martedì 10 ottobre 2023

Placito di Risano. Un’affermazione di autonomia nell’Istria del Medioevo



«Meglio crepare che vivere in questa maniera». Ecco la significativa affermazione di un testimone istriano che ebbe la ventura di partecipare all’assemblea popolare di Risano, nei pressi di Capodistria, convocata da Carlomagno nell’anno di grazia 804 su richiesta delle comunità locali, entrate in rotta di collisione col Duca Giovanni, espressione del potere imperiale, e coi potentati vescovili dell’epoca, a causa delle ripetute prevaricazioni perpetrate nei loro confronti: in primo luogo, le angherie degli immigrati slavi di provenienza barbarica che si rendevano responsabili di sistematici furti, assalti e violenze nei confronti delle genti autoctone.

Erano tempi difficili anche in Istria, dove i Longobardi erano stati sostituiti dai Franchi con effetti significativi anche sul piano istituzionale, rivenienti dall’impronta carolingia attraverso il riconoscimento delle autonomie in un quadro di logica amministrativa imposta dalle ampie dimensioni dell’Impero e dalle difficoltà di comunicazione: basti pensare che i delegati del Sovrano impiegarono non meno di due mesi per coprire il percorso da Aquisgrana al luogo dell’assemblea.

Le città istriane, al di là dei riconoscimenti formali da parte carolingia, erano unite da una comune identità di lingua, cultura e tradizioni, a cominciare da quelle religiose, e iniziavano a creare vincoli non soltanto d’affari con la giovane Repubblica di Venezia, attraverso accordi di cooperazione mercantile non privi di contenuti difensivi nei confronti delle scorrerie saracene e slave, alla luce dei comuni caratteri latini. Nondimeno, nell’Alto Medio Evo queste intese erano ancora allo stato embrionale, senza apprezzabili effetti in Istria: di qui, il crescente disagio delle popolazioni autoctone dovuto alla difficoltà di misurarsi in condizione paritetica con gli immigrati slavi di origine orientale che naturalmente ignoravano le disposizioni circa l’insediamento soltanto in «deserta loca» e quindi senza compromettere i diritti acquisiti dagli Istriani, con conseguenti proteste collettive destinate a ottenere la convocazione dell’assemblea, nonostante le oggettive difficoltà logistiche.

A parte le violenze, le malversazioni erano tante, a cominciare dai rapporti di lavoro, dall’organizzazione di agricoltura, allevamento e pesca, fonti prioritarie di vita, e dal regime dei suoli: cosa di cui fanno fede le tante testimonianze locali rese da coloro che erano convenuti da tutta l’Istria, viaggiando generalmente per mare, e compendiate nella significativa esclamazione di cui in premessa. Dal canto loro, i giudici imperiali, che avevano affrontato un trasferimento ancora più impegnativo, non poterono esimersi dall’esprimere un verdetto in linea di obiettività, sintetizzabile nell’obbligo del Duca Giovanni e dei Vescovi di non violare i diritti di erbatico e legnatico; di non imporre lavori obbligatori; di non ordinare collette costrittive; di non porre limiti o imposizioni sulla pesca e sulla navigazione; e soprattutto, di non insediare coloni slavi sulle terre pubbliche.

Giova aggiungere che esiste un dettagliato verbale dell’assemblea, a testimonianza del fervido impegno istriano manifestato da un popolo che aveva vissuto per oltre un millennio nell’ambito dell’Impero Romano e di quello Bizantino, e che era attento custode dei suoi valori autonomistici conculcati dal governatore carolingio: ai suoi occhi, poco più di un «barbaro incolto»[1]. D’altra parte, Carlomagno era tutt’altro che insensibile alla tradizione cristiana, con la sua cultura e i suoi sentimenti, e in tale ottica non poteva e non voleva tradire le attese popolari, in specie dopo l’incoronazione quale Sacro Romano Imperatore che era avvenuta nel giorno di Natale dell’anno 800 a opera di Papa Leone III: un atto di fondamentale importanza politica e nello stesso tempo giuridica e psicologica, che avrebbe potuto diventare il momento propedeutico alla creazione di uno Stato notevolmente avanzato rispetto all’ottica medievale, in un contesto unitario almeno sul piano amministrativo e su quello culturale.

Carlomagno, nell’ambito della sua politica di espansione che lo avrebbe portato a governare su quasi tutta l’Europa, si era già impegnato militarmente contro gli Avari, sebbene la loro penetrazione verso Occidente si fosse sostanzialmente bloccata dopo le prime rapide conquiste; e aveva visto suffragare il suo ampio successo dall’omaggio che il Gran Khan Tudun gli rese ad Aquisgrana nello scorcio conclusivo dell’VIII secolo non senza convertirsi al Cristianesimo (salvo abiurare dopo il rientro nei suoi territori orientali).

La memoria di queste imprese non fu verosimilmente estranea alla decisione di accogliere la richiesta istriana che avrebbe consentito di esprimere la giustizia carolingia nella grande assemblea di Risano, superando notevoli difficoltà anche dal punto di vista del necessario coordinamento organizzativo. D’altra parte, la parabola di Carlomagno aveva già iniziato la fase discendente, che lo avrebbe portato alla morte dopo otto anni, dando luogo alla progressiva disgregazione della sua compagine statuale, e in qualche misura, all’affievolimento dei diritti istriani che avevano tratto rinnovata affermazione dal Placito.

A prescindere dalle vicende successive che avrebbero visto il progressivo aumento dell’influenza veneziana in Istria[2] preme sottolineare come la memoria di Risano abbia esercitato un «memento» significativo nella coscienza popolare anche dopo la scomparsa di Carlomagno e gli inevitabili colpi di reazione da parte slava: non a caso, pochi decenni più tardi, il Sommo Pontefice Giovanni VIII avrebbe assicurato ai Vescovi della Dalmazia il supporto di Roma contro le rinnovate ambizioni alloglotte. Sta di fatto che la pronunzia di Risano costituisce un fatto nuovo importante nella storia dell’Istria e dell’Alto Adriatico, perché in quell’occasione venne stabilita, almeno sul piano giuridico, la congruità delle attese autoctone in un’ottica di diritti prioritari a cui gli immigrati avrebbero dovuto necessariamente uniformarsi.

La storia di Venezia Giulia e Dalmazia, nei suoi corsi e ricorsi, ha dimostrato chiaramente come quello occorso agli inizi del IX secolo non sia stato un fatto isolato. Al contrario, Risano fu il primo episodio di una lunga dialettica che avrebbe posto il mondo latino a perenne confronto con quello slavo, e che – con tutte le variazioni sul tema – è pervenuta fino ai nostri giorni.


Note

1 Mario E. A. Zetto, Il Placito di Risano, in veneto istriano di Capodistria e in italiano, Edizioni ANVGD/ERI, Trieste 1989, 190 pagine. Si tratta dell’opera più recente ed esaustiva che abbia attirato l’attenzione sulla grande assemblea delle città istriane tenuta nell’agro del Risano per ottenere una pronunzia della giustizia carolingia nei confronti del governatore Giovanni, responsabile di una politica discriminatrice a danno delle popolazioni autoctone. Nella relativa bibliografia, la fonte storiografica più autorevole in materia, ivi richiamata, è quella del Codice Diplomatico Istriano (50-1526) a cura di Pietro Kandler.

2 L’azione istriana della Serenissima fu necessariamente improntata agli interessi prioritari della Repubblica Veneta, anche quando vennero eletti Dogi gli Istriani Pietro Tradonico (837) e Pietro Polani (1130). Ciò continuò a verificarsi in tempi successivi, con riferimento alla politica demografica e alla necessità di ripopolare i centri istriani e dalmati dopo le ricorrenti pestilenze che si andarono ripetendo nel giro dei secoli: in tali occasioni, l’apporto dell’etnia slava fu spesso maggioritario, specialmente nelle classi inferiori, creando i presupposti degli interventi politici assunti in suo favore da parte asburgica, soprattutto durante il secolo decimo nono, quando la componente italiana, superate le offensive della peste, aveva nuovamente consolidato il tradizionale controllo della vita culturale in Istria e Dalmazia, che del resto non aveva mai perduto.

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