Tra le zolle, lambita da tre parti dalle onde, sta seria e superba Parenzo, circonfusa dal bagliore del sole occiduo di tempi remotissimi. Nella sua felice situazione ben sarà stata allettatrice di coloni ancora prima della dominazione romana, però d’essi non conserva più traccia. Per compenso le plaghe retrostanti, coi numerosi castellieri ricchi di cocci, d’ornamenti di bronzo, parlano d’una popolazione preistorica di stirpe identica a quella che abitava alle foci del Po, dell’Adige e della Brenta, sia stata pur di Celti come assevera il Benussi o d’Illiri come vuole il Hoernes.
Dopo la preistoria, ti parla eloquente la storia: le pietre del Campo di Marte e di Diana narrano del teatro antico e dell’acquedotto, narrano dei giorni splendidi in cui Parentium, città di 10,000 abitanti inalzava all’imperatore Massiminiano, corregente di Diocleziano, una statua dorata nel Forum Martii, l’odierna piazza Marafor. Lasciamo la questione dibattuta, se sia stato proprio necessario di gettare in frantumi tutti i templi e tutte le statue per far onore ad una civiltà nova; sta però sempre il fatto che i cittadini di Parenzo duemila anni fa, uscivano da qualsiasi delle loro sette porte senza essere preoccupati, come quelli d’oggidì, dal pensiero di trovare i loro coltidistrutti da mani barbariche. E che le ville dei signori romani siano esistite, lo testificano gli avanzi scoperti nei dintorni. Il marchese Polesini, proprietario della villa, che dall’isola di S. Nicolò situata all’ingresso del porto, attira l’attenzione dei turisti, fece fare a sue spese degli scavi a Cervera, località a nord di Parenzo, per mettere in luce una villa romana posta in luogo ameno un po’ a settentrione di Punta Bossolo. Il risultato del lavoro fu la scoperta di parecchie stanze prospicienti sul mare, e di due pavimenti a musaico distanti l’uno dall’altro quaranta centimetri, i quali altro non indicano, se non che sulla prima costruzione n’era poi stata eretta una seconda. Si constatò inoltre una quantità di canali sboccanti nel mare e la superiorità della bellezza dei musaici più vecchi. Sulla Punta Pizzale, presso il porto di settentrione, si trovarono avanzi di bagni romani, e sulla Punta di S. Pietro tracce d’un molo, frammenti d’ancore e grandi anelli di ferro che servivano ad assicurare le navi. La strada romana di Sbandati, nel medioevo detta «via sclavonica» rasenta edifici antichi e tombe antiche.
Come l’attesta la basilica del vescovo Eufrasio, questo benessere durò fino nel medioevo. Le sue colonne provengono dalle cave dell’ isola di Proconneso, ed i capitelli, come assevera lo Strzygowski accusano un scalpello virtuoso, come quello che lavorò a S. Vitale di Ravenna ed a S. Sofia di Costantinopoli; — l’abside è tutta un musaico «sì ricco e sì splendido quale nessun altro» — L'impressione generale provata su questa spiaggia dal viaggiatore, ha del favoloso e resta indelebile».
Questa chiesa bizantina s’erge sulle fondamenta d’una, cappella costruita da un cristiano dovizioso, forse nel tempo in cui in un altro punto della città s’inalzava l’ultimo monumento dell’ impero in imminente sfacelo. Il pavimento a musaico di questa chiesa si rinvenne a due metri sotto il lastricato odierno delle navate. Al di sopra di questo musaico, si scoperse, separato da uno strato di ghiaia grosso un metro, un altro pavimento musivo d’una chiesa veterocristiana le cui colonne in parte sono state comprese nelle fondamenta del duomo attuale.
L'ultimo raggio del sole occiduo di Parenzo sfolgora, dal musaico d’oro della basilica, quando, appena finita la costruzione del sontuoso edificio, gli Slavi fecero la loro prima comparsa, mentre dal Friuli il feudalismo longobardo s’avanzava minaccioso contro gli antichi municipi.
Però non soltanto il fatale andare della storia, ma ben anche «l’aspetto della terra» mutava irreparabilmente, le condizioni d’allora. In vero, la linea di spiaggia andava ritirandosi dal mare, od in altri termini, il mare s’ inalzava, sommergendo i prossimi edifici e serrando la città in più angusti confini. Cosi fu che i rispettivi pavimenti a musaico, come s’è pur constatato nella costruzione delpalazzo dietale, oggidì stanno sotto la linea della mareaIndi, in una parte dell’Istria ai Longobardi seguironoi Franchi, che, elevata Cittanova a sede ducale, ingrandirono il possesso fondiario della chiesa. I vescovi di Parenzo usurparono il diritto di pesca e di pascolo, e già nel 543 si facevano prestare dai cittadini le decime dei frutti e dell’animalìa. Quasi ciò non bastasse, nei dintorni presero stanza i Cavalieri di Rodi, i Templari, gli Olivetani, i Benedettini ed i Francescani. Sulle isole Brioni i vescovi possedevano una salina, del Canale di Leme avevano il diritto di pesca, sul Quieto i mulini, e finalmente giunsero a conseguire tutti i diritti feudali nel territorio di Parenzo, diritti di cui ne fecero abuso non meno prepotente di quello dei loro colleghi d’Aquileia e di Concordia. Il popolo impoverì e per la crescente oppressione tanto s’esasperò, che nel 1297, condotto dal suo podestà, ruppe in aperta ribellione, assaltò l’episcopio ed appiccò il fuoco ad Orsera, residenza estiva vescovile. Il vescovo fuggì a. Pisino. L’esempio della resistenza alle ingordigie dei principi della Chiesa venne per vero da Pola, e precisamente da uno di quella famiglia Sergia, a cui la città istriana dai sette colli è debitrice della Porta aurea ancora adesso tanto ammirata. I Sergi, signori di Pola, avevano nel 1260 una contesa d’investitura col vescovo, ed un giorno — vigeva allora il diritto del pugno — gli armigeri assoldati dai Sergi, penetrati nel palazzo, strapparono al vescovo gli atti processuali e li gettarono in mare.
Malgrado tali episodi, i vescovi di Parenzo poterono salire in potenza di principi a segno che il 3 giugno 1368 ricevettero nella loro corte i rappresentanti dei potenti conti di Gorizia, il prevosto ed il capitano di Pisino, che, genuflessi, prestarono giuramento di vassallaggio per il castello di Pisino, per dieci villaggi, per la decima di Montona, per i mulini di Corte e di Palù, per un terzo del mulino di Gradóle, per la metà del villaggio di Torre e per la decima di S. Lorenzo. La contea vescovile, al cui impiguamento doveva servire anche la falsificazione di documenti, s’estendeva dal Quieto al Leme. Gli Arimanni assieme coi loro servi e coi loro cavalli non erano che feudatari del vescovo, eppure Parenzo dovette cedere loro una parte dei suoi fondi rusticis). Quando a Venezia Federico Barbarossa strinse la pace con papa Alessandro III, fra i testimoni figurava pure il vescovo di Parenzo col suo seguito.
Soltanto ai cittadini di Parenzo, i vescovi non furono mai capaci d’imporre il giogo della loro potenza secolare; il comune era anzi libero ed aveva alla testa alternativamente, rettori, consoli o un podestà eletti dai cittadini.
S’aggiunga poi che, come tutte le città istriane della costa, anche Parenzo aveva in quel tempo un grande appoggio nella crescente potenza dei mercanti di Rialto. Era allora il tempo in cui Pietro Orseolo, uscito colla flotta veneziana per mettere a dovere i Croati ed i Narentani, buttava l’ancora dinanzi a Parenzo affine di pernottare presso alla vigile scolta della città, l’isola di S.Nicolò. La popolazione l’accolse con grandi onori, e d’allora in poi pagò a Venezia un tributo, che nel secolo dodicesimo consisteva di 25 libbre d’olio per l'illuminazione della chiesa di S. Marco e di 20 anitre per la mensa del doge. L’annessione definitiva a Venezia avvenne nel 1267. In quel tempo Parenzo dovrebbe aver su per giù corrisposto alla descrizione del geografo arabo del secolo dodicesimo Abu-Abdallah-Moham-med-al: Città popolata e fiorente con molte navi belliche e commerciali nel porto. Lo splendore e le ricchezze dovevano però ben presto sparire, poiché nel 1354 i Genovesi, entrati in guerra con Venezia, penetrarono nell’Adria, ed insieme con altre città distrussero anche Parenzo. Le case saccheggiate ed arse si ricostruirono, e la pittura della città rinnovata la troviamo ancora nella «Beschreibung und Contrefactvir der vornehmsten Stadte der Welt», Còlln 1574). Dovendo tutte le navi, in viaggio da Venezia per il levante, toccare Parenzo, la signoria di S. Marco fece costruire un faro (1403) sull’ isola di S. Nicolò e sei anni più tardi una grande cisterna in piazza Marafor. Ma la città parve dannata al decadimento. Già nel 1360 la peste ridusse a metà gli abitanti, poi, ricomparsa più volte, Parenzo nel 1580 non contava più di 300 persone. Per le vie cresceva l’erba. I campi ed i giardini intorno al pomerio della città, convertiti in sterpeti inabitabili, furono preda della malaria. A ripopolare quelle campagne Venezia chiamò Dalmati da Zara, Morlacchi, e Greci di Candia. Ciò malgrado fino al tramonto della Repubblica in tutto il distretto di Parenzo non si contavano più di 3000 abitanti.
Sotto il dominio veneto i vescovi continuarono a portare il titolo di conti ed avevano la giurisdizione civile sul Castello d'Orsera; senonchè anche per loro e per le fraterie i bei tempi erano tramontati. Il popolo immiserito, non aveva che a levar lamenti sull’ ingordigia dei monaci, e perciò vediamo (1628) il podestà querelarsi presso il Senato contro i frati di S. Nicolò, perché, invece d’abitare nel loro convento e di servire la chiesa, l'affittavano ai mercanti, che s’erano poi portati via persino la campana maggiore. Si badi: col patrono dei naviganti il popolo voleva restare in buona armonia, ma non poteva andare più oltre coi sacrifici. « Chi serve l’altare viva dell’altare », dice S. Paolo. Ma l’altare di S. Nicolò non rendeva più, la sua santità se n’ era ita ed i suoi sacerdoti non trovarono difficoltà di far denaro per altra Via.
Internandosi nelle anguste strade di Parenzo, l’osservatore s'imbatte ad ogni pie’ sospinto nei ricordi medievali: Queste piccole città si pascono già da lungo tempo di memorie. In vero, fino agli ultimi giorni della Repubblica si combatteva la giostra del Sarazino, testa di moro contro cui s’assestavano i colpi dei lottatori, ed ancora adesso è una specialità degli orefici di Fiume il lavorare a smalto delle teste di moro a ricordo delle zuffe coi Saraceni. A Parenzo la giostra era una festa popolare di cui s’ha una descrizione che risale al 1745). Allora era patrono della festa « Sua Eccelenza Andrea Dona capo dimare. Vi prendevano parte otto giostratori con padrini a cavallo. Presso alla città, sulla Piva del mare, il popolo accorreva in folla dietro i sedili del campo e sul mare gli schifi e le galere rigurgitavano di spettatori in parte anche mascherati. Circondata da donne e da una corona di fanciulle, troneggiava la regina della festa, la bella Barbaro.
Cento soldati coi loro ufficiali avevano l’ incarico d’impedire qualunque disturbo. Al vincitore della giostra s’assegnava come premio un paio di pistole lavorate artisticamente.
Come a Capodistria, cosi anche a Parenzo, le case di stile gotico veneziano sono frequenti, ma fra tutte ve n’è una che è una specialità di Parenzo ed è la canonica, in architettura del secolo decimoterzo, quella stessa, ove abitavano i sacerdoti autorizzati a riscuotere le decime. I ruderi romani della piazza Marafor, l’antico Foro, ci preparano alle impressioni di cui Pola ci sarà generosa, e la Via sclavonica, colle sue tombe romane, ci ricorda la via Appia.
Oggigiorno Parenzo s’ebbe pure la ferrovia sclavonica, ferrovia costruita dalla maggioranza dietale italiana e battezzata nelle stazioni di nomi slavi dalla minoranza slava; già, le scritte slovene non devono mancare, quantunque ad ogni contadino dell’Istria corrano spediti soltanto i nomi storici e non già quelli slavi, di novo conio, per cui, s’egli sa leggere, gli bastano perfettamentte i nomi italiani.
Da Parenzo a Trieste la ferrovia locale attraversa l’Istria ubertosa di nordovest. Anzitutto il binario segue l’antica strada romana, poi piega a ponente verso Villanova, Visignano e S. Domenica e, passando al di sopra di Visinada, giunge presso Montana. A Visignano, in una regione oggi disabitata in causa della malaria, si possono vedere i ruderi del convento dei Benedettini di S. Michele Sottoterra, e nelle vicinanze, Nigrignanum e Rosarium, sparite nel medioevo. Su d’una eminenza sta l’ex convento dei Terziari, detto della Madonna dei campi, i cui monaci nel secolo decimosesto e nel decimosettimo facevano sentire la loro presenza con la condotta poco edificante e.... coi messali glagolitici. Quando una volta il vescovo si recò da loro per la visita pastorale gli chiusero le porte in viso. Visinada, come Pirano, possiede un cisternone costruito nel 1782 da Simeone Battistella.
Per la selva di Montona discendiamo a passo lesto nella Valle del Quieto, e traversato il fiume nei pressi dell’antico ponte, torniamo a salire sull’altipiano di Buie.
La ferrovia passa presso Grisignana, borgata a 228 metri dal livello del mare e prospiciente sulle foci del Quietò.
Della sua passata romanità parlano le iscrizioni, le monete ed i musaici trovati nel terreno, come pure i termini toponomastici dei dintorni; la sua storia medievale è legata ai nomi di Ulrico di Gorizia e di Ulrico di Beifenberg; nel 1358 quest’ultimo vendette il castello ai Veneziani per 4000 ducati. Grisignana era cinta di mura robuste; dinanzi alla porta principale ancora ben conservata s’estellono tre lodogni (Celtis australis) a cui s’attribuiscono duecent’anni d’età; lì appresso sta la Loggia, edificio antico, in cui si tenevano le sedute giudiziali, poiché Grisignana si reggeva per statuto proprio. Questo statuto si conserva nell’ archivio comunale, in un rogito del 1558).
La ferrovia locale prosegue per Buie, Castelvenere,
Porto Rose, Isola, Oapodistria, e Muggia, luoghi già noti al lettore.
Nella solenne tranquillità della basilica eufrasiana il fischio della locomotiva risuona come voce d’altro mondo.
Musaicisti romani vi lavorano intenti a ridonare alle pareti l’antico splendore bizantino, poiché Vienna, già circa, il 1880 andò intendendo come dopo l’incendio di S. Paolo a Roma, la basilica di Parenzo insieme co’ suoi musaici, col suo atrio, col suo battistero sia diventata senz’altro il più importante monumento, anzi l’unico, ancora esistente in tutto il mondo, di stile veterocristiano. Interessati i fattori competenti, e su proposta degli archeologi di Parenzo e dell’ ingegnere superiore Tommasi, si concretò il seguente piano di ristauro: riapertura delle finestre delle navate laterali, demolizione delle lesene delle pareti delle navate laterali e ritorno alla superficie liscia; segregazione delle due cappelle laterali mediante muri con un’apertura centrale ad arco; riapertura delle incavalature del tettamediante rimozione del soffitto delle tre navate; policromia della travatura; ripristinazione delle finestre ad arco rotondo nella navata di mezzo in guisa che sopra ogni colonna sia una finestra ; ricostituzione dell’antico altare eufrasiano (da cui il celebrante è rivolto verso i fedeli); compimento del coro e ristauro de’ suoi stalli. Si espresse pure l’avviso che, qualora il restauro già in corso dovesse estendersi a quelle pareti in cui v’erano musaici, cioè nelle conche delle absidi laterali e nell’atrio, e qualora si restaurasse pur l’atrio ed il battistero, si dovrebbe pure decorarla con pitture consone ai musaici dell’abside, affinchè ne risulti un’ impressione armonica perfetta. Il ristauro del musaico dell’arco trionfale fu compiuto nel 1901. Il prof. Gai di Roma completò le figure uniformandosi a quelle di S. Lorenzo fuori le mura, il che però non appaga il prof. Strzychowsky di Graz) il quale è del parere che si sarebbe dovuto prendere a modello il musaico berlinese di S. Michele in Affrisco di Ravenna.
La Commissione centrale di Vienna non fu mai soverchiamente compresa dall’ importanza di questo duomo, prova ne sia che il dotto prof. Gabriele Millet, coll’ appoggio del governo francese, sta preparando la pubblicazione « Monumenta de l'Art Byzantin » in cui saranno riprodotti a disegno anche i musaici della basilica eufrasiana. A spese della provincia d’ Istria il Millet fece nella basilica altri scavi che lo condussero ad interessantissime scoperte speciali.
Parenzo è pure la sede della « Società d’archeologia e storia patria » che coi tipi di Gaetano Coana, pubblica annualmente due volumi dei suoi atti. Gli «Atti e memorie » sono una collezione ricca di materiali storici di grande valore; tali sono le relazioni d’ambasciatori e di provveditori (prefetti, luogotenenti) della Repubblica veneta, gli statuti di Veglia, d’Isola, di Capodistria, di Pirano, di Buie, di Cittanova, di Parenzo, di Pola, d’ Umago, di Due Castelli, di S. Lorenzo del Pasenatico, di Pinguente, di Valle, d’Ossero, di Muggia e di Montona ; tutto suppellettili scientifiche, le quali — come accentua il Morteani nella sua prefazione allo statuto d’Isola — bene vagliate alla stregua del paragone potrebbero gettare nova luce sulle costumanze antiche, sui principi giuridici d’una volta, e così via. Gli Atti e memorie » contengono inoltre documenti bizantini dell’archivio arcivescovile di Ravenna, regesti estratti dagli atti del Senato, «Parti» (decisioni e decreti) del 1293 in poi e conchiusi dal 1440 al 1797, ricca miniera per lo storico; oltre a ciò pubblicazioni di storia letteraria del secolo decimoquarto e del decimoquinto ed una moltitudine di altri vari materiali archeologici.
L’Istria ha una falange di dotti valenti, versati nelle ricerche e nella elaborazione della storia provinciale. Per esser brevi menzioneremo: l’avvocato D.r Amoroso a Parenzo, il prof. D.r Bernardo Benussi a Trieste, il prof. Matteo Calegari a Milano, Paolo Deperis, Emilio Frauer a Trieste, il D.r Felice Glezer a Pola, il D.r Antonio Ive prof, d’università a Graz, il prof. Silvio Mitis a Pisino, Il prof. Luigi Morteani a Trieste, il prof. Stefano Petris a Cherso, il D.r Antonio Pogatschnig a Parenzo, il prof. D.r Alberto Puschi a Trieste, il giornalista Francesco Salata, il D.r Bernardo Schiavuzzi a Pola, il D.r Marco Tamaro a Parenzo, il prof. Giuseppe Vatova, il Direttore scolastico Giovanni Yesnaver.
Sotto la direzione della Società storica istriana sta
pure il Museo provinciale di Parenzo. Nel battistero del duomo il compianto parroco Deperìs creò un museo veterocristiano, e nel palazzo della Giunta provinciale si raccolgono i preziosi cimeli preistorici dei Pizzughi, di Vermo, d’Ossero e di Villanova al Quieto; ivi potete vedere armille di bronzo, anelli, aghi crinali, spirali, ciste, elmi, vasi di terracotta e resti umani carbonizzati.
Delle reliquie preistoriche dei Pizzughi si ha una relazione del conservatore Pietro Fervanogli!, pubblicata nel 1884 negli atti (Mittheilungen) della Commissione centrale per la conservazione dei monumenti.
Contemporanei a quelli dei Pizzughi sono gli scavi di Vermo presso Pisino. Nel medio evo, Vermo era luogo fortificato ed accessibile soltanto per un doppio portone; allora i Tedeschi lo chiamavano Bern. I Franchi, sottentrati nella contea di Pisino, lo hanno probabilmente ricostruito. In questa zona istriana, una volta aggregata alla Confederazione germanica, è la cappella di S. Maria delle Lastre, in cui i Tedeschi lasciarono un quadro figurante una danza macabra. Il D.r Amoroso fa risalire le suppellettili preistoriche di Vermo al quinto secolo prima della nostra èra, anzi vi trova concordanza con quelli della prima epoca del ferro d’Este, di Villanova, di Bologna, di Vadena nella Yal d’Adige, di S. Margherita, di Zirknitz nella Carniola e di Maria Rast nella Stiria. Il terrenodi Vermo ribocca di cocci, d’ ossa e di denti d’ animali.
Notabili fra gli oggetti trovati sono le cuspidi di pietra focaia, le uniche finora trovate nell’ Istria, di certo introdotte per iscambio, poiché nell’ Istria la pietra focaia non esiste. Un'urna d’argilla nera mista a carboni, abbastanza, ben conservata, si distingue per i suoi ornamenti graffiti a scacchi. Ai piedi del colle, nel letto d’ un torrente si rinvenne una cista di bronzo figurata, che, come l'urna, suaccennata, conteneva resti di cadaveri combusti ; nell’estrarla dalla terra andò in frantumi. Le reliquie poste in luce si conservano in parte a Vienna, in parte nel Museo provinciale di Parenzo. Una bella urna orciolata contenente resti di salme combuste e spilli di ferro è descritta, e disegnata dal conservatore Schramm negli atti (« Mittheilungen », 1884) della Commissione centrale per la conservazione dei monumenti storici.
Adesso i discendenti dei primitivi abitatori pelasgi, dei coloni romani e degli immigrati candioti vivono immersi nel bagliore calmo del tramonto; non più erigono templi, non più inalzano statue d’oro, ma meditabondi stanno esumando dal terriccio dei castellieri le suppellettili consunte degli avi; riparano i musaici cariati della basilica sprofondandosi nel passato grandioso della loro patria.
Sull’agro circostante alle porte della città si stende l’ombra, della notte; mirate: là dimora un popolo che vuole dimostrare il suo diritto d’incoiato col mettere tabelle slave sulle strade da esso non costruite e col recidere con ferromortifero le viti che non ha piantate.
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