudi la porta. Tornerò presto», raccontava Graziella che non lo ha mai più rivisto.
Assieme allo zio podestà è stato prima torturato e poi tagliato a pezzi.
Graziella non ha mai saputo con precisione dove venne sepolto il padre.
In quel terribile 1944, però, il peggio doveva ancora venire. La bambina, assieme alla madre e alla zia, rimase a Momiano nella speranza che gli uomini sequestrati dai partigiani tornassero.
«Invece in ottobre sono venuti a prendere anche noi - raccontava - li ho sentiti salire le scale e urlare "Mani in alto". Ero terrorizzata. Un certo Mladen cercava soldi e quando mia madre gli offerse uno dei suoi anelli per risparmiarci, ricevette una sberla che la fece volare dall'altra parte della stanza. Le mani gigantesche di Mladen non le ho mai dimenticate».
Per anni Graziella è stata perseguitata dagli incubi e quando vedeva le mani di un uomo cominciava a tremare.
«Pioveva a dirotto, ma ci hanno ordinato di metterci in marcia portandoci nel bosco. Assieme a mia madre hanno preso la zia ed altre due donne, compreso un ospite che veniva da Fiume e non c'entrava nulla» - continuava Graziella - , «la mamma mi faceva pregare di nascosto, ma il momento peggiore è arrivato il giorno dopo, quando ci hanno divise a forza. Avevo solo nove anni e sono diventata adulta di colpo».
La madre vuole abbracciarla per l'ultima volta, ma i partigiani la strattonano via.
Da quel giorno Graziella non l'ha più vista. «Quando ho incontrato il capo dei titini, un certo Stanko, che veniva spesso a comprare nel nostro negozio sono corsa da lui per chiedergli di mia mamma. Mi ha risposto che non dovevo più nominarla, perché era una spia e avrebbe avuto quello che si meritava».
«Così, ogni volta che sentivo degli spari pensavo che avessero fucilato la mamma».
Da questo momento la piccola Graziella viene arruolata nell'unità partigiana, che decide di slavizzarla.
Le mettono in testa una bustina con la stella rossa e le consegnano addirittura una pistola con tre colpi consigliandole di uccidersi piuttosto che farsi catturare dai tedeschi.
«Mi ordinarono di non dire più una sola parola in italiano, ma non conoscevo lo slavo. Per chiedere un po' di pane sbagliavo termine e allora mi riempivano di ceffoni. Ho imparato la loro lingua a suon di sberle», raccontava.
Per quattro mesi vive nei boschi con i partigiani e trova anche un titino più umano degli altri che se la carica sulle spalle quando non riesce a stare al passo nelle dure marce notturne. A piedi attraversano tutta l'lstria centrale e quando la banda titina si ferma a dormire, la bambina è costretta ad assistere al sesso libero fra i partigiani.
Con un solo vestito, le scarpe rotte ed i pidocchi dappertutto, Graziella avrebbe preferito fare la fine della madre. A lungo andare i partigiani non sanno che farsene della bambina. Una di loro la consegna a una coppia di contadini, di nome Paoletich, che in pratica la adottano.
Alla fine della guerra viene costretta ad applaudire al passaggio delle colonne di prigionieri tedeschi, molti dei quali saranno massacrati, e a gridare "Zivijo Tito!” (Viva Tito!).
Ormai parla solo lo slavo, chiama i Paoletich "zii”, e loro la trattano effettivamente come una figlia.
«Dentro di me non ho mai dimenticato la mia casa a Momiano ed i genitori, ma non so cosa sarebbe accaduto se mio fratello non mi avesse trovata», spiegava Graziella.
Alfeo, sette anni più grande, si era arruolato appositamente nei partigiani per cercare notizie della sorella.
«Un giorno di luglio del 1945 lo vedo in divisa da titino che mi aspetta sotto un albero. Sul primo momento mi paralizzo al pensiero che mio fratello fosse passato con gli slavi».
Ma alla fine Alfeo convince la sorella ed i «genitori» adottivi che possono tornare a Momiano.
«Quando non ho ritrovato la mamma ho chiesto per reazione le mie bambole, ma in slavo, perché non riuscivo più a parlare l'italiano», ricorda.
Nel 1954 Alfeo, Graziella e la quasi totalità degli italiani di Momiano scappano verso Trieste, dove si ricostruiscono una vita segnati per sempre dalla tragedia dell'Istria.
Nel 2001 Graziella ha rintracciato Mladen, il partigiano dalle mani enormi, il quale dopo la guerra era diventato giudice.
«Mi ha detto che non sapevano cosa fare di me e che la mamma assieme alle altre donne portate via, era stata processata e giustiziata - rivelava Graziella -. Gli ho chiesto se avesse avuto il diritto ad una difesa e mi ha risposto che bastava la parola di un partigiano per condannarla».
Graziella si è identificata con Francesco, nella miniserie “Il cuore nel pozzo”, il primo film sulle foibe, il ragazzino che scappava dall'Istria dopo l'infoibamento dei suoi genitori.
«Oggi non provo più odio, neppure per Mladen - diceva Graziella - ci sono voluti sessant'anni per fare un primo film sulle foibe e mi rendo conto che è ora di voltare pagina, ma perdonare sarà impossibile».
La beffa finale, la ciliegina sulla torta sui soprusi pazzeschi subiti da Lei e dalla sua famiglia è rappresentata dalla casa di Momiano, che Graziella assieme ad altri Esuli voleva recuperare attraverso una causa internazionale.
Dopo anni di battaglie, tutti hanno perso, come previsto. La casa oggi è sede della Comunità degli Italiani, acquistata dal Governo italiano. Ed alcuni dei membri fondatori di quelle comunità in Istria, oggi non più in vita, facevano parte dei partigiani locali che parteciparono alla mattanza dei suoi cari.
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